Sulle posizioni di Beck, che non mi
convincono, mando il mio articolo apparso sul "manifesto" del 28 aprile.
Bruno Accarino <accarino@dada.it>
Il "pacifismo militare" (questa guerra umanitaria è
unorgia di ossimori), sostiene Ulrich Beck nei suoi ultimi interventi, è figlio di
una situazione inedita. Il passaggio dalla guerra di Clausewitz a quella post-nazionale si
realizza come iscrizione, sulle bandiere occidentali, dei diritti umani. La Nato non ha
più nemici in senso proprio, il suo è ormai un compito di approvvigionamento: reperire
nuove fonti di legittimazione per istituzioni occidentali impossibilitate a rinvigorirsi,
o semplicemente a riprodursi, ricorrendo alla leva dellanticomunismo. I paesi
occidentali sono circondati da amici, nel senso che devono temere, e gestire come
una minaccia, questa omogeneità dei paesi limitrofi. In questo clima da crociata
democratica o da missionarismo cosmopolitico, può attecchire qualsiasi abuso imperiale, a
tacere poi degli effetti di escamotage della guerra: sarà sempre più facile partecipare
ad un bombardamento che dimezzare i tassi di disoccupazione.
A Beck (sulla cui analisi della globalizzazione è intervenuto Sandro
Mezzadra nel manifesto del 2 aprile scorso) è già stato obiettato, e il discorso
è stato ripreso in Italia più volte da Rossanda, che lagonia degli Stati nazionali
sarà pure un processo irreversibile, ma per ora non sembra essere così rapida; e che
perfino nella sua stagione classica, quella illuministica, il cosmopolitismo si è
spogliato di escrescenze moralistiche e, con Christoph Martin Wieland e con Immanuel Kant,
si è dato fondamenti solidamente giuridici, vincolandosi ad unipotesi internamente
repubblicana, ed internazionalmente federalistica, che respingeva lindeterminatezza
di un richiamo alla fratellanza universale. Sarà comunque ben difficile che sulla spesa
pubblica, sulle strategie pensionistiche, sui servizi sociali, non si arrivi ad aspri
scontri allinterno del fronte europeo; e a gestire questi conflitti saranno, per un
tempo prevedibilmente lungo, gli Stati nazionali.
Tra le motivazioni di quella che passa pur sempre per essere una guerra
giusta cè comunque anche questa: le democrazie occidentali sono ormai prive di
nemici. Hanno bisogno, e avranno sempre più frequentemente bisogno, di mostrare i
muscoli, come a colmare un deficit di legittimazione intervenuto dopo la fine
dellassetto bipolare del mondo. La complicazione è questa: le immagini del nemico
sono, rispetto agli stereotipi dello straniero e ai pregiudizi razziali,
drammaturgicamente gonfiate. Esse autorizzano alla guerra e alluccisione, respingono
ogni istanza arbitrale, surrogano il consenso interno. Nel calcolo di potere sotteso alle
immagini del nemico, la dimensione etnica viene giocata come una variabile
originaria, ma è in realtà un costrutto, un artificio politico-burocratico.
Cè qualcosa, in questo discorso sul vuoto di ostilità
condannato a riempirsi, che rischia di assumere connotati misticheggianti. Democrazie
senza nemici? Non scherziamo. Se ci si riferisce alla democrazia come forma di ordinamento
politico-istituzionale, è impensabile che essa non abbia nemici, perché è il più
stravagante, il più bizzarro, il più controintuitivo degli esperimenti della civiltà
politica di tutti i tempi. Va difesa tutti i giorni dai nemici con cui ha impattato per
nascere e da quelli che produce in modo endemico: su questo la cultura comunista italiana
ha insegnato cose indelebili, altro che sindrome dellaccerchiamento e
anti-atlantismo di principio. Se ci si riferisce invece alle democrazie occidentali
attuali, ai loro governi e alle loro strutture statali, è assai dubbio che siano
sprovviste di nemici, e assopite nel loro taedium pacis foriero, per
contrappasso, di venti di guerra , giacché sono alle prese con le più gravi
diseguaglianze sociali e con i più pesanti squilibri occupazionali del dopoguerra.
