I rischi della stupidita' globale Giancarlo Bosetti
Ulrich Beck e' un esploratore del tempo nuovo che si muove all'insegna
del "rischio" - Risiko, come si dice in tedesco - fin dai giorni in cui
"rischio" voleva dire Chernobyl e l'ecologismo faceva un salto di qualita'
entrando nel campo visivo di tutti, insieme all'insalata ispezionata col contatore Geiger.
La nostra societa' (la "Risikogesellschaft", la societa' del rischio) vedeva
molti, quasi tutti i suoi spazi, invasi da una condizione di instabilita', di
gelatinosita', di incertezza. Tutto quello che era solido "si dissolveva
nell'aria", come piaceva dire a Marx un secolo e mezzo addietro. Via via che
allungava lo sguardo sul finire degli anni Ottanta Beck si accorgeva che le zone occupate
dal "rischio" erano sempre piu' estese: il lavoro, la base principale della
stabilita' sociale, era minacciato e tarlato almeno tanto quanto l'essere supremo della
teologia era tarlato dalle filosofie postmoderne e dal disincanto generale; il matrimonio
e l'amor coniugale perdevano, anche loro, il carattere di cemento sociale che teneva
insieme le famiglie e, con le famiglie, molte altre cose. Nessun posto e' sicuro, nessun
matrimonio e' sicuro; siamo consegnati alle sorti flessibili del mercato per guadagnarci
da vivere come siamo consegnati al "normale caos dell'amore" per alimentare la
nostra vita sentimentale.
Con la fine della guerra fredda insieme a un benefico disgelo, Beck
vede arrivare anche un'altra fonte di instabilita': l'assenza del nemico. Con
l'estinguersi dell'equilibrio del terrore salta anche un fattore d'ordine. Comincia
un'epoca di nuovi conflitti. Ma il "rischio" da cui cominciava la riflessione di
Beck, che l'ha portato in pochi anni alla ribalta sociologica mondiale (insegna a Monaco,
alla London School of Economics, scrive sullo Spiegel, e' noto in America) aveva anche un
risvolto liberale. Il pianeta "a rischio" e' un concetto caro alla cultura
verde, ma e' lo stesso pianeta sul quale il verbo del "rischio" e' sacro
all'impresa che ne fa il fondamento della legittimita' del profitto. "Rischio" e
"flessibilita'" sono concetti chiave anche della cultura neoliberale, che la
sinistra cerca coniugare in modo compatibile con la tradizione socialdemocratica: il
rischio viene bilanciato dalle "opportunita'" e la flessibilita' dalle
"reti di sicurezza". Un equilibrio sempre piu' difficile se vince un'idea
anarchica-mercantile dell'ordine, o del disrodine, mondiale, nel quale non ci sarebbe piu'
posto per la politica.
Ed ecco l'ultima fase della ricerca di Ulrich Beck, in questo "Che
cos'e' la globalizzazione. Rischi e prospettive della societa' planetaria" (Carocci
editore, pp. 200, L.28.000). Un bel libro da quale non dovete aspettarvi una teoria
sistematica delle tendenze economiche e sociali; ci troverete invece un disegno anche
piuttosto frammentario, una serie di spunti tratti dalla cronaca e da altri lavori, ma
anche molte idee, molti tentativi efficaci di illuminare la nostra condizione. Di noi
abitanti di un mondo di fine millennio dove manager di gruppi multinazionali trasferiscono
intere divisioni delle loro aziende nell'India meridionale, dove non manderebbero mai i
loro figli, spediti invece nelle universita' europee d'élite, finanziate magari dallo
stato. Un mondo pieno di strana gente contraddittoria che ama e usa i diritti politici,
civili e sociali, le mutue e le pensioni ma intanto cerca di silurarne il finanziamento
pubblico. Gente che ama i bei paesaggi europei e finge di ignorare quanto costa tenerli
puliti. Gente che apprezza la bella sicurezza con cui si passeggia per le strade europee
ma cerca di lavorare, con una politica orientata al puro profitto, per liquidarne le
premesse.
