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Racconto/Un inizio (pagina 2)

Mauro Covacich

 

Bellissime, mi ripetevo, e intanto me le immaginavo arrivare dalla parte opposta della citta', quella dei fumi e dei boati piu' grossi, con il torpedone schermato da pannelli di metallo, invaso perennemente dall'odore del carburante. Keta e Mariana sono sedute a gambe larghe nell'ultima fila, quella di sei posti che da' le spalle al finestrone posteriore, quella piu' sicura perche' nessuno spara quando il bersaglio e' passato. Stanno insieme a Dejan, Erik e Peter che si sono incaricati, prima che qualcuno potesse intromettersi, di insegnar loro la strada del campo. Il torpedone avanza rollando sulla via dei ministeri. Anche se e' una linea diretta, quando c'e' qualcuno per strada viene fatto salire. Il nuovo arrivato si siede vicino a Dejan, gli sorride come a dire "nessun problema, tutto sotto controllo", ma poi piega lo sguardo e s'incupisce. Su quel vagone puzzolente la gente e' muta e impassibile, in prossimita' degli incroci pericolosi si abbassa in sincronia, con lo stesso movimento di onda, sembra tutta un po' piu' invecchiata e imbruttita - gente che va a lavorare o che rientra dal lavoro, gente che prova a dimenticarsi della guerra ma che invecchia e imbruttisce di paura.

Ecco, adesso scendono, mi dicevo. No, aspettano la fermata del fioraio, che e' piu' sicura. Da li' la strada e' tranquilla, almeno fino al cimitero. Dopo, gli edifici alti della periferia rendono le cose piu' complicate, ma le postazioni dei cecchini sono comunque individuabili in anticipo: trovi sempre qualcuno prima di te che aspetta di passare, gia' da lontano vedi dove comincia a correre e dove riprende l'andatura naturale. Lo vedi allontanarsi piu' sollevato e le sue spalle, ancora contratte, ti sfidano a raggiungerlo.

A questo punto sentiranno senz'altro degli spari, radi, prima lontani, poi piu' vicini. Incrociano i primi volti affannati - c'e' chi si accende una sigaretta camminando e tira a pieni polmoni, - e arrivano a un gruppo di persone, nascoste dietro le auto in parcheggio, che guardano, cento metri piu' in la', dalla parte opposta dell'isolato, un altro gruppo di persone, nascoste e preoccupate come loro. In mezzo, un marciapiede disseminato di cose perse nella corsa.

Dejan chiede spazio come per un numero acrobatico. La gente si apre in due ali e lui sbuca allo scoperto e fila via al galoppo - il vento in faccia, il sangue che martella in testa. Erik e Peter lo raggiungono in un attimo dall'altra parte della strada, nuovamente al sicuro. Chiamano le ragazze in coro, dicono di non preoccuparsi, di raggiungerli senza guardare in giro. Keta e Mariana corrono tenendosi per mano, con i capelli che volano tesi come bandiere. E anche questa volta nessuno spara. Di solito quando superiamo la postazione del cecchino gli facciamo dei segnacci, lo prendiamo in giro per l'unica cosa che sa fare e che non gli e' riuscita. Senz'altro, anche per farsi vedere dalle ragazze, Dejan avra' fatto una delle sue prodezze.

Un giorno si e' tirato giu' i pantaloni e facendo sporgere il culo in direzione del cecchino ha cominciato a gridare e a insultarlo come se lo conoscesse personalmente. Il cecchino ha sparato, ma non lo ha beccato e tutti abbiamo tirato un sospiro di sollievo. Gli altri comunque non apprezzano questo genere di provocazioni, restano a guardarci, impassibili, con il loro biasimo, preferiscono non pensare al cecchino come a una persona, preferiscono la loro discrezione. Stanno li', le donne a mangiarsi il rossetto, gli uomini a inghiottire saliva. Anche la loro corsa e' discreta, e composta. Sembra quasi che corrano perche' ne hanno voglia e non perche' ne sono costretti. Pensano "adesso mi ammazza", e corrono discretamente.

Le ragazze staranno esultando, pensavo, Dejan le avra' conquistate. E intanto immaginavo chi avrebbe attraversato dopo di loro. Ecco, c'e' una donna che corre con due borse di nylon per mano. I manici di una borsa si rompono. La frutta e il resto della roba si versa sul marciapiede. Lei avanza di qualche passo, esita, torna indietro, tenta di raccogliere la frutta ma, da un'altra borsa, le cade anche una bambola. Sparano. Lei bestemmia, prende su solo la bambola e corre via.

Io quando corro non penso mai "adesso mi ammazza". Invece di scappare ho l'impressione di corrergli incontro, di sfotterlo, e sono contento. Penso sempre "non puo' capitare a me".

Un giorno mi sono trovato nella tasca dei jeans un biglietto con il mio nome e l'indirizzo scritti sopra. La scrittura mi sembrava quella di mia madre. Le ho chiesto spiegazioni e lei e' diventata tutta rossa e mi ha gridato dietro che dovevo smetterla di farle domande stupide. Sulle prime mi ha dato fastidio essere considerato come un cane, col nome e il telefono segnati sul collare - proprio io, che lascio a casa portafogli e documenti perche' quando gioco mi ingombrano: e io, quando gioco, voglio essere leggero e scattante come Petrovic -; ma poi ho capito, e di notte ho sognato che qualcuno si chiedeva come mi chiamavo e io gli stavo accanto, disteso, in silenzio.

