Forum con Cofferati/"Nella politica
italiana uno scontro senza contenuti" Sergio Cofferati con Paolo Andruccioli, Riccardo Barenghi, Roberta Carlini, Loris
Campetti, K. S. Karol, Guido Moltedo, Valentino Parlato, Gabriele Polo, Guglielmo
Ragozzino, Rossana Rossanda
"Fatta la moneta unica la sinistra europea si è rinchiusa negli orizzonti
nazionali. E il centrosinistra italiano si divide senza spiegare su cosa. Così perdiamo
un'occasione e subiamo un danno". Un forum con "il manifesto"
(http://www.mir.it, cui hanno partecipato Paolo Andruccioli, Riccardo Barenghi, Roberta
Carlini, Loris Campetti, K. S. Karol, Guido Moltedo, Valentino Parlato, Gabriele Polo,
Guglielmo Ragozzino, Rossana Rossanda) del segretario generale della Cgil Sergio Cofferati
La rissa nel centrosinistra italiano? "Un contrapposizione senza
contenuti". Non vuole "parlare di politica", Sergio Cofferati. Ma il forum
del manifesto con il segretario generale della Cgil non può non partire dal suo giudizio
sulle traballanti e litigiose gambe del governo D'Alema e sulle sorti del partito nel
quale lui stesso milita. Un giudizio che Cofferati rapidamente sposta sulle sorti della
sinistra europea al governo, sulle questioni alte (il ritorno a Keynes, la programmazione)
e su quelle calde (la flessibilità, il contratto dei metalmeccanici, le privatizzazioni).
Hai sempre rivendicato la specificità e l'autonomia del ruolo, del
"mestiere" del sindacalista. Ma il segretario generale della Cgil non può
prescindere dall'orizzonte politico che ha di fronte. Qual è il tuo giudizio?
Mi preoccupa molto la stabilità del quadro politico. Per il sindacato è più
difficile esercitare i propri compiti quando il quadro politico è incerto, quando anche
la maggioranza di governo è attraversata da tensioni molto forti. L'Italia ha dopo tanto
tempo le condizioni per imboccare la strada della crescita e per affrontare il problema
dell'occupazione, ma rischia di perdere l'occasione a causa della mancanza di stabilità
istituzionale e politica. E sono preoccupato dal fatto che la messa in discussione delle
aggregazioni, la nascita di nuovi partiti, avvengono quasi sempre con una scissione netta
tra il programma che dovrebbe caratterizzare una forza politica, e la sua nascita, la sua
collocazione. Si allude alle ipotesi di merito, non se ne parla mai. Il fatto che alle
prime elezioni dell'Europa nascente le forze politiche si posizionino pensando non
all'Europa ma all'Italia secondo me non è soltanto un'occasione persa: è un danno.

Non solo in Italia, ma in tutt'Europa si torna a rifugiarsi nelle questioni e negli
interessi nazionali.
E' un mal comune, ma questo non conforta. Da noi gli elementi di instabilità
riguardano l'insieme della politica, non solo il centrosinistra. Le riforme istituzionali
e ancor prima la riforma della legge elettorale avrebbero garantito ben altro svolgimento
alla vicende politiche. Alla lunga non regge un modello elettorale così differenziato tra
governo nazionale, regioni e comuni. I sindaci si presentano sul palcoscenico della
politica in virtù dell'immagine che hanno ricavato da un'investitura particolare. Se
dovessero rimanere queste differenze, il rischio di un impazzimento della politica c'è.
C'è un aspetto specifico di questa crisi che vi riguarda da vicino. L'iniziativa di
Prodi mette in crisi i Ds, Rifondazione resiste come partito ma è marginalizzata nel
quadro politico. Il sindacato sembra l'unica "struttura" che resiste.
Da sindacalista sono il primo ad essere interessato a un rafforzamento della
rappresentanza politica alla quale appartengo. Il nostro mestiere è difficile se manca la
rappresentanza politica. Quando il sindacato è costretto a svolgere suo malgrado funzioni
di supplenza, fa una cosa che non è utile per nessuno.
Negli altri paesi la contesa politica è stata tra una sinistra riformatrice e una
destra liberista. Tra Blair e Major, tra Jospin e Juppé ci sono differenze sul progetto
di società. In Italia, ogni differenza sui contenuti - non solo quella tra Prodi e
D'Alema - è appannata. Domina l'assunto che bisogna aiutare l'impresa. Tra Tremonti e la
pratica del governo di centrosinistra, qual è la differenza?