Perfino linstabilità governativa ha cessato di essere una prerogativa
esclusivamente italiana. Del resto, una datazione più ravvicinata non guasterebbe: in
quali anni, e fino a quando, i paesi occidentali hanno attinto in modo parassitario e
inerziale al pozzo di S. Patrizio - alimentato dallesistenza della cortina di ferro
- di una legittimità automatica e gratuita? Fino al 1989? È inverosimile, perché a quel
punto limmagine del nemico sarebbe stata da lunga pezza quella di un fantasma
sconfitto il socialismo reale e non quella di un rivale seriamente e
pericolosamente competitivo.
In Germania cè molta irritazione per le più dopolavoristiche
analogie con la seconda guerra mondiale, e probabilmente manca la necessaria serenità per
verificare la fondatezza di quanto afferma un commentatore di The New Republic: i
serbi sono in gran parte willing executioners di Milosevic, volenterosi esecutori,
come suona il titolo del libro in cui Daniel Goldhagen ha rimesso in gioco la teoria della
responsabilità collettiva a proposito della complicità del popolo tedesco nello
sterminio del popolo ebraico. In un paese in cui un combattivo liberalismo illuminato è
apertamente schierato contro la guerra (per tutti: Rudolf Augstein, direttore dello Spiegel),
fa molta impressione quella che chiamano, con unallusione sfottente a Heidegger, la Kehre,
la svolta: il meglio della generazione sessantottina è oggi, assiso in posti di
responsabilità direttiva o di potere politico, favorevole allintervento della Nato.
Altrettanta impressione fa lo zelo dei rinnegati e dei neofiti, spesso più acceso di chi
è sempre stato filo-atlantico. Comè stato osservato, si fa la conta degli apostati
e degli eretici, e anche la ricomparsa di un vecchio lessico della storia ecclesiastica è
un dato preoccupante di fanatismo e un segno dei tempi. Ma la conversione non dipende da
uno scatto di creatività e di innovazione culturale, o anche da un sincero travaglio
biografico autocritico, semmai da un fenomeno di immobilismo e di pigrizia. Di moralismo
politico, infatti, si parla da almeno due decenni: e si intende lo schiacciamento
delletica della responsabilità sotto il rullo compressore delletica
dellintenzione, il giacobinismo dai toni salvifici ultimativi, il fondamentalismo
ignaro delle conseguenze e innamorato dei principi. Ventanni fa bastava respirare
per essere classificati come giacobini sconsiderati, letteralmente privi di giudizio
politico, oggi però non ci si sofferma a cogliere tracce di moralismo politico nella
strategia della Nato, che ha trasformato il dramma delletnia albanese in una
catastrofe. In filosofia si parla di effetti controintenzionali, in guerra di danni
collaterali. "Umanismo militare", in questo senso, è unespressione più
veritiera, perché lungo questa strada non si passa necessariamente per la pace. Anzi.
Se la diagnosi di Beck fosse esatta, poi, assisteremmo in futuro non ad
una presenza eccezionale delle motivazioni morali nellargomentazione politica, ma ad
una loro cittadinanza primaria e privilegiata. Senonché, la morale può essere un
contenitore generosamente ospitale nei confronti di ogni apparecchiatura giustificativa,
mentre il diritto esprime sempre anche la voce dei deboli: se riproducesse mimeticamente
quella dei forti, non avrebbe ragione di esistere.
