Tra noi, il linguaggio della guerra Carlo Pinzani
È da almeno trentanni che non si restrava un grado di
coinvolgimento dellopinione pubblica e del ceto politico dei paesi occidentali in
una vicenda bellica comparabile con quello di queste settimane.
Bisogna risalire agli anni caldi del conflitto vietnamita per ritrovare
un dibattito sulla guerra altrettanto virulento. Eppure, questi trentanni, al pari
di tutta la precedente parte del secolo XX, sono stati punteggiati da conflitti di
dimensioni e intensità non certo inferiori a quello attualmente in corso tra i paesi
dellAlleanza Atlantica e la residua parte della Repubblica Federale Jugoslava.
I motivi di questo interesse sono abbastanza evidenti perché sia
necessario insistervi: per la componente europea dellAlleanza la vicinanza del
teatro bellico, la piena appartenenza dei popoli coinvolti alla storia dEuropa, lo
sconcerto per la ricomparsa di forme di violenza e brutalità che evocano i momenti
peggiori della storia dellumanità bastano a spiegare un interesse così vivace e
preoccupato. Per la componente americana, pur in assenza di motivi specifici
dinteresse (è infatti quanto meno dubbio che lamministrazione Clinton
disponga di unorganica ed elaborata politica balcanica), la motivazione principale
sembra quella della generica riaffermazione di unegemonia planetaria, senza peraltro
dimenticare le esigenze di politica interna legate alla scadenza elettorale del prossimo
anno.
Siamo dunque di fronte ad una situazione totalmente diversa rispetto al
conflitto vietnamita, ove le ragioni dellappassionata e diffusa partecipazione erano
da ricercarsi nello scontro ideologico connaturato alla contrapposizione globale. Da
questo punto di vista, si trattava di un colossale abbaglio. Da parte occidentale si
riteneva di combattere a difesa dei valori di libertà e di democrazia, mentre si trattava
soltanto di tenere in piedi un regime autoritario e corrotto qual era quello di Saigon; il
campo socialista affermava di battersi in nome della liberazione dei popoli coloniali e
dellinternazionalismo proletario, mentre in realtà Hanoi perseguiva un disegno di
egemonia regionale sulla penisola indocinese, fortemente connotato dal nazionalismo
vietnamita.
In questi giorni, il parallelismo tra il conflitto tra la Nato e la
Serbia e quello del Vietnam viene evocato soprattutto in relazione alleventualità
di un intervento terrestre delle truppe dellAlleanza. Pur non essendo del tutto
privi di analogie, i due contesti sono profondamente diversi, né interessa qui esaminare
analiticamente il parallelismo sul piano strettamente militare. Il conflitto vietnamita è
stato evocato esclusivamente al fine di valutare se ed in qual misura i trentanni
che sono trascorsi abbiano prodotto una qualche modificazione dei termini del problema
della guerra nelle società contemporanee, ovviamente tenendo presenti le profonde
differenze che anche su questo terreno sussistono tra le diverse società in relazione al
loro diverso grado di sviluppo economico e sociale.

In realtà, da questo punto di vista, il discorso devessere
esteso ben oltre il confine temporale rappresentato dalla guerra del Vietnam per
abbracciare lintero secolo, ed, anzi, per certi aspetti, occorre risalire ancora
più indietro nel tempo.
È noto che gli sviluppi della tecnologia e lavvento della
società di massa hanno validato alcuni degli aspetti essenziali dellanalisi del
fenomeno bellico condotta da Carl von Clausewitz negli anni venti del XIX secolo. I due
conflitti mondiali di questo secolo sembrano aver realizzato lipotesi di Clausewitz.
Se - egli scrive - la guerra è "un seguito del procedimento politico, una sua
continuazione con altri mezzi", quando la "politica diviene grandiosa e
vigorosa, lo diviene anche la guerra, per assurgere forsanche fino allaltezza
in cui la guerra giunge alla sua forma assoluta". Ricordando che Clausewitz vedeva
nelle guerre di Bonaparte la prima forma di guerre assolute, che dire allora dei
Blitzkriegen che dettero inizio alle due guerre mondiali, degli inutili massacri della
guerra di trincea, delle politiche terroristiche di occupazione di territori nemici o
neutrali, della fissazione preventiva dellobiettivo di ottenere la resa
incondizionata dellavversario, del bombardamento strategico, addirittura nella sua
forma nucleare?
Se ci si limitasse dunque a considerare i due conflitti mondiali, si
dovrebbe concludere che progresso tecnologico e massificazione delle società hanno posto
fine alle guerre con obiettivi limitati, nelle quali coesistono continuamente obiettivi
militari e politici. Ma, in realtà, se si eccettuano le due guerre mondiali, gli altri
conflitti del secolo, numerosi e crudeli, sono stati delle "guerre limitate" e
non solo nel senso clausewitziano.
