L’identità personale e la coscienza
Remo Bodei con Silvia Calandrelli
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coscienza
Chi è Remo Bodei
Professor Bodei, può dirci che cosa si intende per “identità
personale” e in che modo il problema ha assunto una rilevanza
filosofica?
“Identità personale” indica la capacità degli individui di aver
coscienza di permanere se stessi attraverso il tempo e attraverso
tutte le fratture dell'esperienza. Per la filosofia, il momento
decisivo è avvenuto grosso modo tre secoli fa, quando si è passati
dall'idea di “anima” a quella di “identità personale”. È
stato Locke, nel Saggio sull'intelligenza umana, a parlare per
la prima volta di “identità personale”. Ciò accade nel momento
in cui la vecchia idea metafisica e religiosa di “anima”, intesa
come sostrato unitario e indivisibile, che permette la permanenza
delle nostre esperienze, entra in crisi. È quindi un periodo in cui,
in un certo modo, si “elabora il lutto” per questa perdita,
perché, essendo l'anima una proiezione verso l’eternità
dell'individuo legato alla vita terrena, cioè al divenire nel tempo,
una volta che tale operazione non è più possibile, bisogna abituarsi
a vivere nel mondo della caducità.
L'identità personale implica la percezione di una fragilità della
coscienza e di una serie di discontinuità, che devono essere in un
certo modo metabolizzate. L'identità personale, quindi, per Locke,
che non credeva alle entità metafisiche come la sostanza o la causa,
viene connessa a una fondazione che chiamerei “orizzontale”,
invece di una fondazione “verticale”. Per fondazione “orizzontale”
intendo il fatto che, non potendo più presupporre un elemento di
continuità metafisico o naturale dell'individuo, bisogna cercarlo in
qualcosa che mette in relazione gli istanti, le ore, i giorni della
nostra esistenza con tutto l'arco della nostra vita organica. Per
Locke esiste qualcosa di analogo, costituito dal filo della memoria.
Possiamo esaminare i caratteri distintivi delle due tradizioni
teoriche principali sull'argomento, quella di area anglosassone e
quella di area tedesca?
Direi che la distinzione fondamentale consiste in questo: nell'area
anglosassone - che a partire da Locke, Hume, prosegue fino ai nostri
giorni con Derek Parfit o Daniel Dennett - consiste nel privilegiare
il momento del sistema aperto, in cui l'identità personale è qualche
cosa di rischioso, che gli uomini devono giocarsi nel tempo e che non
garantisce affatto un rapporto continuo con se stessi. Ad esempio, in
Locke c'è l'idea, che coincide con la sua filosofia politica e la sua
filosofia economica, secondo la quale l'identità è una conquista, è
un lavoro. Locke dice, in un passo molto bello, che le nostre idee
muoiono molte volte prima dei nostri figlioli e somigliano a quelle
tombe in cui le scritte si sono cancellate e rimane soltanto il marmo
o la pietra. Per cui, se noi non “ripitturiamo” continuamente le
nostre idee, queste rischiano di dissolversi. Ecco, l'identità
personale, per Locke, consiste in questo lavoro di rinfrescamento
continuo di tutte le nostre idee, garantendo la nostra continuità.
L'identità, quindi, non poggia su niente - questo vuol dire
fondazione “verticale” - ma si prolunga nel tempo, è legata alla
continuità della memoria, di modo che, se io - dice Locke - sento di
essere la stessa persona che ha avuto i vissuti di Socrate e se li
ricorda, allora io sono Socrate; se invece io, per qualche malattia,
per un'amnesia, non ricordo più di essere la stessa persona
precedente, io non sono lo stesso.
Questo elemento di fragilità si accentua in Hume, perché in Hume la
memoria diventa praticamente qualche cosa che anche nelle persone
normali è piena di buchi, non ha continuità. “Che cosa facevo -
dice Hume - il 3 agosto del 1733?”. Chi se lo ricorda? Per Hume
l'identità è legata a un fascio di percezioni attuali, nel senso che
io sento caldo, sento freddo, mi passa per la mente questo pensiero,
ma se cerco di afferrare quello che è l'io, trovo soltanto il vuoto.