E sarà poi vero che, dopo questa guerra, si sarà raggiunto un punto
di non ritorno nella edificazione, ad ovest, di un cosmopolitismo maturo e consapevole? Il
fatto è che non esistono solo le asimmetrie per esempio tra la relatività
pacificità della situazione interna e limmagine del nemico esterno -, esistono
anche le simmetrie: perché, in futuro, la paccottiglia ideologica neo-darwiniana della
competitività, invocata come toccasana non solo per i mercati nazionali e internazionali,
ma anche per i più innocui settori lavorativi, dovrebbe rovesciarsi in una disponibilità
allaccoglienza e allinclusione dei più deboli? Perché laffossamento di
quel pur lacunosissimo esperimento di amicizia sociale che è stato il welfare
dovrebbe miracolosamente produrre una ripugnanza per ogni forma di inimicizia e di
bellicosità? Non si vede come un laboratorio di spirito guerriero possa farsi
repentinamente ricettacolo di afflati universalistici. E non sarà un po faticoso
educare all"umanismo militare" unopinione pubblica bombardata, entro
i confini domestici, dallantitetico registro educativo della xenofobia? Il problema
sarà quello delle corrispondenze termine a termine tra interno ed esterno, non quello dei
paradossi e dei capovolgimenti dialettici.
Luigi Belmonte, studente all'ultimo anno in Lettere moderne presso l'
università Federico II di Napoli (belmonte@idn.it)
Elogio di una pacifica diversità
Nel mio angolo di felice mondo occidentale alla quotidiana visione di
immagini e parole tratte dalla tragedia kosovara, che non è la prima e non sarà l'
ultima nei territori della ex Jugoslavia, si insinua l' inquietante possibilità della
superficialità con cui il mondo occidentale stia trattando una questione politico sociale
tipica del secondo o terzomondo: quella della convivenza interraziale. Ciò che più
stupisce la mia coscienza è il metodo d' indagine, medesimo nella miopia, utilizzato sia
dai politici e strateghi sia dagli intellettuali e giornalisti appartenenti al primo
mondo: categorie pubbliche risapute per il non ritrovarsi sempre sul piano delle idee e
dei motivi.
Questa miopia credo sia il risultato di una confusione tra quella che
è semplicemnte politica estera e quella che si possa ritenere la difficile creazione di
un ordine mondiale nuovo.
Per politica estera ovviamente indico la politica dell' entità
nazionale con più peso a livello mondiale sul finire di questo secolo: gli Stati Uniti d'
America. Un peso che manifesta dalla completa incapacità decisionale di un Europa divisa
non nell' economia ma nella politica. Ad una attenta analisi dei fronti che si
contrappongono nell' impossibile appiattimento della cultura americana sull' esercizio
della politica estera possiamo sostanzialmente individuarne due per la maggior rilevanza
nelle scelte del congresso americano.
1) quello che fa coincidere gli interessi interni con quelli globali
identificando quelli globali come americani: ovvero il mondo deve essere americanizzato
(Allbright)
2) quello che garantisce gli interessi interni in un quadro di
stabilizzazione globale ottenuto in un rapporto d' equilibrio di forze: ovvero favorimento
nella creazione d' entità sovranazionali che rompano i limiti particolaristici in una
visione globale dei rapporti (Kissinger)
In entrambi i fronti si viene incontro all'atteggiamento
isolazionistico insito nella cultura americana temperandolo nella preservazione degli
interessi americani; nel primo caso la stabilizzazione è dovuta ad un esercizio della
forza; nel secondo caso nella manifestazione della forza. Il primo si basa sulla certezza
della superiorità democratica del sistema americano esercitata nell' immediato. Il
secondo si basa pur sempre nela certezza della superiorità del sistema americano ma la
sua estensione è demandata al lungo periodo, ad un approccio naturale che le democrazie
come quelle europee e i governi del secondo mondo avranno nell' impatto della
globalizzazione.
La prima posizione mostra debolezze funzionali sia nella politica
interna che in quella estera, poiché internamente essa costringe ad una torsione dell'
isolazionismo immediata e stressante alla cui forza contraria diffcilmente si può
rispondere, nella politica estera essa porta ad un' applicazione immediata ed inevitabile
verso realtà che estranee minacciano la stabilità dei valori democratici esasperando
già le contraddizioni interne e generando una contrapposizione di motii che si spostano
dal piano politico a quello sociale, etico.
