Quello che segue e'
l'intervento di Giuliano Amato pubblicato nel libro "Dio, la Morte e il Mistero"
(Mondadori, 1998) che raccoglieva scritti di Ugo Amaldi, Ennio Antonelli, Pietro Citati,
Roger Etchegaray, Bruno Forte, Attilio Nicora, Camillo Tuini, Angelo Sodano e Dionigi
Tettamanzi
Vorrei ringraziare il cardinale per loccasione che ci offre di
discutere insieme, di provare insieme a vincere la pigrizia di una quotidianità talmente
assorbente da farci dimenticare le cose che contano. Forse ha ragione Lei, passare da
questa pigrizia alla considerazione di un millennio intero è esorbitante per qualunque
essere umano. Tuttavia è difficile non porsi il problema di un millennio che finisce e di
tutti noi di fronte al passaggio.
Partirei allora da una constatazione. Finisce un millennio che iniziò
con la grande paura che il suo arrivo fosse anche larrivo della fine del mondo. E
finisce un secolo che iniziò invece con la grande speranza che alla scienza e al
progresso mancasse soltanto lultimo passo per rendere gli uomini per sempre felici
(poi questo secolo ci avrebbe dato due guerre, i totalitarismi, i milioni di esseri umani
uccisi da altri esseri umani). Il millennio e il secolo che sono ora alla fine terminano
insieme con una grande speranza e una grande paura.
Comincerei a spiegare il perché, ricordando il modo un po
bizzarro con il quale un grande studioso delle civiltà, Norbert Elias, illustrava la
qualità specifica degli esseri umani in quanto esseri naturalmente sociali, creature per
le quali il rapporto tra lio e gli altri è irrinunciabile. Elias diceva che noi
siamo diversi dalle palle da biliardo perché queste si incontrano e si scontrano mille
volte sul tavolo verde, ma dopo lincontro e lo scontro rimangono quello che erano
prima, non sono cambiate. Se invece si incontrano e si scontrano due esseri umani, essi,
dopo, sono necessariamente diversi da quello che erano prima. Per noi qualcosa
dellaltro diviene sempre parte dellio.
Ebbene, se Elias fosse oggi con noi alla fine del secolo, troverebbe
nei tratti e nei caratteri della nostra convivenza le ragioni della grande speranza e le
ragioni della grande paura. E ripenserebbe alle palle da biliardo. Vedrebbe ora una folla
di uomini, donne, bambini per più versi in condizioni tanto migliori di quanto fossero
decenni fa. Riconoscimento di libertà, affrancamento da vecchie schiavitù, parità
riconosciute dove prima cerano ingiuste gerarchie, diritti fondamentali che hanno
preso ad andare al di là delle carte che originariamente li riconobbero ad alcuni
soltanto e a conquistare piano piano razze diverse e continenti diversi. Quando fu scritto
che tutti gli uomini furono creati uguali ciò significò in concreto che
"uguali" erano soltanto i maschi anglosassoni bianchi. Ma la forza inesorabile
del principio fu tale che, nel corso di decenni, la parola "uomini" prese a
significare "esseri umani" e divennero inesorabilmente uguali uomini e donne,
neri e bianchi, ricchi e poveri, gialli e quantaltro. Questo divenne un principio
non sempre praticato ma ineludibile e il secolo si chiude con il miracolo del Sudafrica.
Tuttavia in questo mondo sempre più aperto, attraversato ormai senza
più confini né di luogo né di tempo da milioni di esseri umani, in genere attratti
dalla maggior ricchezza dei paesi in cui noi abbiamo avuto la ventura di vivere, Elias
vedrebbe quegli stessi uomini, donne e bambini che si affollano nelle strade delle nostre
città, che si incontrano nelle case delle nostre città, vivendo sempre più spesso
ciascuno una propria vita separata da quella degli altri, ognuno preso da se stesso,
incapaci di dare agli altri o di ricevere dagli altri qualcosa di più di una distratta
attenzione.
Davanti a questo fenomeno, che ha una capacità diffusiva non
inferiore, paradossalmente, al riconoscimento ineludibile da parte di ciascuno dei diritti
degli altri, Elias penserebbe forse che la differenza tra noi e le palle da biliardo stia
piano piano scemando. Ne sarebbe, credo, fortemente preoccupato, non solo come studioso
delle civiltà, ma come uomo interessato ai meccanismi del governo sociale e collettivo,
perché queste palle da biliardo, quali siamo noi oggi, sono sempre più numerose: di
colori diversi, di culture diverse, di tempi storici diversi, di durezza diversa.
Cè chi è duro, cè chi è fragile.