Di conseguenza, l'identità è qualcosa di fittizio, di costruito.
Hume la paragona ad una repubblica, e quindi ad una confederazione di
stati di coscienza: gli stati di coscienza cambiano, come cambiano gli
abitanti di uno stato, mentre la repubblica continua.
Questa linea che va da Hume al presente ha mantenuto una certa
stabilità. Per esempio in Goffman - che è un sociologo e filosofo
canadese morto qualche decennio fa - il problema dell'identità
personale si pone sempre a livello di relazioni, quindi a livello di
rapporti. Non esiste un nucleo fisso dell'identità, perché
l'identità si costituisce attraverso le relazioni con gli altri, e le
relazioni sono più importanti della sostanza; in termini geometrici
potremmo dire che il segmento che unisce le persone o gli stati
personali dello stesso individuo tra loro è più importante dei punti
di partenza e dei punti di arrivo.
Invece la tradizione tedesca ha un'altra caratteristica, da Kant e
Fichte fino a Dieter Henrich, che consiste nel tentativo di tradurre
il problema humiano dell'identità, che aveva affaticato Kant, in una
sorta di circolo dell'autocoscienza, e trasformare la retta in
circolo. Questo significa che per Kant l'identità dell'individuo è
l'Io, un “veicolo” (Vehikel) che trascina tutte le nostre
esperienze; però questo Io, la nostra identità personale, non è
facilmente individuabile, anzi per Kant è una 'x', il pendant
di quel famigerato elemento dalla parte dell'oggetto che è la “cosa
in sé”. Quindi tutto il nostro sapere sta tra due 'x': tra
l'oggetto che è inconoscibile e il soggetto che è altrettanto
inconoscibile. Si può dire che l'Idealismo tedesco con Fichte, e in
parte il Romanticismo con Novalis, nascano con l'intenzione di
decifrare questa 'x', perché per Fichte la 'x', nel famoso “Primo
principio della dottrina della scienza”, è una tautologia, e cioè
“Io=Io”: io voglio ricongiungere il pensiero di me stesso, “Io”
che penso come soggetto, a “Io” che sono pensato come oggetto.
Naturalmente qui comincia una grande serie di contraddizioni, perché
si crea una quantità di immagini, come in una galleria di specchi che
non finisce mai: “Io” che penso a me stesso, che pensa a se
stesso, eccetera. Alla fine però, in Fichte c'è il riconoscimento di
una sconfitta, in cui si riconosce che non si può fondare l'identità
personale, perché è qualcos’altro che io presuppongo, l'“essere”
o la “vita”, che condiziona il pensiero. Il risultato
dell'idealismo tedesco, di Fichte - non di Hegel - è quello di
dichiarare che io non posso girare attorno a me stesso, rincorrere me
stesso come in una specie di rondò e “riacchiapparmi per la coda”
perché il pensiero non è autosufficiente. Prima del pensiero c'è la
“vita” o l'“essere”, cioè qualcosa di indeducibile.
Che cosa implica la riduzione dell'identità personale a “filo della
memoria”, per dirla con Locke, o a “fascio di percezioni”, per
dirla con Hume?
Implica che il passaggio degli individui, degli uomini, delle donne,
attraverso il tempo, è un passaggio precario. Esso è legato, in
Locke, a questo elemento del filo, che può essere continuamente
tagliato, come dire, da una Parca maligna con la conseguenza che noi
facciamo una gran fatica ad essere noi stessi. C'è una battuta di
Adorno che è molto bella: chiamarsi “io” molto spesso è un atto
di presunzione, perché l'essere individui non è un dato naturale, ma
è il risultato di uno sforzo.
In Hume, poi, la cosa diventa ancora più drammatica: se io mi colgo
sempre istantaneamente, se sono certo di me stesso solo nel momento in
cui ci penso e per il resto mi lascio vivere, allora questo vuol dire
che la mia identità è qualcosa che sfugge ad ogni mio controllo.
Così, in tutta la tradizione inglese, e soprattutto in quella dei
padri fondatori, in Locke e in Hume, c'è il senso della precarietà
dell'esistere e della impossibilità, per così dire, di riassumersi
ad ogni istante della vita; c'è l'idea che la nostra identità,
perdendo sempre qualche cosa, è un’identità per tracce.
