| La coppia? E' comprare una
          lavatrice insieme 
 
 
 Ulrich Beck con Giancarlo Bosetti
 
 
 
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 La coppia? E' comprare una
          lavatrice insieme
 Il lessico di Ulrich Beck
 Il prossimo 11 gennaio Beck, per iniziativa di “Reset” e di
          Carocci editore, Ulrich Beck discuterà il tema della società del
          rischio al Goethe Institut di Roma con Giuliano Amato, Giancarlo
          Bosetti, Angelo Panebianco, Alessandro Pizzorno.
 
 Finalmente i lettori italiani possono leggere, tradotta, la Risikogesellschaft,
          vale a dire La società del rischio, di Ulrich Beck. Il libro
          uscì in Germania nell’epoca di Chernobil, adesso arriva in Italia
          dopo la mucca pazza. Il rischio ci accompagna.
 
 "Allora mi occupavo soprattutto della discussione intorno ai
          media", dice Beck, "penso alla sindrome della mucca pazza,
          ai cibi manipolati geneticamente, ed a molte altre cose, di cui io
          allora non potevo sapere nulla, ma che servono ad illustrare la storia
          fondamentale che la società del rischio ci continua a
          raccontare".
 
 Come è entrato in sintonia con questa dimensione del rischio?
 
 Quando ho scritto la Risikogesellschaft era l’inizio degli
          anni ’80 avevo l’impressione che la sociologia, le scienze sociali
          in genere, avessero dormito, mentre la percezione culturale dei rischi
          doveva diventare un tema centrale della ricerca e della teoria.
 
 Quindi non aveva in mente solo il rischio nucleare e ambientale?
 
 Il libro è stato scritto ancor prima di Chernobil, e proprio mentre
          ne correggevo le bozze, arrivarono le notizie della catastrofe, ma la
          società del rischio non è una società delle catastrofi. L’argomento
          centrale è un altro.
 
 E qual è?
 
 Anche se non si verifica alcuna catastrofe, ci troviamo nel mezzo di
          uno sviluppo sociale in cui l’attesa dell’inaspettato, l’attesa
          dei rischi possibili domina sempre più la scena della nostra vita:
          rischi individuali e rischi collettivi. E’ il fenomeno nuovo che
          diventa un fattore di stress per le istituzioni nel diritto, nell’economia,
          nel sistema politico ed anche nella vita quotidiana delle famiglie.
 
 La dimensione del rischio è tipica, lei dice, della “seconda
          modernità”? Che cosa vuol dire?
 
 La “seconda modernità” non indica soltanto un cambiamento
          strutturale, non sta solo a significare una crisi del ‘moderno’,
          ma rappresenta un cambiamento di metro. In sociologia dobbiamo
          abbandonare le “categorie-zombie” come la famiglia in quanto
          unità economica, oppure la classe, la piena occupazione e così via.
 
 Parliamo della famiglia. Perchè è una categoria-zombie?
 
 Il reddito famigliare era la premessa e l’indicatore dell’appartenenza
          ad una certa classe sociale, il criterio in base al quale si veniva
          ordinati entro precise gerarchie di status, l’unità di base del
          sociale. Oggi però dire che cosa è diventata la famiglia è tanto
          difficile quanto sapere in che direzione andranno i partiti
          socialdemocratici in Germania o in Italia.
 
 Che cosa è successo alla famiglia della “prima modernità”,
          quella della società industriale classica?
 
 Che un uomo e una donna che vivono insieme possono parlare dei figli
          “miei”, dei “tuoi”, e dei “nostri”.. Ci sono coppie
          separate che, dopo la separazione, ancora continuano a funzionare come
          coppie, altre si perdono totalmente e formano nuove coppie. C’è la
          mobilità che divide, specie da quando le donne sono entrate alla pari
          nel mercato del lavoro; si hanno contemporaneamente più domicili, e
          così via complicando. Invece di famiglie abbiamo costellazioni di
          relazioni diverse.
 
 Sono realtà a cui ci stiamo a poco a poco abituando.
 
 Ma continuiamo a considerarle situazioni eccezionali, e private, non
          ne facciamo la base per la comprensione della nuova realtà sociale
          emergente, come invece si dovrebbe.
 
 La famiglia era unità di luogo, di reddito, di identità sociale.
 
 Ora è proprio questa unità che va in pezzi, e da ciò nasce la
          domanda, lanciata dal sociologo francese Claude Kaufmann: come si può
          definire in maniera nuova l’unità fondamentale del sociale? E la
          sua risposta parte dalla coppia; con il che abbiamo spostato la
          domanda ma non abbiamo ancora risolto il problema. Che cosa è infatti
          una coppia, dal momento che essa non può più essere definita sulla
          base del matrimonio, né della relazione sessuale, né della pura e
          semplice convivenza?
 
 E come lo risolviamo allora il problema definitorio e sociologico?
 