Allora la domanda alla quale più penso alla fine di questo secolo è:
quale convivenza, quale solidarietà è possibile sviluppare se, con un dialogo reso già
difficile da queste ragioni di diversità crescente, di moltitudine crescente, ciascuno
rischia di essere abbandonato a se stesso, giacché abbandonati a se stessi sono tanto
coloro di cui nessuno si occupa quanto coloro che si occupano soltanto di sé? Quali
rischi di violenze improvvise o di autoabbandono in chi è stato lasciato solo?
Permettetemi un po di sana retorica: tempo addietro un pastore macedone è stato
arrestato perché aveva commesso, sembra, degli orribili delitti che ebbero per vittime
delle ragazze. Ci siamo mai domandati che cosa poteva avere nella testa questa persona
venuta da un altro paese, mandata lassù in montagna a pascolare pecore, lavoro che pochi,
tra noi italiani, continuano a fare? Se aveva fantasie, preoccupazioni, angosce, con chi
poteva condividerle?
Dicevo una volta, quasi scherzando su questo, a don Vincenzo se si
ricordava di Taxi driver, un vecchio e famoso film, dove tutto di botto una persona sola,
che aveva vissuto una vita grigia, senza colore, senza esperienze, diventa un violento
criminale. Io sono un cultore della responsabilità individuale, ma non posso non
chiedermi perché questa violenza esploda e quale rapporto ci sia tra la solitudine e tale
violenza. Daltra parte rischi ne corre anche chi si è indurito nellesercizio
egoistico delle proprie libertà, incapace di vedere le devastanti diseguaglianze, e le
conseguenti violenze, che possono venirne, non solo tra singoli ma tra popoli interi.
Sono problemi non soltanto etici, se si può usare il
"soltanto" accanto allaggettivo "etici", perché investono il
governo stesso delle nostre società, giacché questo per più di tre quarti, e forse
anche di più, dipende dalle miriadi di decisioni che ciascuno di noi prende su se stesso
e sui rapporti che intrattiene con gli altri. In società sempre più democratiche e
libere siamo noi che governiamo linsieme perché, permettetemi la banalità
professorale dellesempio, il giorno in cui tutti decidessimo che il colore dei
semafori è irrilevante, non ci sarebbe istituzione in grado di mantenere lordine ai
crocicchi. E in realtà tre quarti della nostra vita sono ormai regolati da semafori che o
stanno dentro di noi oppure non ci sono. I governi galleggiano su tutto questo,
intravedono a distanza la superficie di tutto questo, procedono spesso a tentoni davanti
alle increspature che riescono a vedere sulla superficie. Al di sotto di questa ci siamo
soltanto noi, ciascuno nel suo rapporto con se stesso e con gli altri. Non è un caso che
le cose stiano così, è uno dei frutti, per un verso necessari per laltro soltanto
possibili, del lungo processo storico che ha portato a riconoscere in ciascuno di noi un
essere libero munito di diritto; un lungo processo che è stato a un tempo liberatorio e
gravido di rischi, fonte di bene e di male. Non vi stupirete se in questo luogo vi ricordo
che, da quando una certa mela fu mangiata, il bene e il male si presentano insieme e ci
pongono davanti al dilemma della scelta. La libertà è questo. Un grandissimo studioso,
morto anchesso poco tempo fa, Isaiah Berlin, lo ha spiegato, con parole che altri
non hanno avuto in questo secolo: la libertà è il dilemma della scelta, ed è sempre la
scelta tra il bene e il male.
Per capire come mai questa scelta ci abbia reso tutti più soli e più
responsabili di noi stessi e del governo della società in cui viviamo occorre ricordare
che la progressiva affermazione dei diritti e delle libertà di tutti e di ciascuno ha
rotto gradualmente i modelli organizzativi di tipo gerarchico attraverso i quali era
garantito, in precedenza, lordine sociale ed erano assicurate, imposte le
responsabilità verso gli altri.
Prima di Grozio, prima di Locke, prima delle grandi rivoluzioni,
lordine sociale e anche lordine morale passavano per impulsi gerarchici
attraverso comunità gerarchicamente ordinate. Cera unistituzione superiore
che trasmetteva impulsi gerarchici attraverso gli eserciti, che li faceva passare per le
organizzazioni di mestiere e di professione, che li trasmetteva notate non
ai componenti delle famiglie ma ai patres familiarum, lultimo terminale. A quel
punto la questione era loro, era affidata alla loro potestas, patria e maritalis. Il
potente moto di libertà che ha attraversato le società democratiche occidentali in
questi due secoli, e che sta ora dilatandosi nel mondo, ha corroso le gerarchie e ha
avviato il grande sogno di società fondate sulla libera accettazione delle
responsabilità. Gran parte delle regole che prima poggiavano sullautorità di
qualcuno vivono ora, se vivono, nelle coscienze di ciascuno di noi.