Si scade nella guerra tra bene e male (Habermas). La seconda posizione
nasce dalla pragmatica consapevolezza della resistenza nell' immediato di realtà esterne
alla pur cosmopolita struttura democratica americana. Questa resistenza, proporzionale
nell' effetto contrario all' azione di modificazione, non può essere inta con la semplice
applicazione di una forza superiore ma và scemata in un rapporto progressivo di lungo
periodo. Questa posizione risulta funzionalmente accettabile poiché consente d' agire
senza corrodere il consenso interno in uno sforzo immediato e profondo. Nella politica
estera esso affronta i problemi globali in un dialogo che ha lo scopo attraverso la
responsabilizzazione nei soggetti interessati di far emergere la reciprocità degli
interessi.
Ma questa posizione ha un grave punto di debolezza dovuto proprio al
fattore di lunga durata che presuppone una staticità od esasperante lentezza nei rapporti
economici internazionali, motori primi della società borghese nel senso della
globalizzazione. Se è pur vero che nell' accrescimento dell' economia interna privata si
accresce la capacità politico-economica di scala nazionale ed internazionale è anche
vero che la globalizzazione dei mercati e la transnazionalizzazione dei sistemi finanziari
privati porti ad uno scarto di crescita tra settore privato e settore pubblico che solo
nel passato pendeva a favore del secondo. Il settore privato svincolandosi nella crescita
globale dalle economie di scala nazionale depaupera il potere pubblico-governativo della
sua forza programmatica internazionale. Questo fenomeno data la condizione trainante della
propria economia è più avanzato in Usa che in Europa. Una politica estera del secondo
tipo si troverebbe quindi ad affrontare sul lungo periodo una sostanziale incapacità nel
reperimento di risorse finanziarie per sostenere una politica estera sempre più
frantumata nell' azione dal collasso sovietico, spingendo allo stato di vassallaggio
economico nei confronti d' entità finanziarie sempre più grandi.
Gli Stati Uniti per la loro stessa struttura costituzionale incapace
pur nel cosmopolitismo razziale di equilibrare le diverse esigenze etico sociali e per la
staticità istituzionale tipica delle nazioni vincitrici non sono più in grado di
sostenere la sfida di una pacificazione globale con l' esercizio della democrazia. Anche i
fondamenti economico legislativi anglosassoni che così ampiamente hanno contribuito all'
Europa per uno svecchiamento sociale risultano inefficaci proprio nel loro nocciolo
filosofico ad affrontare il disimpegno dell' economia privata.
Ecco perché le punte più avanzate del pensiero politico americano ed
europeo spingono verso il difficile parto d' un entità sovranazionale quale l' Europa.
Un' Europa che sappia nella sua diversità programmatica sostenere la strutturazione
giuridicoistituzionale di un organismo politico mondiale capace di affrontare le sfide
della globalizzazione economica e della frantumazione politica su base nazionale. L'
elezione di Prodi fà ben sperare verso questa direzione e pienamente appoggio la base
costruttiva di un esercito comune europeo su cui fondare un primo vero processo d'
avvicinamento culturale tra le nazioni del continente. Purtroppo è il peso militare che
non solo dà voce ma motivo di solidità alla politica in quanto sua espressione di forza
ed è su questo punto che sorgono le divergenze: se non si avrà un esercito comune non si
avrà nemmeno un' Europa comune
Quali sono allora le inquetitudini che emergono in una minuscola
coscienzacome la mia? Sostanzialmente due
La prima l'aveva ironicamente ricamata Marquez in un suo articolo
riguardante due figure fondamentali della scelta bellicista della Nato. Ovvero di come la
sinistra nell' ambito occidentale mostri più della destra il bisogno del mantenimento del
potere sul consenso sociale e quindi la costrizione a scelte più emotive che razionali:
insomma gli intellettuali e letterati di sinistra svelano un volto violento e sanguinario
prima impensabile quando erano a spingere l' opposizione più che i bottoni della sala di
comando. E questo volto violento è tanto più angosciante proprio perché atteggia nell'
aspetto di manipolazione mediatica più che di realismo strategico, mostrando tutta l'
incapacità a risolvere un grave disastro umanitario. Incapacità perché sempre per il
demone del sondaggio un vero intervento costerebbe discredito popolare se risultasse
pesante sul piano dei costi umani, paralizzando così la sinistra su una posizione d'
obesa supremazia militare.