 La risposta di Kaufmann è la seguente e mi piace: la coppia nasce
          quando due persone comprano una lavatrice insieme. Una lavatrice
          significa infatti che si dà una risposta organizzativa al problema
          quotidiano del che fare con la biancheria sporca. Un problema spinoso
          della convivenza, proprio con la sua spinosità quotidiana cementa le
          basi di un’unione.
 
 E come arriviamo dalla lavatrice in coppia alla sua “seconda
          modernità”?
 
 In moltissimi campi - non solo in quello dell’economia familiare, ma
          anche nel caso della classe, dell’azienda, dello stato, della
          nazione, e in molti altri ancora - abbiamo a che fare con queste ‘categorie
          zombie’. Anche le classi sociali sono sradicate da una tradizione
          che era costituita da di fattori omogenei, strutture famigliari,
          condizioni abitative, attività del tempo libero, distribuzione
          geografica della popolazione, appartenenza a club e sindacati,
          comportamenti di voto. Eppure le vecchie idee ingombrano la mente e ci
          impediscono di vedere il mondo di oggi. La teoria della ‘seconda
          modernità’ rappresenta il tentativo di sviluppare un nuovo quadro
          concettuale.
 
 Lei parla anche di ‘modernizzazione riflessiva’. Che cosa
          significa?
 
 Significa che è la modernizzazione in sé e per sé ad essere
          diventata un problema. Noi non abbiamo più a che fare con i suoi
          fondamenti - la società industriale, il mercato del lavoro salariato,
          la famiglia nucleare, la produzione di massa etc. - bensì con le sue
          conseguenze. Viviamo in un mondo di rischi creati da noi e spesso
          invisibili. Nelle città medievali il rischio della malattia lo
          sentivi dalla puzza e dallo sporco, pungeva il naso, oggi il rischio
          sta nella sfera di formule chimiche e fisiche che non si sentono e non
          si vedono.
 
 Il modello economico europeo non riesce a dare risposte
          sufficienti. Non soffriamo solo di mucca pazza e inquinamento ma anche
          di disoccupazione.
 
 La sfida principale della seconda modernità consiste nel fatto che
          abbiamo a che fare con un lavoro sempre più fragile. La “piena
          occupazione” che ci è dato sperare è una “fragile piena
          occupazione”. I contratti di lavoro diventano più indeterminati e
          più incerti, l’orario lavorativo diventa più flessibile e tutto
          questo dà alla nostra vita quotidiana l’impronta del rischio e
          della insicurezza.
 
 Ma queste forme di occupazione non sono invocate da ogni parte
          come più moderne e competitive?
 
 Ho lavorato in una commissione governativa federale: abbiamo calcolato
          che in Germania, come in altri paesi europei, già oggi un terzo degli
          occupati sono occupati “fragili”, e se la tendenza si conferma,
          tra dieci-quindici anni, la metà degli occupati sarà del genere “fragile”.
          E’ un cambiamento drammatico, ma inevitabile. Io però sono
          contrario a farne un modello ideale come si tende a sostenere in Gran
          Bretagna e negli USA. Alle discriminazioni che ne nascono io penso che
          la politica debba rispondere in modo appropriato e dignitoso. Dobbiamo
          non escludere queste nuove forme di occupazione ma anche sviluppare
          nuovi sistemi di garanzie.
 
 Pensa che la Terza Via sia ancora un’idea forte?
 
 Se per Terza Via intendiamo 1) nuove risposte politiche per l’Europa
          2) ricerca di una rifondazione della democrazia al di là della
          vecchia società del lavoro 3) preparazione alle contraddizioni della
          multiculturalità, allora continuo a considerare la politica della
          Terza Via come qualcosa di straordinariamente importante. Io la
          intendo non come un nuovo percorso obbligato verso la felicità,
          bensì come una ricostruzione della libertà politica che passi
          attraverso l’esame di molte alternative.
 
 Le sfide della “società del rischio” hanno bisogno della
          dimensione politica europea, ma la discussione tra i modelli di Europa
          è al momento ferma.
 
 Sono scontento della discussione tra il modello federale di un
          superstato alla Fischer e la difesa dello Stato-nazione alla francese,
          perché essa rimane ancora tutta inscritta nel paradigma
          nazional-statale. A questi due modelli vorrei contrapporne un terzo,
          che penso in futuro dovrà essere considerato, quello di un’Europa
          cosmopolitica.
 
 In che senso è diverso dal modello federale?
 
 Nel senso che debba contenere in sé la diversità degli altri. Europa
          cosmopolitica significherebbe dunque riconoscere e non cancellare le
          diverse identità nazionali, ma contemporaneamente anche perderne, o
          relativizzarne, la pregnanza aprioristica che ne fa baluardi della
          statalità. Si tratta di inventare uno Stato Europeo - che in verità
          ancora non conosciamo - che non sia più uno Stato nazionale, bensì
          il suo esatto contrario: uno Stato che accetti le diverse identità
          nazionali e crei tra di loro un clima di tolleranza, possibile proprio
          perché non si tratterebbe di uno Stato nazionale bensì
          trans-nazionale.
 
 
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