Il problema delle palle da biliardo nasce perché tali regole non
vivono nelle coscienze di ciascuno di noi. E questo pone langosciosa domanda se il
sogno di questi due secoli fondamentalmente europei e degli Stati Uniti dAmerica,
che sono diventati il modello del mondo, sia stato e sia un sogno faustiano, una tremenda,
esorbitante ambizione.
Ogni tanto lo penso, ma mi rifiuto di crederlo perché credo
profondamente nella libertà di tutti e di ciascuno e la vedo, inesorabilmente, come
unimplicazione naturale del riconoscimento dellaltro e dello stesso principio
di eguaglianza. Se la norma fondamentale della vita umana è: io esisto in quanto
laltro esiste e se riconosco diritti a me stesso, tali diritti sono riconoscibili
solo in quanto li riconosco anche allaltro. Se questa è leguaglianza, allora
non possiamo che essere tutti liberi, ed essendolo ciascuno di noi non può non essere
responsabile dellaltro. La vedo come una regola inesorabile, dove la libertà è
essenziale al riconoscimento dellumanità e della relatività dello stare insieme e
dove la libertà porta in sé il principio della responsabilità. Ma la libertà è il
bene e il male, è la scelta che ciascuno di noi fa mille volte al giorno tra opzioni
diverse, senza avere, se volete, il vantaggio della irresponsabilità, di poter dipendere
da un ordine e dallattesa che gli venga dato.
Il problema perciò diventa inesorabilmente questo: tale crinale tra il
bene e il male, lorientamento verso la scelta giusta, con quali risorse si riesce a
renderlo percepibile? Qui ci vorrebbe un discorso più lungo di quello che abbiamo il
tempo di fare, ma voglio almeno accennarvi che queste risorse sono tante e troppo poco
pensiamo a utilizzarle come tali: la famiglia, la scuola hanno perso, come altre comunità
intermedie, la loro valenza gerarchica, ma sono ancora comunità. A quali condizioni la
famiglia può essere ancora, deve essere ancora una risorsa per aiutare i suoi componenti
alla scelta giusta davanti a quel dilemma? In qual modo va organizzata, in qual modo si
possono intrattenere i rapporti tra i suoi componenti? È la domanda che ciascuno di noi
si deve fare: la mia famiglia è ancora una comunità? O è un luogo dove ci incontriamo
badando poi ciascuno a se stesso, è soltanto la casa che condividiamo perché ognuno di
noi ha lì un letto, padri e madri, coniugi, figli, fratelli? La scuola è ancora, per
usare un linguaggio gergale, un efficace veicolo di socializzazione dei giovani, di
avviamento a valori e responsabilità? Gli insegnanti considerano questo un loro problema
al di là del programma da svolgere? Cè, tra le loro responsabilità, quella di
addestrare gli allievi alle responsabilità? E a quali condizioni questo può accadere?
Nel contesto delle risorse di cui abbiamo un disperato bisogno perché
il tessuto collettivo tenga, perché la nostra società abbia un ordine morale che è
irrinunciabile, dopo che rinunciabili si sono dimostrate le gerarchie attraverso le quali
era passato secoli addietro, un ruolo grandissimo lo ha la religione. Anzi lo hanno,
permettetemi di dire così, le religioni. Un ruolo superiore a quello che le altre risorse
di cui disponiamo possono giocare. È un ruolo che la religione, in particolare quella
alla quale aderisce la maggioranza della nostra popolazione, ha già avuto storicamente e
che è stato essenziale non soltanto ai tempi delle gerarchie, ma nei primi secoli della
libertà.
Leconomia di mercato, leconomia migliore o la meno peggio
che il mondo abbia inventato, quella più capace di creare ricchezza e di diffonderla, sia
pure tra mille diseguaglianze, è fondata sul principio che il numero più ampio possibile
di scelte deve essere lasciato alloperatore economico senza intrusioni delle
autorità. Proprio per questo è essenziale che quelloperatore sia guidato anche da
principi morali, che non gli devono venire dalla legge.
Letica del capitalismo, finché questo ne ha avuta una, è stata
letica religiosa degli operatori economici. Annoierò coloro che non amano Thomas
Mann ricordando cento volte che Gotthold, un membro della famiglia Buddenbrook, diceva:
"Le parlo con lo spirito di giustizia del cristiano e delluomo
daffari". Ed era uno spirito di giustizia che non gli era imposto dalla legge
e, ripeto, guai se glielo avesse imposto la legge; gli veniva dal suo essere cristiano, il
che copriva uno spazio essenzialissimo.
