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Teatro/Dal post-cyber-transgender a Shakespeare, la mappa delle ultime tendenze

Andrea Porcheddu


Uno spettro si aggira per l’Italia: è quello di un nuovo teatro. E’ un dato di fatto incontrovertibile: dichiarato più volte morto o moribondo, il vecchio, polveroso, palcoscenico si sta riprendendo una sonora rivincita. Negli ultimi anni, infatti, l’Italia ha registrato un fenomeno decisamente considerevole: la nascita di circa trecento nuove compagnie teatrali, formate da giovani o giovanissimi.

Piuttosto bassa l’età media dei protagonisti (dai venti ai trent’anni) e, forse, piuttosto bassa anche la preparazione tecnica di chi si cimenta con la scena.

Ma tant’è: si chiamano Teatro del Lemming, Motus, Accademia degli Artefatti, Fanny&Alexander, Teatrino Clandestino, Fortebraccio Teatro, Liberamente, EgumTeatro, Nuova Complesso Camerata, Teatro dei Sassi, Quellicherestano, Scena Verticale e con tanti, tanti altri hanno caratterizzato le ultime stagioni grazie ai linguaggi provocatori, alle scelte estreme e ad una certa attenzione a tutto ciò che è di moda. Da Milano a Palermo, da Rovigo a Matera, è tutto un fiorire di iniziative, rassegne, festival, spettacoli. Protagonisti assoluti sono loro: i gruppi degli anni Novanta.

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Per una nuova geografia

Piuttosto ampio risulta il campo d’azione delle giovani compagnie teatrali dell’ultima generazione. A farla da padrone, per creatività e possibilità, è però l’Emilia Romagna: grazie all’attenzione degli Enti Locali; all’amorevole cura dei teatri maggiori, blasonati e finanziati; all’esempio illuminante di compagnie di ricerca come la Societas Raffaello Sanzio e il Teatro Valdoca di Cesena; allo spazio offerto da Festival internazionali come quello di Santarcangelo, la regione è diventata punto di riferimento della nuova scena. Ma è piuttosto articolata anche l’offerta lombarda o quella capitolina.

Infine il Sud: da qui, forse, le sorprese maggiori. Sono tanti, infatti, i gruppi attivi in zone che l’Ente Teatrale Italiano (l’organismo di Stato che si occupa di promozione della cultura teatrale) ha definito "disagiate". In Puglia, ad esempio, oltre all’attività di centri vitali come il Teatro Kismet di Bari, o il Teatro Koreja di Lecce, c’è la compagnia "CREST" a Taranto e "DeicalciTeatro" a Galatina. A Matera opera, con grande successo, il Teatro dei Sassi, prestando maggiore attenzione agli spettatori che non agli spettacoli; nella piccola Castrovillari, in provincia di Cosenza, c’è Scena Verticale. In Sicilia sono molti i fermenti: da Palermo a Catania, da Messina a Caltagirone, si moltiplicano le iniziative e le compagnie.

Tanti i nomi di questi nuovi artisti, nomi che possono non dire nulla anche allo spettatore più attento, ma attorno a queste formazioni si sta giocando il futuro del teatro italiano, tanto che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha inventato una "formuletta" di finanziamento ad hoc, per garantire a cinque formazioni, ogni due anni, un budget di circa cento milioni ciascuna.

Un gioco - non sembri affermazione azzardata - che stuzzica il palato di molti. In un momento in cui una generazione di "giovani" quasi cinquantenni approda, per la prima volta, ad incarichi di prestigio (Mario Martone alla guida del Teatro Stabile di Roma, Giorgio Barberio Corsetti alla sezione Teatro della Biennale di Venezia) sono in molti ad attendersi un ulteriore, deciso, ricambio generazionale. Quindi i teatri degli anni Novanta hanno suscitato le attenzioni – più o meno disinteressante – di operatori, studiosi, critici, che, finalmente, hanno avuto qualcosa di nuovo da vedere. Il teatro del bel paese, infatti, segnava il passo in modo preoccupante: se in Francia è normale vedere un regista come Stéphane Braunschweig (poco più che trentenne) guidare una struttura importante e largamente finanziata come il Centre Dramatique National di Orléans, i giornali italiani hanno gridato al miracolo per la nomina allo stabile capitolino di Martone, che ha preso il testimone nientemeno che da Luca Ronconi, forse il regista italiano di maggior prestigio internazionale. Riflettori puntati sulla nuova scena, allora, con vetrine particolari nei maggiori festival nazionali, forum, pubblicazioni.

Naturale chiedersi, allora, se queste giovani compagnie siano all’altezza di tanta attenzione. Cosa dicono di nuovo?

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I Linguaggi

Difficile, e anche inopportuno, fare generalizzazioni: ogni artista rivendica l’originalità del proprio percorso. Ma è possibile tentare qualche considerazione.

Questa scena di fine secolo rimanda, apertamente, a certa avanguardia che segnò sessantotto e dintorni, con moduli e modelli d’espressione che si basano prevalentemente sul dato visivo, sulla corporeità dichiarata, esibita, violentata. Immagine curata e sezionata, fortificata da un substrato concettuale – spesso criptico per i più – che rimanda a costanti di pensiero: Bacon e Beckett, innanzi tutto, ma anche i nuovi filosofi francesi, con citazioni e dediche a non finire per Bataille, Derrida, Baudrillard. La lingua si fa frammento, decontestualizzato e assolutizzato; il testo si sfalda in parole evocative ridotte, a volte, a puri suoni.