La dimensione globale dell'agire umano alla fine di questo secolo e'
qualcosa di ineludibile, ma varie sono le interpretazioni possibili di questa condizione.
Abbiamo e sempre piu' avremo organizzazioni transnazionali (la Banca mondiale, la Chiesa
cattolica, la MacDonald, la Volkswagen e la mafia), problemi transnazionali (il clima, le
droghe, l'Aids, i conflitti etnici), eventi transnazionali (i mondiali di calcio, la
guerra del golfo, i romanzi di Rushdie), comunita' transnazionali (basate sulla religione,
gli stili di vita, orientamenti politici, il sapere). Questo e' fuori discussione, il
processo e' irreversibile. Ma irreversibile non e' il modo in cui possiamo agire da attori
sia della globalizzazione "affermativa" (come suoi promotori in tutti i campi,
economia, costume, cultura, arte, musica rock) sia da attori della globalizzazione
"negativa" (come individui e gruppi che si propongono di avversare aspetti della
globalizzazione).
Nell'uno e nell'altro caso dovremmo tener presente la lista degli
errori da evitare, che Beck compila con accuratezza. Si segnalano tra i peccati capitali
messi in evidenza nel libro la "metafisica del mercato mondiale", la
"assenza di politica come rivoluzione" (una pretesa tra le piu' pericolose
perche' aspira a trasformare il mondo per meta' in un'azienda e per meta' nel caos) e poi
i "protezionismi" che Beck avversa con speciale passione: quello
"nero" dei nazionalismi nostalgici, ideologici, un protezionismo conservatore e
insieme nemico dello stato e supporter neoliberale del mercato, contraddittorio ma vero;
quello "verde" degli ambientalisti aggrappati alle prerogative dello stato
nazionale e della vecchia politica, incapaci di dotarsi di una visione mondiale e legati
ciecamente alle piccole realta' locali; quello "rosso" della sinistra nostalgica
che spera di trovare con il nemico della globalizzazione il rilancio di una strategia
basata sui principi di classe.
Nel viaggio attraverso stili, scelte di gusto, teorie economiche e
sociali, di un libro che si puo' leggere anche come repertorio degli enigmi di fine
secolo, seguendo gli sviluppi di un contagio che cambia il nostro modo di mangiare, fare
festa, vestirci, proponendoci un mélange globale (dai tacos giapponesi, allo Shakespeare
in versione kabuki presentato a Parigi) dovremo meditare su quel che sara' della
formazione degli esseri umani del prossimo futuro, divisi tra la spinta violenta al legame
col suolo e col sangue dei padri, da una parte, e l'appartenenza al gran mondo dell'osmosi
planetaria. Un cambio di valori e' nell'aria e con lui un cambio di élites, si tratta di
evitare che il passaggio, carico di promesse al punto da apparire ad Habermas una
"seconda opportunita'" per l'Europa si trasformi in una catastrofe, in un incubo
come quello che Beck colloca nelle pagine finali del suo libro e dove le Nazioni Unite
vengono sostituite dal vertice aziendale della Coca-Cola. Anche per questo dovremo,
ciascuno per la sua parte, provvedere a che la formazione dei piccoli tenga nel dovuto
conto l'equilibrio tra quelle cose che Beck definisce schematicamente come "cultura
1" e "cultura 2": la prima legata all'apprendimento che avviene in un
luogo, in una lingua e in un ambiente specifico, con radici; la seconda slegata dai luoghi
come un software umano universale, "translocale". L'equilibrio deve valere a
garantirci che lo "sguardo cosmopolitico" degli individui del futuro non sia uno
sguardo idiota e che allo "scemo del paese" di buona memoria non si sostituisca
uno "scemo globale", tanto piu' pericoloso quanto piu' vicino alle leve del
governo.
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