Uno spettro si aggira per
lItalia: è quello di un nuovo teatro. E un dato di fatto incontrovertibile:
dichiarato più volte morto o moribondo, il vecchio, polveroso, palcoscenico si sta
riprendendo una sonora rivincita. Negli ultimi anni, infatti, lItalia ha registrato
un fenomeno decisamente considerevole: la nascita di circa trecento nuove compagnie
teatrali, formate da giovani o giovanissimi.
Piuttosto bassa letà media dei protagonisti (dai venti ai
trentanni) e, forse, piuttosto bassa anche la preparazione tecnica di chi si cimenta
con la scena.
Ma tantè: si chiamano Teatro del Lemming, Motus, Accademia degli
Artefatti, Fanny&Alexander, Teatrino Clandestino, Fortebraccio Teatro, Liberamente,
EgumTeatro, Nuova Complesso Camerata, Teatro dei Sassi, Quellicherestano, Scena Verticale
e con tanti, tanti altri hanno caratterizzato le ultime stagioni grazie ai linguaggi
provocatori, alle scelte estreme e ad una certa attenzione a tutto ciò che è di moda. Da
Milano a Palermo, da Rovigo a Matera, è tutto un fiorire di iniziative, rassegne,
festival, spettacoli. Protagonisti assoluti sono loro: i gruppi degli anni Novanta.

Per una nuova geografia
Piuttosto ampio risulta il campo dazione delle giovani compagnie
teatrali dellultima generazione. A farla da padrone, per creatività e possibilità,
è però lEmilia Romagna: grazie allattenzione degli Enti Locali;
allamorevole cura dei teatri maggiori, blasonati e finanziati; allesempio
illuminante di compagnie di ricerca come la Societas Raffaello Sanzio e il Teatro Valdoca
di Cesena; allo spazio offerto da Festival internazionali come quello di Santarcangelo, la
regione è diventata punto di riferimento della nuova scena. Ma è piuttosto articolata
anche lofferta lombarda o quella capitolina.
Infine il Sud: da qui, forse, le sorprese maggiori. Sono tanti,
infatti, i gruppi attivi in zone che lEnte Teatrale Italiano (lorganismo di
Stato che si occupa di promozione della cultura teatrale) ha definito
"disagiate". In Puglia, ad esempio, oltre allattività di centri vitali
come il Teatro Kismet di Bari, o il Teatro Koreja di Lecce, cè la compagnia
"CREST" a Taranto e "DeicalciTeatro" a Galatina. A Matera opera, con
grande successo, il Teatro dei Sassi, prestando maggiore attenzione agli spettatori che
non agli spettacoli; nella piccola Castrovillari, in provincia di Cosenza, cè Scena
Verticale. In Sicilia sono molti i fermenti: da Palermo a Catania, da Messina a
Caltagirone, si moltiplicano le iniziative e le compagnie.
Tanti i nomi di questi nuovi artisti, nomi che possono non dire nulla
anche allo spettatore più attento, ma attorno a queste formazioni si sta giocando il
futuro del teatro italiano, tanto che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha
inventato una "formuletta" di finanziamento ad hoc, per garantire a cinque
formazioni, ogni due anni, un budget di circa cento milioni ciascuna.
Un gioco - non sembri affermazione azzardata - che stuzzica il palato
di molti. In un momento in cui una generazione di "giovani" quasi cinquantenni
approda, per la prima volta, ad incarichi di prestigio (Mario Martone alla guida del
Teatro Stabile di Roma, Giorgio Barberio Corsetti alla sezione Teatro della Biennale di
Venezia) sono in molti ad attendersi un ulteriore, deciso, ricambio generazionale. Quindi
i teatri degli anni Novanta hanno suscitato le attenzioni più o meno
disinteressante di operatori, studiosi, critici, che, finalmente, hanno avuto
qualcosa di nuovo da vedere. Il teatro del bel paese, infatti, segnava il passo in modo
preoccupante: se in Francia è normale vedere un regista come Stéphane Braunschweig (poco
più che trentenne) guidare una struttura importante e largamente finanziata come il
Centre Dramatique National di Orléans, i giornali italiani hanno gridato al miracolo per
la nomina allo stabile capitolino di Martone, che ha preso il testimone nientemeno che da
Luca Ronconi, forse il regista italiano di maggior prestigio internazionale. Riflettori
puntati sulla nuova scena, allora, con vetrine particolari nei maggiori festival
nazionali, forum, pubblicazioni.
Naturale chiedersi, allora, se queste giovani compagnie siano
allaltezza di tanta attenzione. Cosa dicono di nuovo?