La seconda è che comunque si esca da questo impass, esautorando l'
autorità dell' Onu rischieremmo di radicalizzare sempre più la contrapposizione tra
occidente e resto del mondo, soprattutto all' ombra delle sperimentazioni di vettori e
testate eseguite da continenti quali India Cina Pakistan. E questi continenti non sarà
facile domarli con aerei all' avanguardia per tecnologia visto che l' epoca coloniale da
tempo si è risolta in loro favore. Se non impareremo a bilanciare in maniera più
efficiente i difficili equilibri mondiali, noi che del resto siamo solo una frazione dell'
intera umanità, ci ritrovermo o come i bianchi sudafricani asserragliati in paradisiaci
fortini di filo spinato e guardie armate o soldati di una radioattiva terza guerra
mondiale.
Nel caso più specifico del Kosovo questo è un problema prettamente
europeo sia dal punto di vista storico sia da quello geografico, un problema che richiama
a profonde responsabilità sul processo d' unificazione Ue e al dovere di nazioni quali
Francia, Italia e Germania di temperare e solidificare quella fucina di odio e
nazionalismo che l' Europa ha mal seppellito appena cinquanta anni fa.
L' Europa unita diventa così più una necessità che un sogno. Una
necessità che nel suo compimento dia inizio alla costruzuione di un nuovo ordine mondiale
in accordo ed equilibrio non solo con gli Usa e la Russia ma anche con quelle che sono le
altre realtà al di fuori dell' occidente.
Mario Stratta <mstrat@tin.it>
Ho letto con molto interesse l'estratto dell'articolo "I Guardiani
dell'Ordine" di Juergen Habermas su "la Repubblica" del 08/05/99, cosa che
mi ha dato l'opportunità di conoscere lesistenza di "Caffè Europa", e di
leggere l'editoriale di Giancarlo Bosetti.
Non c'è dubbio, e Bosetti lo ha evidenziato molto bene nell'analisi
dell'articolo di Habermas, che il rischio più grosso che deriva da questa guerra
(ovviamente dopo il rischio di perderne il controllo, fino all'olocausto nucleare !),
fatta "perché eticamente ineludibile" è che, in assenza di un "diritto
mondiale" degli individui (o quanto meno delle minoranze, ma questo è già
concettualmente e logicamente molto più elusivo), gli interventi (militari)
"umanitari" confliggano con la sovranità degli Stati in modo del tutto
arbitrario.
Credo che i veri banchi di prova futuri (fra i molti che si possono
citare, p. es. Cecenia, Corea del Nord, Kashmir e via enumerando) saranno principalmente
due: Curdistan e Palestina.
Per quanto riguarda il Curdistan, è già evidente, e più lo diverrà
quando il processo a Ochalan entrà nel vivo, che il rischio che corre la NATO, e gli
Stati Uniti in particolare , è quello di essere accusati di usare i "motivi
umanitari" come minimo partigianamente (sì contro il "nemico" Serbo, no se
si tratta del'"amico" Turco), o peggio strumentalmente (la guerra alla Serbia
come obbligo a serrare le fila nella NATO, ostacolando ogni incipiante autonomia Europea
sul piano della politica estera e militare).
Per quanto riguarda la Palestina, la rinuncia da parte di Arafat a
premere per una dichiarazione unilaterale di indipendenza, e il rinvio al Maggio del 2000,
è una vera e propria cambiale politica, che certamente verrà mandata all'incasso. Se
Israele si opporrà, che faranno gli Stati Uniti, (o la NATO, o l'ONU) : interverranno
militarmente ? E in tal caso dove verranno dislocate le forze di "intervento
umanitario" ? Magari nella valle di Meghiddo (Ar-mageddon) ? La prospettiva, come si
vede è inquietante ...