Questo mi sembra un giudizio ingeneroso. Ci sono state differenze, perché la
destra italiana si proclama liberista, ma ha tante contraddizioni al suo interno. Quando
ha governato ha arrestato i processi di liberalizzazione e di privatizzazione. Il suo
liberismo ha sempre cercato di riverberarlo nella destrutturazione dello stato sociale.

Aveva già iniziato Amato...
Ma c'è un salto tra un'idea di riforma e un taglio netto alle protezioni. Io
all'epoca ho sollevato obiezioni consistenti ai provvedimenti di Amato, ma ho sempre
riconosciuto che dietro c'era un'idea di riforma. La finanziaria del governo di
centrodestra era un taglio trasversale che creava sconquassi, al punto che non lo hanno
retto neanche loro. Ma tutti noi siamo stati condizionati per molti anni dall'assoluta
priorità del risanamento: risalire la china dall'autunno '92 è stato durissimo. Per
quanto si dicesse che bisognava coniugare risanamento e sviluppo, era una pratica
impossibile da realizzare. C'è stata attenzione prevalente sul risanamento. Adesso ci
sono le condizioni per fare il resto. E sul "resto" ci sono opinioni diverse tra
centrodestra e centrosinistra. La tendenza della destra è nell'assecondare la
spontaneità dei processi: "faccia il mercato". Nel centrosinistra, è vero che
per un periodo non breve il governo Prodi ha avuto l'idea che bastasse il risanamento per
innescare il processo della crescita, e che la crescita da sola avrebbe risolto i nostri
problemi. Ma dopo tanta discussione anche a sinistra mi sembra che si sia arrivati a una
conclusione: non bisogna semplicemente affidarsi allo sviluppo, ma orientarlo, adottare
politiche in grado di rispondere alle priorità del paese. Ora, quest'idea deve tradursi
in cose concrete da fare, in Europa. Qui ci sono due ipotesi estreme: una (purtroppo)
minoritaria, che dice che nel mondo globale l'Europa deve competere come insieme,
unificando le sue economie e puntando sulla qualità; un'altra più consistente che pensa
che la competizione si debba fare agendo solo sulle dinamiche di costo. Ma se la politica
di contenimento dei costi è l'unica in campo, la deriva è inevitabile. Tagliata la
superficie, si arriva alla carne e poi all'osso: la carne sono le dinamiche salariali, e
l'osso i diritti delle persone che lavorano. O l'Europa è in grado di prospettare l'idea
di una competizione alta, nella quale il welfare e i diritti vengono considerati una
risorsa e non un impedimento, o vincono gli altri.
La moneta unica mostra le differenze tra i salari dei lavoratori che in Europa fanno
lo stesso lavoro. Cosa conta di fare il sindacato?
La situazione è paradossale, i differenziali tra nazioni sono molto rilevanti.
Per questo penso siano necessarie politiche economiche e sociali europee. Serve una
legislazione europea sul mercato del lavoro, per evitare fenomeni di dumping sociale, e
servono modalità uniformi di redistribuzione: i contratti europei. Questo non vuol dire
imporre ad esempio lo stesso salario per tutti i metalmeccanici europei, ma armonizzare le
crescite retributive future.
Insomma, il contratto "nazionale" sarebbe quello europeo...
Sì, il modello contrattuale del futuro è questo: contratto europeo e contratto del
luogo di lavoro. Nel luogo di lavoro si continua a redistribuire la quota di produttività
che va ai salari; mentre il contratto "nazionale" si deve adeguare al livello
del nuovo mercato domestico, che è quello europeo. Le politiche rivendicative da oggi
dovrebbero essere uniformi. Altrimenti, le differenze già esistenti potrebbero
accentuarsi. Ma gli strumenti, i meccanismi negoziali e anche quelli redistributivi sono
tutti da inventare: in Europa abbiamo formule diversissime di contrattazione e di
sindacato. Io penso che il modello di sindacato da privilegiare sia quello confederale,
dove ci sono i sindacati di categoria ma anche le confederazioni, cioè una rappresentanza
degli interessi generali. A breve si aprirà una discussione nella Ces (Confederazione
europea dei sindacati). Non sarà facile.

Hai detto di essere per l'Europa della qualità e non della competizione di costi. Ma
la politica che si sta facendo per il Sud in Italia è tutta basata sulla riduzione dei
costi per le imprese. Non è una politica che punta sulla "qualità". Tant'è
che la Svimez ha lanciato l'allarme: le imprese che si stanno sviluppando a Sud sono in
settori tradizionalissimi, esposti agli shock dei paesi a basso costo del lavoro.