Qual è l'esito dei tentativi di Kant e di Fichte di congiungere la
coscienza con se stessa, nella forma circolare, come lei diceva,
dell'autocoscienza, per salvarla dalla inconsistenza e dalla
fragilità alla quale Hume la condannava?
L'esito è quello che accennavo prima, cioè la constatazione di un
fallimento, fallimento fruttuoso e utile, le cui somme saranno tirate
da Schopenhauer, che parla dell'Io come di una “voce che rimbomba in
una sfera cava di vetro”: se io cerco di afferrare questa voce che
sembra mia, ma non lo è, abbraccio un vano fantasma. Per Schopenhauer,
noi, come individui, non siamo nient'altro che un capriccio della “volontà
di vivere”, di questa entità anonima che parla in tutti gli esseri
viventi, dalle formiche all'uomo; siamo una voce o - per meglio dire,
come si afferma ne Il mondo come volontà e rappresentazione -
“siamo come dei ghirigori che la volontà di vivere traccia nella
lavagna infinita dello spazio e del tempo”.
Usando un'immagine della commedia dell'arte italiana, potremmo dire
che siamo come i personaggi della commedia di Gaspare Gozzi, Pantalone
e Colombina, che ripetono in tutte le performance la loro parte e
in un certo modo non vivono ma sono vissuti, non pensano ma sono
pensati, non agiscono ma sono agiti.
Questa posizione di Schopenhauer avrà delle grandi risonanze in un
periodo successivo, cioè alla fine del secolo, e attraverso von
Hartmann, che ha scritto una Filosofia dell'inconscio nel 1868,
giungerà a Freud.
In Freud l'“Es”, l'inconscio e tutti questi elementi, che, per
così dire, precedono la coscienza e l'identità, hanno un peso
determinante; in Freud, di nuovo, non c'è un Io che guida la danza,
ma un soggetto che deve districarsi tra varie istanze psichiche e tra
varie forze che non controlla.
Questa posizione di Schopenhauer giunge fino a Heidegger, o fino a
Lacan, che dice “Io sono dove non penso e penso dove non sono”,
dissolvendo in questo modo il binomio cartesiano, l' “accoppiata
vincente” tra pensiero ed essere. Heidegger in Essere e Tempo
ritrascrive, mescolandolo con motivi agostiniani, il pensiero di
Schopenhauer a proposito della coscienza, mostrando che non esiste
un'identità personale intesa come qualcosa di dato; al contrario,
l'identità personale si ha paradossalmente nel momento in cui io
sento una voce, una chiamata, Ruf, che risuona dentro me stesso
nel silenzio e si esprime non con parole, ma con un sentimento:
l'angoscia. Quando io sento quest'angoscia della chiamata, di una voce
che è dentro di me, ma contemporaneamente è sopra di me, io mi devo
decidere per la vita autentica.
Questa è l'idea di Heidegger, che viene anche da Rilke: nella
società di massa gli uomini non hanno individualità, non hanno
identità personale, in fondo ognuno fa quello che fanno gli altri -
“così fan tutti”, per parafrasare Mozart - dunque nell'identità
personale della vita inautentica io seguo la maggioranza, evito di
pensare a me stesso, di sentirmi un individuo. Quando però ascolto,
se l'ascolto, questa voce di insoddisfazione che viene da me stesso,
ho la possibilità di scegliere la mia vita autentica, che si
manifesta nell'“essere-per-la-morte”.
Attraverso l'“essere-per-la-morte” prendo coscienza del fatto che
il tempo non è scandito dall'orologio, che il mio tempo personale non
è - come dire - diviso in parti uguali e omogenee: il mio tempo
finirà, il mio tempo è a scadenza e questa scadenza è la morte.
Paradossalmente, quindi, per Heidegger l'individuazione dell'individuo
avviene nel momento in cui si distrugge l'individualità. Soltanto se
penso alla morte, il tempo che mi rimane da vivere ha senso. E
soltanto in questa prospettiva io posso stabilire come piena la mia
identità personale, che altrimenti sarebbe, per così dire,
annacquata, dispersa o dissolta, come in un “bagno di acido
solforico”, dalla vita collettiva, dall'imitare quello che fanno gli
altri.