Del Sessantotto ritorna anche una certa sfrontata voglia di provocare, ampliata, però, dal gusto di esibire il corpo-oggetto, quel "sex-appeal dell’inorganico" caro a Mario Perniola che rimanda a più di un filone chiamato, variamente, post-cyber-transgender.

Poi, naturalmente, i classici: tornano con costanza lo Shakespeare della "Tempesta", di "Amleto" e del "Sogno di una notte di mezza estate", tornano "Ubu Re" e Majakovskij, la tragedia greca e il mito classico ("Le Baccanti" e il Minotauro su tutti), l’immaginario favolistico infantile (con "Pinocchio" e "Alice" a farla da padroni), i peep-show e il mondo glamour della moda. Il teatro degli anni Novanta, dunque, non teme di confrontarsi con la tradizione e cerca, spasmodicamente, nuove frontiere. Particolare, forse, certo teatro del Sud Italia: qui molta attenzione è data all’elemento linguistico-dialettale, alla tradizione locale, alla memoria comune, al meticciato culturale mediterraneo, per una produzione che potrebbe – questa sì – segnare un passo avanti verso un nuovo teatro "poetico-politico" .

 

Il teatro della società, la società del teatro

S i può fare un passo indietro e continuare il confronto con l’avanguardia anni Sessanta e Settanta. C’era, allora, una decisa ansia di contestazione, la voglia di rompere gli schemi e di cambiare i linguaggi. La rottura era tale da sfociare – limitando il discorso al teatro – alla creazione di spazi alternativi (come le famose "cantine romane"), punti di riferimento per una generazione che non poteva più identificarsi nei luoghi istituzionali della cultura.

Ben diverso sembra il cammino della generazione anni Novanta. Innanzitutto il dato di partenza: la compagnia, il gruppo, ha generalmente una matrice di coppia: lui e lei, lui e lui, lei e lei, poco importa. Salgono sul palcoscenico, e fanno teatro.

Oggi, come allora, non si presta molta attenzione agli strumenti del teatro: qualcuno non sa "portare la voce", altri non sanno "usare la luce", ma anche questo poco importa. Molti non sanno – o non ricordano – quanto accaduto prima di loro: che certi tentativi, certi esperimenti sono stati fatti da altri, venti o trenta anni fa. Non importa.

Importante – e questo sembra il dato principale – è "partecipare", dire la propria, ri-conoscersi come artista. Il teatro anni Novanta, salvo le numerose eccezioni, è decisamente autoreferenziale: per un frainteso legame con l’idealismo crociano, l’io artistico è tale per auto-elezione. E il giovane degli anni Novanta ha bisogno di una identità forte.

La forza del teatro, allora, è ancora una volta nella sua estrema socialità: il teatro, inteso e vissuto in modo così immediato, diventa terreno eletto di partecipazione. La scena risponde al bisogno immediato di nuova presenza nell’ambito sociale (anche marginale, come sono i sottogruppi dei Centri sociali, non a caso fucina di formazioni teatrali e di danza), gratifica il bisogno di espressività, fornisce un ruolo preciso – l’essere artista – a chi sente impellente quel bisogno di identificazione nella propria collettività. Se negli anni Sessanta e Settanta era la musica a catalizzare la voglia d’arte, ora alla chitarra gucciniana si è sostituito il monologo. Con buona pace di accademie e corsi di formazione.

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Basta un laboratorio, un seminario, un esame all’università per accendere il sacro fuoco dell’arte teatrale: sulla scena, uno recita e l’altro/a fa la regia. Vaghe nozioni dell’uno e dell’altro mestiere possono bastare per incanalare le debordanti energie, e qualche genialità emerge davvero.

Il teatro si è affiancato alla letteratura, alle arti visive, al cinema, alla musica: arti capaci di sfornare quotidianamente nuovi talenti e fenomeni utili anche ad alimentare lo show-business.

"Risvegli di primavera", allora, per le scene d’Italia, e, nonostante le tante contraddizioni che accompagnano sempre i fenomeni di massa (per quanto limitati come questo) il dato è da considerarsi più che positivo. Da tanto spontaneismo sta emergendo un rinnovato modo di intendere e di vivere il palcoscenico, che coinvolge – direttamente – il pubblico: anche le platee, infatti, danno segni di ripresa. Sembrano scomparire i visoni per far spazio agli anfibi, si abbassano i prezzi dei biglietti, va in soffitta il vecchio abbonamento classico per lasciare libertà di scelta allo spettatore.

Infine, anche gli operatori stranieri guardano con maggiore interesse alle produzioni italiane: se la Societas Raffaello Sanzio, con il suo teatro assolutamente crudo e violento, ha già entusiasmato (e scandalizzato) tutto il mondo, ora anche i più giovani fanno capolino oltralpe. In queste ultime stagioni, poi, le compagnie anni Novanta hanno serrato le fila: stanno maturando velocemente, calibrando scelte e affinando le armi. Ai primi approcci entusiastici è subentrata una maggiore riflessione e una selezione naturale – talvolta "stimolata" o "assecondata" da qualche addetto ai lavori – sta già sfoltendo il gruppo. Rimangono i "migliori": che il teatro degli anni Novanta stia diventando quello del nuovo secolo?

 

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