Io sono ancora più pessimista della Svimez, perché non vedo neanche questi segni di
ripresa. Secondo me bisogna agire su entrambe le componenti: il contenimento dei costi e
la costruzione della condizioni per puntare sulla qualità. Il costo del lavoro in Italia
è tra i più bassi d'Europa. Il problema italiano è nel fatto che sul costo del lavoro
gravano oneri che altrove sono sulla fiscalità generale, primi tra tutti quelli sanitari
o oneri che riguardano i diritti di cittadinanza (come il sostegno alla maternità). Se si
fanno le cose che abbiamo scritto nel patto di Natale, quest'anomalia si risolve. In più,
con contratti d'area e patti territoriali (in parte nella stessa logica utilizzata per
favorire l'emersione del lavoro nero) si sono introdotti vantaggi contributivi e fiscali
circoscritti alle aree più deboli. Oggi le aree meridionali hanno per un investitore più
vantaggi di quelli dei tanto decantati Galles e Irlanda del Nord. Ma non ci sono segni di
attrazione consistente di queste aree.
...e neanche di emersione del lavoro nero.
No, sull'emersione i risultati ottenuti sono interessanti, per quanto limitati. Il
problema è che finora abbiamo dato a chi "emergeva" solo la possibilità di
regolarizzare i contratti (gradualmente, in 4 anni). Ma restavano le pendenze contributive
e fiscali, per cui poi succedeva che l'azienda "emersa" dal nero, il giorno dopo
era visitata dagli ispettori della Guardia di finanza, che andavano a chiedere gli
arretrati. Se vogliamo aiutare l'emersione non dobbiamo azzerare il pregresso - questo
sarebbe un errore - ma dare la possibilità alle aziende di mettersi in regola
gradualmente. Un intervento non semplice, per il quale sono in corso trattative con
l'Unione europea.
Tornando ai contratti d'area, stai dicendo che per quanto siano "convenienti"
nessun'impresa va a Sud.
Sì, perché le diseconomie esterne sono molto più pesanti dei problemi di costo. Sono
la vera barriera d'accesso al Sud. Eliminare le diseconomie esterne (pubblica
amministrazione, infrastrutture, qualità delle risorse umane) è la condizione per avere
una crescita qualitativa, attrarre investimenti ad alto valore aggiunto, innovazione
tecnologica.
Dunque, quella dei contratti d'area è stata una strada sbagliata?
No, è stata una strada giusta ma da sola non sufficiente. Il problema è l'ambiente
esterno. Se non si punta sull'ambiente, il futuro delle imprese italiane è segnato. Il
modello italiano è cresciuto ed è diventato famoso per la "piccola impresa
flessibile": ma le condizioni del suo successo ora non ci sono più. Il mercato
domestico è l'Europa, non hanno più la svalutazione, il loro dinamismo non è più
quello di prima. Andiamo in Europa con un'impresa che è troppo piccola, è
sottocapitalizzata, ha un grande indebitamento.
Ma fa profitti enormi. Le disuguaglianze restano, e i provvedimenti parziali che tu
stesso hai citato finiscono con l'accentuare la bassa qualità delle imprese italiane. Ma
qual è l'idea di sviluppo, l'indirizzo che un governo di centrosinistra dovrebbe dare?
L'impresa italiana spontaneamente punta al breve periodo, ha sempre fatto così. Il
compito e la funzione di un governo, e di un governo di centrosinistra, è quello di
mettere in campo incentivi e stimoli che servano a rafforzare alcuni tratti della
competizione penalizzandone altri. Io non credo che la parola "programmazione"
debba essere considerata una parolaccia nella sinistra. In Europa i governi di
centrosinistra (e a volte anche quelli di centrodestra, perché non erano affetti da
nessuna sindrome, non avevano complessi di colpa) hanno sempre fatto politica industriale.
Mentre un'insistenza eccessiva sul problema dei costi porta a uno scontro sistematico
sulle dinamiche distributive e sui diritti.
Eppure D'Alema insiste.
Il problema che indica D'Alema è reale, ma tutte le aziende italiane sono piccole,
anche quelle grandi, per i limiti di cui parlavo prima. Per quanto riguarda la crescita
delle aziende con meno di 15 dipendenti, la strada da percorrere non è quella della
sospensione dei diritti per chi supera quella soglia: bisogna semmai aiutarle mettendo a
disposizione risorse e accesso alla ricerca, differenziando gli incentivi per soglie di
impresa. Inoltre, è importante il segnale che il governo dà alle imprese. L'insistenza
su costi e diritti rischia di orientare comportamenti di massa nella direzione sbagliata.