Quali altre strategie vengono messe in atto per spiegare il fatto che
l'uomo non sia “padrone in casa sua”, per dirla con Freud, ossia
che la sua coscienza sia divisa, mutevole e molteplice, accanto alla
risposta heideggeriana?
Vi è una strategia che nasce nella psicopatologia francese di fine
Ottocento, con dei filosofi medici, i cui nomi sono oggi pressoché
dimenticati, ma che hanno avuto una enorme importanza per gli sviluppi
dei loro studi: si tratta di Ribot, Janet e Binet - quest'ultimo è
l'inventore del quoziente di intelligenza.
Questi pensatori sostenevano appunto che l'anima non è una ma
molteplice, e cioè che noi siamo formati da un “arcipelago di
isolotti di coscienza”, dicevano loro, e quindi la nostra
personalità all'inizio è plurima e poi diventa una, se lo diventa,
perché c'è un Io egemone, che è capace di controllare tutti questi
arcipelaghi riottosi di essere “uno, nessuno e centomila”. In
questo modo il mantenimento dell'identità personale a partire da
questa pluralità che noi siamo, da tutto quello che avremmo potuto
essere e non siamo stati, tutta questa pluralità viene mantenuta in
tiro, in forza, da un Io egemone.
Pensiamo a Pirandello. Ho appena citato Uno, nessuno, centomila,
ma egli ha scritto ben sessanta opere, romanzi, novelle, pièces
teatrali che riguardano la scissione della personalità. Prendiamo ad
esempio una novella intitolata L'Ave Maria di Bobbio, che parla
di un signore che fa il notaio in un piccolo paese. Questi, da
piccolo, sviluppa una personalità da seminarista, diviene molto pio,
pronto per una vita di sacrifici e di ascesi; poi a un certo punto
cambia completamente, diventando massone, ateo, “mangiapreti” e
repubblicano. Accade poi che un giorno viene preso da un gran mal di
denti, che non gli vuole passare. Ma passando davanti a un'edicola e
vedendo l'immagine della Madonna, il suo Io precedente lo induce a
farsi il segno della croce e, quasi per miracolo, il mal di denti
svanisce. A questo punto però non vuole credere alla cosa e quando,
dopo qualche settimana, il mal di denti gli ritorna, da buon
personaggio pirandelliano, piuttosto che dar soddisfazione al suo
vecchio Io, va dal suo amico dentista e si fa estirpare tutti i denti.
Questo apologo indica che dentro di noi ci sono una quantità di
personalità plurime, che, in genere, negli individui normali sono
latenti; ma quando la tensione si allenta, l'Io egemone viene
costretto ad abdicare e questi Io, che prima erano dei comprimari,
prendono successivamente o alternativamente il comando.
A Janet era capitato il caso di una donna con sedici personalità,
Lucie, e nel 1960 persino la legislazione americana aveva assolto un
omicida - si chiamava Billy Mulligan - che aveva ventitré
personalità, tredici in servizio permanente effettivo e dieci, come
dire, dismesse perché il tribunale americano aveva riconosciuto che
il delitto era stato compiuto da una di queste personalità non più
esistenti.
Il che mostra, tra parentesi - e lo mostra anche benissimo Pirandello
in tutta la sua opera - che il problema dell'identità personale è
connesso al problema dell'imputabilità morale e giuridica, per cui se
io ho compiuto qualcosa, devo essere inchiodato alla mia identità
unica e fissa e devo avere continuità tra i miei atti del passato e
quelli del presente. Per lo stesso motivo, oggi, in tutti i tribunali,
in caso di omicidio, la difesa cerca di far riconoscere la non
consapevolezza dell'imputato nel momento in cui ha compiuto un
delitto.
Lei parlava di questa descrizione delle personalità multiple che sono
state in qualche modo identificate nella tradizione della
psicopatologia. Potrebbe dirci ora come la filosofia moderna
interpreta questo concetto di “personalità multiple”, concetto
che sembra quasi prendere il posto di quello che un tempo era in fondo
il “principio di individuazione” in senso stretto?