Con questo tipo di guerra i contendenti si prefiggono scopi limitati,
adeguandovi razionalmente gli strumenti impiegati. Anche per questo motivo gran parte dei
conflitti che hanno punteggiato il periodo successivo al 1945 hanno ricevuto
unattenzione limitata: e la riprova viene proprio dal conflitto vietnamita, ove
linteresse pubblico e il dibattito sulla guerra nei paesi occidentali furono
alimentati proprio dai dubbi circa la congruità tra gli obiettivi limitati e gli
strumenti che venivano impiegati per conseguirli.
Anche da questo punto di vista il dibattito occidentale (e non, si
badi, esclusivamente italiano, come in modo provinciale e autolesionistico si legge in
buona parte della stampa nazionale) a proposito del conflitto tra la Nato e la Serbia di
Milosevic non è senza analogie con quello che si svolse sul Vietnam. Anche in questo caso
ci si chiede se il bombardamento di obiettivi nemici sia giustificato ovvero, da un altro
punto di vista, adeguato allo scopo. Vè però un tratto distintivo assai importante
tra il conflitto vietnamita e quello attuale, dato che negli ultimi tempi, e segnatamente
nellAfrica sub-sahariana e nei Balcani, sembra emergere una nuova forma di guerra,
limitata solo in senso quantitativo, nel senso che coinvolge deuteragonisti del sistema
delle relazioni internazionali, ma che, qualitativamente, può configurarsi come assoluta
in quanto in essa si persegue la debellatio dellavversario, quando non la sua
fisica scomparsa. Sicuramente questo sviluppo è legato alla fine della contrapposizione
globale, dato che in questo tipo di conflitti tra potenze minori è venuta meno
linfluenza moderatrice dei patroni, sempre attenti a non porre in discussione
lequilibrio del terrore, vero o presunto che fosse. Altro elemento scatenante della
tendenza alla degenerazione dei conflitti limitati in guerra assoluta è la riaffermazione
aperta, non più mascherata da coperture ideologiche, di primati nazionali e, quindi,
caratterizzata dallodio interetnico. È questo un fattore particolarmente grave in
quanto toglie razionalità ai comportamenti umani, al punto che, relativamente al
conflitto in corso, appare superata perfino laffermazione di Clausewitz secondo la
quale "
se i popoli civili non uccidono i prigionieri, non distruggono città e
villaggi, ciò deriva dal fatto che lintelligenza ha in essi parte maggiore nella
condotta della guerra ed ha loro rivelato lesistenza di mezzi dimpiego della
forza più efficaci di quelli derivanti dalle manifestazioni dellistinto". In
realtà, lo stesso Clausewitz riduceva poi la portata di questo giudizio osservando che
nella guerra la distinzione tra civiltà e barbarie ha un valore relativo.
Da tutte queste considerazioni si potrebbe dedurre che la natura della
guerra sia rimasta sostanzialmente invariata dal periodo post-napoleonico e che, anzi, le
sue durezze siano state incrementate dal mostruoso connubio tra la tecnologia e gli odi e
le rivalità ancestrali. Questa conclusione sarebbe sconfortante in particolare per coloro
che, pur convinti della intrinseca ambiguità della natura umana, non si rassegnano a
considerarne lassoluta limmutabilità ed a vedere la storia come sempre uguale
a se stessa.
Una via che consente di revocare in dubbio questa conclusione è
indicata, sia pure in modo incidentale e quasi spregiativo, dallo stesso Clausewitz
quando, proprio allinizio della sua analisi, afferma che la guerra "
è
accompagnata da restrizioni insignificanti, che meritano appena di essere menzionate alle
quali si dà il nome di diritto delle genti, ma che non hanno capacità di affievolirne
lenergia".
Non che le restrizioni derivanti alla guerra da norme
internazionalmente riconosciute si siano estese di molto rispetto ai tempi di Clausewitz,
ma talune condizioni fondamentali del contesto in cui si svolgono le guerre si sono
modificate. Basti soltanto accennare ad alcuni degli sviluppi che in questo senso si sono
registrati nel corso di questo secolo.
Per i motivi più diversi, tanto la Società delle nazioni quanto
lOnu non sono riuscite, se non eccezionalmente e per motivi casuali, ad impedire i
conflitti o farli cessare: non si può peraltro affermare che lesistenza di un foro
universale in cui è possibile far emergere un giudizio politico sulle cause dei conflitti
e sul loro svolgimento sia un fenomeno del tutto irrilevante.
Inoltre, lapproccio multilaterale alle relazioni internazionali
che ha caratterizzato sia la Società delle Nazioni sia lOnu, per quanto macchinoso
e scarsamente funzionante, sta ad indicare la sola strada praticabile in futuro per la
soluzione dei conflitti che continueranno ad insorgere.
Il processo tenuto a Norimberga contro i dirigenti nazionalsocialisti
allindomani della sconfitta del Terzo Reich aveva un fondamento esclusivamente
politico, nel senso che le atrocità commesse meritavano una punizione, pur in mancanza
del presupposto essenziale di qualsiasi discorso punitivo, cioè la previsione normativa
delle fattispecie da punire.