"Programmazione" non vuol dire che l'impresa fa il suo lavoro e lo stato
l'aiuta: ci deve essere un di più, un progetto politico europeo più generale. Ci sono
tante sinistre, ognuna con poche idee. Lafontaine ha lanciato la proposta di una Tobin tax
per mettere un freno ai movimenti speculativi dei capitali. In Francia, il dibattito sulla
programmazione ha un'impostazione tutta keynesiana: rilanciare l'economia attraverso la
domanda, e per far questo far crescere i salari.
Condivido l'idea che è alla base della Tobin tax, anche se da qui alla sua
realizzazione pratica il cammino non è semplice. Per quanto riguarda le politiche della
domanda, vorrei notare che l'anno scorso nella pur contenuta crescita italiana c'è un
dato non trascurabile: sono aumentati i consumi, in virtù del fatto che finalmente dopo
un numero abbastanza lungo di anni è cresciuto anche il salario. Penso che sia giusto
puntare a una crescita con consumi interni, per poterlo fare bisogna avere anche
meccanismi redistributivi che controllino l'inflazione. Ma io non sono così pessimista
sull'Europa. Oggi, sia pure con tante idee e tanto diverse, la sinistra europea che
governa riconosce che l'occupazione è un problema comune, non un fatto nazionale.
Ma quale programmazione vuole il sindacato? e perché sei così innamorato delle
liberalizzazioni? a che ci servono, nell'ambito di un discorso programmatorio?
Io non credo che la programmazione lo stato la debba fare utilizzando la sua presenza
nelle attività produttive o nei servizi: quello era lo stato imprenditore. Senza il
quale, cinquant'anni fa una parte della nostra economia non sarebbe mai decollata. Ma
adesso la programmazione ha bisogno di altri strumenti. Bisogna che lo stato stimoli i
comportamenti orientati alla qualità, che vincoli gli incentivi a parametri che considera
di interesse nazionale. Poi ci sono cose che competono strettamente allo stato, come le
infrastrutture.
Anche la rete elettrica, anche quella delle telecomunicazioni sono
"infrastrutture". In Inghilterra la privatizzazione dei servizi pubblici è
stata un disastro, ci sono spesso abusi straordinari dei nuovi proprietari. Cosa ne
guadagnano i consumatori? E la tentata scalata a Telecom non dimostra che una volta
privatizzati questi settori vanno in balìa della speculazione finanziaria?
Beh, nel trasporto aereo una riduzione dei prezzi c'è stata. In linea generale,
l'importante è che le privatizzazioni siano precedute da liberalizzazioni, ossia dalla
creazione di un mercato con regole: altrimenti a un monopolio pubblico si sostituisce un
monopolio privato. E resto convinto che alcuni servizi fondamentali debbano restare allo
stato. Per quanto riguarda i passaggi di proprietà - come nella vicenda Telecom - quello
che per il sindacato conta è la possibilità di valutare il piano industriale, le
prospettive occupazionali e l'interesse del paese. E questo metro di misura non deve
valere solo per noi.
Il patto di Natale non ha fatto fare alcun passo avanti alla vertenza dei meccanici.
Finirà che anche stavolta dovrete intervenire voi, con governo e Confindustria?
Non ho mai pensato che l'accordo di Natale avrebbe dato automaticamente la soluzione al
contratto dei meccanici, perché l'atteggiamento negativo di Federmeccanica aveva origini
profonde. Ma quell'accordo è importante perché conferma delle regole: per Federmeccanica
da sola è difficile disattenderle, Confindustria non può consentirsi di far diventare di
questa resistenza di Federmeccanica una questione di principio, dunque siamo a uno scontro
sul merito. Sono convinto che ci sono tutte le condizioni per fare il contratto: la
piattaforma è ragionevole, la polemica di Federmeccanica non riesce a far varco
nell'opinione pubblica, lo sciopero della scorsa settimana è andato bene. La cosa
migliore è sempre l'accordo tra le parti. Per ora non c'è nessuna esigenza ravvicinata
che intervenga il governo.
Non si parla più di unità sindacale. E' un'idea tramontata?
Per la Cgil resta un obiettivo importante, per avvicinarsi al quale servono delle
condizioni. Una di queste è in discussione in parlamento, è la legge sulla
rappresentanza sindacale. Poi bisognerà discutere di un progetto comune. Sono sempre
stato contrario a utilizzare l'idea dell'unità sindacale come argomento che guarda alla
politica: riguarda il sindacato, se se ne fa un uso improprio non si va avanti.
A D'Antoni saranno fischiate le orecchie, a D'Alema e Prodi pure. Da noi comincia a
fischiare l'esausto registratore. Ci lasciamo con un impegno: rivederci tra un po' per
parlare del grande assente di questo forum, il lavoro "atipico".
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