Direi che il “principio di individuazione” ha ricevuto un grande
colpo distruttivo da Schopenhauer - il quale ha mostrato che il “principio
di individuazione”, in fondo, è parte di una tradizione, quella
dell'Occidente, che vuole gli individui uguali a se stessi per
renderli responsabili - che è anche l'idea di Nietzsche - e che
invece presso altri popoli non c'è lo stesso pathos
dell'individuazione.
Io credo che il motivo per cui questo problema dell'identità
personale è diventato in fondo così urgente a partire da Locke, sia
legato alla tradizione politica ed economica di certi Paesi
occidentali, e cioè al fatto di porre l'accento sulla capacità
dell'individuo di agire attivamente e di essere libero, la capacità
di liberarsi dai condizionamenti esterni. In Locke la cosa si vede
molto bene, perché vi è l'idea di un lavoro dell'individualità,
legata, nel campo economico, al diritto di proprietà. Io sono
proprietario di me stesso non per “parassitismo” ereditario,
perché per eredità ricevo qualche cosa, ma perché produco me
stesso. Quindi, già in Schopenhauer c'è questa percezione della
storicità dell'idea di identità personale, per cui non è ovvio che
uno ricerchi l'identità personale; del resto ci sono molti filosofi o
alcuni, per lo meno, anche in Occidente, che ora rimpiangono quello
che con espressione inglese chiamano il “selfless man”
dell'Oriente, cioè l'uomo senza self, senza identità
personale, dell'Oriente.
Professor Bodei, dando per vera l’interpretazione secondo cui la
cultura orientale sia poco interessata al principio di individuazione
e quindi all'identità personale, potrebbe dirci chi sono i referenti
occidentali di questa tradizione?
Diciamo intanto che dell'Oriente e dell'Occidente probabilmente
nessuno ne sa molto, perché queste civiltà si stanno appena
incontrando; in fondo, dalla civiltà indiana, cinese o giapponese,
non se ne trae molto, a meno che non si conosca bene la lingua e non
si sia vissuti presso questi popoli per decenni.
Per esempio, parlando con degli indiani, capita di osservare che
questa idea della perdita dell'identità nel tutto per loro non è una
perdita, ma una fusione potenziante l'individualità. In Inghilterra,
che ha avuto molti più contatti storicamente col mondo orientale e in
particolare col mondo indiano, c'è un filosofo che ho già citato,
Derek Parfit, il quale ha scritto un libro, Ragioni e persone,
in cui argomenta in favore di questo abbandono dell'idea d'identità
personale: “identity doesn't matter”, “l'identità non è quello
che conta”.
In realtà - egli sostiene - noi non ci interessiamo all'identità in
quanto tale, ma a qualcosa che l'identità ci promette, e cioè la
continuazione delle nostre esperienze non soltanto nella nostra vita
biologica, ma anche nel futuro. In questo modo egli arriva a una
specie di consolazione privata, una specie di filosofia buddhista o
zen, per cui invece di dire che “domani sarò morto”, dico che
domani le mie esperienze personali non si ricongiungeranno più, non
saranno più continue a nessuna esperienza successiva. Perché,
secondo lui, c'è da consolarsi di questo? Perché io, abbandonando il
“principio di individuazione”, la mia identità personale, e
pensando alle mie esperienze come qualcosa che non mi appartiene in
quanto individuo, ma come un flusso, per così dire, in cui io sono
immerso, anche sapendo che queste mie esperienze domani passeranno a
qualche altro - per esempio con un ipotetico trapianto del cervello -
ho la possibilità che i miei flussi di pensiero, i miei valori, le
mie idee continuino anche negli altri.
C'è un'altra considerazione che dobbiamo fare, professor Bodei, a
proposito dell'identità personale. Michel Foucault, sicuramente ha
offerto una delle più acute ricostruzioni della nascita del soggetto
- e naturalmente della coscienza - che si abbiano nella cultura
dell'Occidente. Come si potrebbe oggi descrivere e recuperare la
lettura che Foucault ha fatto della nascita della coscienza?