Quando mia madre non e' arrabbiata mi accarezza, e poi mi dice che sono diventato ruvido. Io le rispondo che ha cominciato a crescermi la barba, ma lei dice che non c'entra, che e' la guerra che ci ha resi tutti un po' piu' ruvidi. Dice anche che dovremmo pregare, ma nessuno di noi ne ha voglia. Solo gli adulti e i vecchi ogni tanto si vede che pregano, o forse fanno finta, visto che prima della guerra a nessuno passava per la testa di pregare. Io non mi vergogno a dire che non prego, mi sento solo un po' in colpa perche' al mattino fingo di andare in biblioteca civica, ma in fondo in fondo credo che mia madre abbia capito che e' una bugia.

Quando sono arrivato al campo c'era solo Zoran. Gli altri erano ancora per strada. Non so come dire ma si sentiva che era un giorno particolare. Abbiamo cominciato a buttare la palla dentro, pigramente, giusto per scaldare la mano, e intanto chiacchieravamo.

- Sai che oggi vengono anche due mie amiche?

- E che ce ne facciamo di due ragazze?

- Quando le vedrai giocare cambierai idea.

- Le ragazze non servono per giocare. Servono per qualcos'altro - e ridendo si e' messo il pallone davanti alla pancia.

Anch'io ho riso. Allora lui ha preso a dimenarsi intorno al pallone con smorfie e mugolii, finche' non l'ho distratto mostrandogli una cosa che mi aveva colpito appena arrivato. In lontananza, verso la citta', dalla nostra posizione si vedeva un viavai di uomini e donne intorno ai grandi magazzini della cooperativa come se tutto fosse normale, solo che dentro i magazzini nessuno vendeva piu' niente da mesi. Quell'enorme edificio stava li' come una scatola vuota, con le pareti nere dell'ultimo incendio, e la gente si ostinava a girarci intorno.

- Vanno li' per abitudine. Secondo me non sanno neanche loro perche'. Forse per ricordo, - mi ha detto Zoran, con fare da grande, provando una serie di ganci.

- E allora perche' nessuno va piu' allo zoo? - gli ho chiesto, sapendo di provocarlo.

- Sarebbe un brutto ricordo, - mi ha risposto secco lui, passandomi il pallone dritto al petto.

Lo zoo e' stato mangiato quasi tutto, "bestia per bestia" come dice Zoran. E lui questo non lo perdona, anche perche' suo padre ne era un guardiano. Io gli chiedo sempre dello zoo, perche' mi piacciono gli animali, anche se i suoi racconti mi rendono triste. Lui comincia, ripete sempre le stesse storie e io lo sto ad ascoltare. Anche ieri pomeriggio e' stato cosi'. Tiravamo nello stesso canestro, quasi da fermi. Si sentivano il rumore della retina, l'eco breve della palla che rimbalza e la voce di Zoran. Il resto sembrava assisterci in silenzio. Solo quel bosco nero, lassu' in alto, aveva un'aria minacciosa.

Il padre di Zoran dice che per primi sono stati mangiati gli uccelli, gli animali piu' commestibili e piu' facili da trasportare. Entravano nelle voliere col fucile e le reti. Il direttore dello zoo, quando gli hanno ucciso una delle due aquile, e' impazzito e ha nascosto l'altra in un grosso scatolone coi buchi per l'aria. Per due giorni l'aquila ha gridato ininterrottamente, poi e' rimasta muta, grattando e picchiando le pareti di cartone, come se fosse stata seppellita viva, finche' l'oscurita' totale e la dieta di pane bagnato non l'hanno esaurita definitivamente. Dopo gli uccelli e' stata la volta degli animali piu' grandi: cervi, antilopi, zebre. Non era difficile catturarli, anche senza fucile. Li prendevano per fame. Bastava un'esca, l'antilope accorreva e loro l'ammazzavano. Per portarli via spesso bisognava tagliarli a pezzi. Cosi', per qualche tempo, l'ambulatorio veterinario era diventato una specie di macelleria.

- Gli animali piu' forti, pero', non li hanno toccati, - ha concluso d'un tratto Zoran.

- Questo non me lo avevi mai detto.

- Si', non li hanno toccati, non ne hanno mai avuto il coraggio. Gli elefanti e le giraffe li mettevano in imbarazzo perche' erano troppo grandi, gli orsi e i leoni perche' erano troppo superbi, gli oranghi perche' assomigliavano troppo a degli uomini in carcere.

- E allora?

- E allora sono morti da soli, un po' per volta. Forse e' stato peggio. I leoni si sono mangiati i cuccioli, gli elefanti si sono bevuti la piscia, ma uno dopo l'altro, lentamente, se ne sono andati tutti. Solo il capo degli oranghi ha resistito a lungo. Mio padre, quando poteva, gli portava qualche mela marcia. Poi ha rinunciato.

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