I
lettori scrivono
Da: Luigi Belmonte <luigbelm@tin.it>
A: <caffeeuropa@caffeeuropa.it>
Data: Sabato, 7 ottobre 2000 8:29
Oggetto: Sul caso Pirelli e sul destino dei ricercatori
Sono un laureando in lettere moderne presso la Federico II il quale,
senza mai soffrire contraddizioni intellettuali, ha sempre considerato
la ricerca scientifica e l’esperienza artistica come autentici
piaceri della conoscenza. Ma più che annoiarvi con identità logiche
quali "l’arte è scienza, come la scienza è arte" vorrei
piuttosto con questa lettera riflettere sui recenti accadimenti del
panorama industriale e universitario italiano.
Il sistema industriale italiano è stato recentemente scosso e
trasformato con un’operazione finanziaria che da molti è stata
elogiata per tempismo e qualità dei risultati, da pochi invece
criticata quale manifestazione della malattia immunocompetitiva che da
tempo ha infettato la grande industria italiana. Di tale operazione è
stata artefice la Pirelli. La vendita del comparto
tecnologico-industriale interessato alla produzione delle fibre
ottiche, fondamentali per compiere il vero balzo verso la
comunicazione globale, non ha interessato le sole strutture produttive
ma anche il tesoro scientifico che tali strutture racchiudevano: un
brevetto, tutto italiano, riguardante un avanzato sistema di
trasmissione dati attraverso le fibre ottiche.
Si è sottolineato l’enorme guadagno ottenuto dal management della
Pirelli nella cessione non tanto del comparto industriale, ma proprio
di tale brevetto, un guadagno immediatamente trasformato in una
liquidità di svariate migliaia di miliardi. Ora tale guadagno dovrà
essere ovviamente ridistribuito tra i diversi azionisti della Pirelli
sotto forma di investimenti od acquisizioni inrteressate allo sviluppo
della stessa società.Tra i probabili obiettivi di tale massa
monetaria, unica probabilmente tra le aziende italiane, vi sono l’allargamento
delle quote di controllo nei settori tradizionali quali quello del
mattone, soprattutto il mattone recentemente dismesso dagli enti
statali.
Nel frattempo, grazie a clausole contrattuali definite sul modello
delle stock-option, il management artefice di questa operazione
economica incasserà circa il 12,5% di tale liquidità, un management
composto da sole tre persone. In pratica uno strumento finanziario
importato dai paesi anglosassoni per garantire la trasparenza e la
coincidenza tra interessi aziendali, interessi privatistici dei
manager ed interessi dell’azionariato, è servito per depauperare
nella massima segretezza un valido patrimonio industriale. Ovviamente
gloria imperitura rimarrà a quei ricercatori italiani che sono
riusciti ad attuare un’innovazione tecnologica dal così grande
valore economico. Se spiccioli di queste somme fossero ridistribuite
con minore parsimonia tra i validi ricercatori italiani, potremmo
considerare la sola ricerca scientifica un valido settore industriale
per l’Italia.
Ma quel che non accade nell’ambito industriale italiano parimenti
continua indifferentemente a non accadere nelle sedi universitarie,
sedi ancora di più in Italia interessate alla pura ricerca
scientifica. Infatti la fuga di cervelli dal soffocante clientelismo
italiano verso i laboratori scientifici stranieri continua ad essere
un movimento unidirezionale. Ogni tanto la gravità di questo
movimento si discerne più per le polemiche e le legittime critiche
che tali emigranti intellettuali scatenano per amor patrio, che per
una valida e produttiva analisi di un fenomeno sconcertante per un
paese che vuole ritenersi industrializzato. E si badi tali polemiche
balzano ad onore di cronaca e sono ritenute quasi irrefutabili solo
quando il prestigio scientifico di chi le scatena è immune da
qualsiasi caratterizzazione di frustrata mediocrità.
Io credo di essere tristemente partecipe non solo di un’Italia
culturalmente disimpegnata dalla ricerca scientifica ma anche
disimpegnata oramai industrialmente dal raggiungere una moderna
cultura economica. Di questa generale arretratezza culturale che
imprigiona il bel paese nella rete della microscopica
imprenditorialità non può essere imputato quale solo colpevole lo
stato in quanto entità istituzionale ma lo stato in quanto entità
sociale sì.
Con questo voglio dire che non ha nessun senso che la ricerca
scientifica venga incentivata nelle università italiane quando la sua
ricaduta economica è sottratta da interessi industriali o
semplicemente finanziari restii a qualsiasi seria intenzione
produttiva. Quando anche per capacità imprenditoriali prettamente
personali tale ricerca possa trasformarsi in un' opportunità
industriale sussistono ostacoli burocratici e difficoltà di
reperimento delle risorse finanziarie necessarie, un insieme dunque di
problemi da confinare nel mondo delle idee ogni attualizzazione.
Il disimpegno del capitalismo italiano è così a tutti evidente.
Nel momento in cui una qualsiasi innovazione tecnologica più che
essere industrializzata viene immediatamente finanziarizzata
semplicemente convertendola in liquidità monetaria la degenerazione
culturale non potrà essere allora ritenuta pertinente alle sole
istituzioni scientifiche ma dovrà essere rintracciata anche nell’
ambiente economico. Anzi, sarebbe un bene che le università potessero
vendere i prodotti delle loro ricerche come avviene in altri paesi: in
realtà l’ inefficienza e l’ arretratezza universitaria nascono
proprio dall’ assenza di qualsiasi stimolo industriale o di
concorrenza tecnologica tra ricerca universitaria ed esigenze
industriali.
Per giunta una volta ottenuta liquidità monetaria e depauperatala con
difformi pratiche azionarie, quel che rimane è costretto a forme di
investimento conservative quali il mattone, tesaurizzando e sottraendo
preziose risorse all’ intero sistema scientifico-industriale.
A questo punto perché continuare a fare ricerca in Italia?
Se semplicemente è la passione per la verità scientifica a spingerci
allora tale passione perché non dovrebbe essere incentivata
indipendentemente dai problemi linguistici e nazionalistici,
scrollandosi così degli interessi particolari e baronali che tanto
ottenebrano la libera luce della ragione?
Oppure se semplicemente oltre la gloria scientifica si ricerca anche
quella economica perché non chiedere ad altre nazioni gli strumenti
più idonei e più democraticamente disponibili per una piacevole
sutura tra felicità intellettuale e felicità economica?
In entrambi i casi "migrare necesse est".
Luigi Belmonte
luigibelm@tiscalinet.it
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