Una domanda che le religioni devono porsi è perché, in questo secolo,
non sono riuscite a guidare moralmente il mercato. Perché i figli di Gotthold hanno
tralignato? Tale domanda riguarda anche la religione. Forse in questo secolo la lotta
contro un nemico che è stato ritenuto mortale ha fatto allentare la tensione su altri
fronti. Molta acqua, anche sporca, è passata sotto i ponti in nome di una guerra che era
ritenuta santa e per più versi era giustissima, una guerra combattuta fortunatamente
senza violenza militare, perché poi quel totalitarismo si è spento da solo. Però qui
una domanda rimane aperta.
È un fatto comunque che oggi siamo tutti alle prese con questo nuovo e
sempre più esteso fenomeno della folla solitaria, di esseri umani non solo soli ma
difficili da raggiungere nelle loro coscienze individuali (badate, io ho fatto per anni
esperienza politica, ma da quel posto vedevo soltanto i grandi numeri, parlavo a
categorie, avevo bisogno di essere capito dai singoli, ma erano al di là della gittata
della parola di un presidente del Consiglio). Ebbene, davanti a tutto questo vi siete mai
domandati perché Sua Santità e le "rock star" sono gli unici che riescono a
mettere insieme un milione di persone in una gigantesca spianata e perché io non ci
riuscivo e non ci riescono neanche coloro che sono venuti dopo di me? Perché le
"rock star" cantano canzoni e suonano una musica che ciascuno, tra le migliaia
di giovani che ascoltano, percepisce come cantata personalmente per lui o per lei, o come
qualcosa che parla direttamente di lui o di lei. Quando Sua Santità parla a un milione di
persone, non parla a una folla, ma a ciascuno. Ognuno di loro ha la sensazione che stia
parlando a lui o a lei. Da dove viene questa sensazione? Qui contano anche le qualità
umane e io considero il Papa polacco uno degli esseri più straordinari che il secolo
abbia avuto e a volte tendo a stare dalla sua parte più di quanto altre persone come me
in genere facciano. La mia sensazione è che questuomo straordinario, al di là
della sua attenzione ai dogmi, alle verità della religione, si presenti come una persona
la cui fede è amore per gli altri. Quando il Papa parla si capisce che si sta
interessando degli altri e che lo fa con quella leggera (laggettivo
"leggera" lo intendo come espressivo di gioia e non di dovere) sensazione di
simpatia verso gli altri, che le persone colgono; come lho colta io, parlandoci da
vicino e da lontano.
Ciò porta a un punto importantissimo: la risorsa delle religioni è la
fede, in quanto la fede è matrice di amore per gli altri. Questa è la mia deduzione.
Dico ciò perché chi, come me, si è nutrito di etica laica ha gli stessi principi ma
forse non ha lamore. Letica laica è fatta di severità, di principi
rigorosamente accettati perché inesorabilmente veri e perciò può coinvolgere delle
élite ma non può raggiungere il cuore di quei milioni di esseri umani soli, chiusi
ciascuno in se stesso, che vengono raggiunti dallinteresse che può esserci solo
nellamore.
Un laico sa amare alcune persone e le sa amare anche molto. Ma non
riesce ad amarle tutte. Non accade, non mi chiedete perché non accade. La fede riesce a
far amare gli altri e ci sono stati esempi grandissimi di persone di fede che hanno
dimostrato con tutta la loro vita che il loro amore poteva essere per chicchessia. Madre
Teresa è stata questo. Forse non curava come un medico i suoi tanti derelitti, però
andavano da lei perché persone alle quali nessuno aveva pensato e che erano abbandonate
sui marciapiedi ricevevano un atto damore magari prima di chiudere gli occhi. Lei
non faceva parte del sistema sanitario indiano e, al di là delle attenzioni mediche, ciò
che faceva era unaltra cosa, vale a dire: "Ti ho riconosciuto". Dubito che
senza la fede ci sarebbe riuscita.