Direi innanzi tutto che in Foucault non esiste un soggetto spontaneo;
gli uomini non diventano soggetti o identici a se stessi per un
processo naturalistico, ma lo diventano perché in tutte le società
esistono delle operazioni che egli chiama di “partage”, cioè di
“separazione”: io mi definisco in quanto tale perché, a un certo
punto, escludo, ad esempio, che il mio Io della veglia sia uguale
all'Io del sogno. Sono i primi studi di Foucault negli anni Cinquanta
intitolati Sogno ed esistenza.
Successivamente, nella Storia della follia, Foucault mostra
come si definisca l'individuo sano in opposizione al “pazzo”. I
“pazzi” circolavano tranquillamente nel Medioevo; nei quadri della
tradizione medievale, li si vede girare per le città.
Successivamente, quando finiscono i grandi cicli epidemici, gli
edifici che servivano per mantenere in quarantena i malati di peste
vengono trasformati in manicomi; quindi il problema della pazzia viene
in un certo modo tematizzato, problematizzato, in una determinata
epoca.
Poi, nell'Ottocento, si compie un'altra distinzione, quando nasce il
problema della criminalità: il cittadino per bene si deve distinguere
dai criminali, i quali vengono isolati nelle carceri, che, dice
Foucault, non hanno una funzione sociale, perché in realtà sono
fabbriche di delinquenza - quindi è assurdo mandare la gente in
carcere per combattere il crimine, perché in realtà il crimine viene
in questo modo moltiplicato.
Un altro “taglio”, viene compiuto, ad esempio, più tardi con la
sessualità, con l'esigenza di distinguere l'individuo sessualmente
sano dal deviante; quindi c'è tutto un battage tra l'epoca
vittoriana e la nostra per distinguere la sessualità buona dalla
sessualità malata.
Ma la costituzione del soggetto, per Foucault, ha radici molto più
antiche. Secondo Foucault, oggi essa si ripropone nella forma che gli
avevano dato gli stoici romani, soprattutto Seneca o Marco Aurelio,
per cui, vivendo in un'epoca in cui le leggi non hanno efficacia,
un'epoca in cui la gente non crede più alle leggi generali, l'unico
modo di procedere è di dare forma a se stessi, di scolpirsi come una
statua, di avere cura di sé, cioè di plasmarsi, dare a ciascuno la
propria legge. È quella che Foucault chiama un'“estetica
dell'esistenza”: “Ci diamo tanto da fare per avere una lampada
fatta da un bravo designer e poi non ci preoccupiamo di noi stessi”.
Sotto questo punto di vista per Foucault la costituzione del soggetto
è il risultato delle forze che plasmano - dall'esterno o dall'interno
- il soggetto stesso.
Quindi abbiamo da un lato la tradizione romana dello stoicismo,
dall'altro lato, però, quella cristiana. Foucault ha dedicato un
grande sforzo di analisi - in un libro non ancora comparso che si
chiama “Les aveux de la chair”, “Le confessioni della carne” -
del modello cristiano della confessione, perché la confessione
obbliga l'individuo, anche il più rozzo, il più ignorante, a
guardarsi dentro, ad analizzarsi, per poter formulare in parole, nella
confessione, i propri vissuti, e quindi a distinguere il peccato dal
non peccato. La cosa è tanto più importante perché si ha di fronte
un giudice che vede tutto, e di fronte al quale bisogna confessare,
anche contro se stessi, i propri peccati. Quindi l'individualità
occidentale è nata, secondo Foucault, dalla convergenza di tutte
queste pratiche e di tutte queste teorie, che fanno sì che noi siamo
quello che siamo.
Queste forze che ci hanno plasmato ci abbandonano, perché non c'è
più nessun regista che ci possa dire quello che dobbiamo fare: il
ritorno alla tradizione antica, alla cura di sé o all'estetica
dell'esistenza, indica che noi ci troviamo di fronte a un campo non
soltanto di divieti, ma anche di opportunità che dobbiamo sfruttare.
Per questo, per Foucault, la soggettività non è qualcosa che
riguarda semplicemente la coscienza. In questo avrebbe ragione
Schopenhauer: noi non possiamo afferrare un'essenza dell'Io eterna e
naturale; possiamo però fare qualche cosa di diverso, e cioè
costruirci.
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