I Linguaggi
Difficile, e anche inopportuno, fare generalizzazioni: ogni artista
rivendica loriginalità del proprio percorso. Ma è possibile tentare qualche
considerazione.
Questa scena di fine secolo rimanda, apertamente, a certa avanguardia
che segnò sessantotto e dintorni, con moduli e modelli despressione che si basano
prevalentemente sul dato visivo, sulla corporeità dichiarata, esibita, violentata.
Immagine curata e sezionata, fortificata da un substrato concettuale spesso
criptico per i più che rimanda a costanti di pensiero: Bacon e Beckett, innanzi
tutto, ma anche i nuovi filosofi francesi, con citazioni e dediche a non finire per
Bataille, Derrida, Baudrillard. La lingua si fa frammento, decontestualizzato e
assolutizzato; il testo si sfalda in parole evocative ridotte, a volte, a puri suoni.
Del Sessantotto ritorna anche una certa sfrontata voglia di provocare,
ampliata, però, dal gusto di esibire il corpo-oggetto, quel "sex-appeal
dellinorganico" caro a Mario Perniola che rimanda a più di un filone chiamato,
variamente, post-cyber-transgender.
Poi, naturalmente, i classici: tornano con costanza lo Shakespeare
della "Tempesta", di "Amleto" e del "Sogno di una notte di mezza
estate", tornano "Ubu Re" e Majakovskij, la tragedia greca e il mito
classico ("Le Baccanti" e il Minotauro su tutti), limmaginario favolistico
infantile (con "Pinocchio" e "Alice" a farla da padroni), i peep-show
e il mondo glamour della moda. Il teatro degli anni Novanta, dunque, non teme di
confrontarsi con la tradizione e cerca, spasmodicamente, nuove frontiere. Particolare,
forse, certo teatro del Sud Italia: qui molta attenzione è data allelemento
linguistico-dialettale, alla tradizione locale, alla memoria comune, al meticciato
culturale mediterraneo, per una produzione che potrebbe questa sì segnare
un passo avanti verso un nuovo teatro "poetico-politico" .
Il teatro della società, la società del teatro
S i può fare un passo indietro e continuare il confronto con
lavanguardia anni Sessanta e Settanta. Cera, allora, una decisa ansia di
contestazione, la voglia di rompere gli schemi e di cambiare i linguaggi. La rottura era
tale da sfociare limitando il discorso al teatro alla creazione di spazi
alternativi (come le famose "cantine romane"), punti di riferimento per una
generazione che non poteva più identificarsi nei luoghi istituzionali della cultura.
Ben diverso sembra il cammino della generazione anni Novanta.
Innanzitutto il dato di partenza: la compagnia, il gruppo, ha generalmente una matrice di
coppia: lui e lei, lui e lui, lei e lei, poco importa. Salgono sul palcoscenico, e fanno
teatro.
Oggi, come allora, non si presta molta attenzione agli strumenti del
teatro: qualcuno non sa "portare la voce", altri non sanno "usare la
luce", ma anche questo poco importa. Molti non sanno o non ricordano
quanto accaduto prima di loro: che certi tentativi, certi esperimenti sono stati fatti da
altri, venti o trenta anni fa. Non importa.
Importante e questo sembra il dato principale è
"partecipare", dire la propria, ri-conoscersi come artista. Il teatro anni
Novanta, salvo le numerose eccezioni, è decisamente autoreferenziale: per un frainteso
legame con lidealismo crociano, lio artistico è tale per auto-elezione. E il
giovane degli anni Novanta ha bisogno di una identità forte.
La forza del teatro, allora, è ancora una volta nella sua estrema
socialità: il teatro, inteso e vissuto in modo così immediato, diventa terreno eletto di
partecipazione. La scena risponde al bisogno immediato di nuova presenza nellambito
sociale (anche marginale, come sono i sottogruppi dei Centri sociali, non a caso fucina di
formazioni teatrali e di danza), gratifica il bisogno di espressività, fornisce un ruolo
preciso lessere artista a chi sente impellente quel bisogno di
identificazione nella propria collettività. Se negli anni Sessanta e Settanta era la
musica a catalizzare la voglia darte, ora alla chitarra gucciniana si è sostituito
il monologo. Con buona pace di accademie e corsi di formazione.

Basta un laboratorio, un seminario, un esame alluniversità per
accendere il sacro fuoco dellarte teatrale: sulla scena, uno recita e laltro/a
fa la regia. Vaghe nozioni delluno e dellaltro mestiere possono bastare per
incanalare le debordanti energie, e qualche genialità emerge davvero.
Il teatro si è affiancato alla letteratura, alle arti visive, al
cinema, alla musica: arti capaci di sfornare quotidianamente nuovi talenti e fenomeni
utili anche ad alimentare lo show-business.
"Risvegli di primavera", allora, per le scene dItalia,
e, nonostante le tante contraddizioni che accompagnano sempre i fenomeni di massa (per
quanto limitati come questo) il dato è da considerarsi più che positivo. Da tanto
spontaneismo sta emergendo un rinnovato modo di intendere e di vivere il palcoscenico, che
coinvolge direttamente il pubblico: anche le platee, infatti, danno segni di
ripresa. Sembrano scomparire i visoni per far spazio agli anfibi, si abbassano i prezzi
dei biglietti, va in soffitta il vecchio abbonamento classico per lasciare libertà di
scelta allo spettatore.
Infine, anche gli operatori stranieri guardano con maggiore interesse
alle produzioni italiane: se la Societas Raffaello Sanzio, con il suo teatro assolutamente
crudo e violento, ha già entusiasmato (e scandalizzato) tutto il mondo, ora anche i più
giovani fanno capolino oltralpe. In queste ultime stagioni, poi, le compagnie anni Novanta
hanno serrato le fila: stanno maturando velocemente, calibrando scelte e affinando le
armi. Ai primi approcci entusiastici è subentrata una maggiore riflessione e una
selezione naturale talvolta "stimolata" o "assecondata" da
qualche addetto ai lavori sta già sfoltendo il gruppo. Rimangono i
"migliori": che il teatro degli anni Novanta stia diventando quello del nuovo
secolo?