Naturalmente non tutti possono, permettetemi di dirlo, usare la fede
come la usava lei o come fa il Santo Padre. Non a caso la Chiesa, che ha una indubbia
saggezza, di Papi ne nomina uno solo alla volta. Però questa risorsa ce lha
chiunque la possa avere, e chiunque la può fecondamente usare, se è vero quello che
dicevo prima sul governo dellinsieme che sta sotto la superficie, nei microrapporti
che ognuno può instaurare con ciascun altro. E in primo luogo, badate, nel mondo di cui
ogni persona fa parte, nella sua stessa famiglia. Io insisto su questo: ci sono tanti modi
sbagliati di amare i propri figli, scaricando loro addosso la trepidazione egoistica per
lansia che ci suscitano le loro prime esperienze di libertà. Ma è segno di un
amore ancor più grande trattenere questa trepidazione egoistica e capire con loro le
ansie e i timori che suscita in loro questa prima esperienza di libertà. È anche
spaventosamente difficile ed esige quellamore che è amore per laltro e non
amore per me riflesso nellaltro.
Insomma: in una società nella quale il crinale tra il bene e il male
va trovato nelle coscienze, la fede è una chiave straordinaria per entrare nelle
coscienze. Mentre so e ne devo prendere atto che la chiave di cui io
dispongo è più piccola e apre meno porte.
Quando feci questo ragionamento a Padova a un interlocutore di
grandissimo valore, un vostro più giovane collega, larcivescovo di Vienna, uomo
acuto e intelligente, ne ebbi questa replica: "Ho capito, ma lei cosa vuol fare? Vuol
mettere la Chiesa, che in primo luogo è gerarchia, a disposizione del suo progetto laico
di una società che funziona attraverso la pura autoaccettazione delle
responsabilità?". Gli risposi a mia volta che gli davo atto di questo. Non discuto
infatti la Chiesa con le sue gerarchie interne, so perfettamente che non esiste
organizzazione che non abbia gerarchie. So anche però che ormai la Chiesa stessa,
salvaguardi pure il suo interno assetto gerarchico, se vuole entrare in milioni di
coscienze, attraverso le gerarchie comunque non ci riesce, deve scegliere unaltra
strada. E possiede tale strada, purché la sua fede si presenti come amore per
laltro, non come pretesa di verità, ma come testimonianza di verità.
È in questa chiave che leggo, come una straordinaria indicazione per
il terzo millennio, la ripetuta, sofferta attenzione di Sua Santità per le altre
religioni. E così leggo i perdoni che ha chiesto, i tentativi di cercare ciò che
accomuna le religioni anziché ciò che le divide. Nel fare questo mostra una grande
lungimiranza in un mondo in cui cadono i confini ma persistono le diversità; in un mondo
in cui tanti esseri umani, costretti ad affermare una propria identità in città
straniere, trovano le ragioni di questidentità nella loro religione originaria e ne
fanno unidentità dirimente, discriminante, divisiva. Cè qui un germe di
fondamentalismo religioso che entra nelle stesse società occidentali e non si limita a
segnarne un pericoloso confine. Allora questo sforzo di Sua Santità di ricondurre a una
chiave comune le religioni, a ciò che unisce, ai valori che ci uniscono, alla rinuncia
delle pretese di verità, lo trovo straordinariamente importante per dare forza, non alla
paura ma alla speranza nel terzo millennio.
Lesempio e non la pretesa. Lesempio sorretto
dallamore, perché è questo che elimina le differenze. Francesco pensava che per
togliere le differenze bisognava essere tutti nudi, e difficilmente una impostazione del
genere può essere condivisa da milioni di esseri umani. Questa pretesa probabilmente è
eccessiva come in genere lo sono le posizioni di questi grandi personaggi della storia, ma
lamore è già un far cadere la differenza, anzi un impegno a ridurla e così viene
percepito.
Del resto, ci sarà pure una ragione perché un personaggio come Cristo
sia ammirato da tutti nella storia a prescindere dal fatto che si sia o no cristiani.
Tanti sono stati criticati aspramente, perché questa figura è sottratta alla critica
anche da parte di chi non ne condivide il terreno religioso? Perché rappresenta chi vuole
essere esempio portatore damore e non assertore coattivo di verità.
Allora non ci sono verità, cè soltanto amore. Non è un
po troppo pagana unaffermazione simile? Ci sono alcune ineludibili verità,
quelle senza le quali si nega il pilastro delledificio, il riconoscimento
dellaltro, senza le quali nego anche me stesso e quindi il fondamento morale della
mia stessa libertà. È quello che Kant considerava universale. Allora, se è così, lo
dico e continuerò a dirlo, nessuno uccida Caino, nessuno uccida la vita che è sbocciata.
Non è questione né di opinioni né di fedi, è ciò su cui, da decenni ormai, io
combatto. Etiche laiche ed etiche religiose dovrebbero percepire di avere ununica,
sicura e condivisa verità, che è poi quella che ci rende, e spero continuerà a
renderci, diversi dalle palle da biliardo di cui parlava Elias.