Fortunatamente, con il passare del tempo, la coscienza di questo
gravissimo limite del processo di Norimberga e della sua disciplina sostanziale e
processuale, si è venuta diffondendo: infatti, non appena sono ricomparsi comportamenti
comparabili con quelli nazionalsocialisti è stato rilanciato, in mezzo a mille
difficoltà e riserve mentali, il processo per la creazione di un ordinamento positivo
internazionale per la tutela dei diritti umani e la punizione della loro violazione.
Ma, più importante di tutto, nella seconda parte del secolo nei paesi
in cui in forme e misure diverse opera la moderna democrazia di massa si è venuto
estendendo e anche in questo caso in forme e misure diverse il controllo
parlamentare sulla politica estera e di difesa. Inoltre, la diffusione del sistema delle
comunicazioni di massa ha enormemente accresciuto negli stessi Paesi la partecipazione
dellopinione pubblica alle vicende internazionali. Vero è che tanto il controllo
parlamentare quanto, ed ancor più, lopinione pubblica possono essere più o meno
agevolmente manipolati in tutte le democrazie di massa. Tuttavia, la necessità
dellacquisizione di un consenso razionale e non emotivo non può essere disattesa
oltre certi limiti, al di là dei quali la democrazia di massa cessa di essere tale per
trasformarsi in plebiscitarismo più o meno autoritario.
È sulla base di questi elementi che devessere valutato il
problema della guerra alle soglie del XXI secolo, in un mondo reso sempre più piccolo e
interdipendente dal graduale modificarsi del concetto di distanza, per effetto dei
progressi delle tecnologie dei trasporti e delle telecomunicazioni. Sotto questo profilo,
per quanto nobili e largamente condivisibili, appaiono oggi drammaticamente insufficienti
i pacifismi intransigenti ed assoluti, sia che si fondino sui valori della trascendenza,
sia che si richiamino alla solidarietà tra gli oppressi. La straordinaria nobiltà del
messaggio cristiano non è riuscita ad espungere la violenza dalla storia nel corso di
duemila anni né certo poteva farlo in poco più di un secolo la carica utopistica
dellinternazionalismo socialista.
Quello che appare ragionevole perseguire, invece, con la tenacia e la
pazienza richieste dalla lunga durata, è lobiettivo della progressiva
giuridicizzazione delle relazioni internazionali. Questa dovrebbe tendere alla creazione
di un ordinamento che, come quelli interni, impedisca di venire "ad arma" ai
soggetti che ne fanno parte, cioè gli Stati e che, quando il ricorso alla violenza sia
inevitabile, sia in grado di punire i colpevoli. Da questo punto di vista,
lelaborazione in forma di diritto positivo di alcuni principi fondamentali relativi
ai diritti fondamentali delluomo costituisce un punto di partenza assai importante,
anche se tuttora quei diritti vengono disinvoltamente calpestati e non certo soltanto nel
Kossovo, o nei Balcani in generale.
La carica di utopia presente in un disegno di questo genere è
certamente enorme, ma altrettanto certamente inferiore a quella dei pacifismi assoluti.
Daltro canto, lalternativa è soltanto quella di considerare immodificabile la
situazione e di riservarsi di dare il proprio giudizio sulla giustezza di ciascuna guerra,
sulla base del proprio sistema di valori o dei propri interessi. In altri termini, in nome
del realismo, ci si dovrebbe limitare a seguire i dettami di Clausewitz nella misura in
cui sono validi ancora oggi, e cercare soltanto di vincere la guerra.
Questa prospettiva è solo apparentemente più realistica dal momento
che i progressi tecnologici, rendendo possibile la globalizzazione della finanza e
delleconomia ed avendo innescato lesplosione demografica del sud del pianeta,
hanno posto le premesse per linevitabilità di uno scenario assai conturbante. Se si
continuerà, in nome del realismo, a non seguire i principi del multilateralismo, ad
ostacolare il rapido svolgimento del processo di giuridicizzazione dei rapporti
internazionali è agevole prevedere che nel XXI secolo le tragedie non saranno inferiori a
quelle del precedente, con una ristretta parte dellumanità certamente ricca, ma
altrettanto certamente assediata sul piano demografico, su quello politico e, in
prospettiva, anche su quello militare, dal gran mare del sottosviluppo.
Perché questo scenario non si realizzi occorre che i paesi più
avanzati, e segnatamente gli Stati Uniti, si comportino secondo il giusto mix di fermezza
e di apertura che caratterizzò la più ardita e innovatrice avventura politica e
intellettuale del XX secolo, quella che si riassume nel nome di Franklin D. Roosevelt.
Se, alla luce di questi criteri, si considera il conflitto attualmente
in corso si possono trarre alcune conseguenze forse non del tutto prive di una qualche
utilità pratica. Occorre però, prima, ricordare che la vicenda del Kossovo non può
essere compresa se non viene inquadrata nel più vasto processo di disgregazione della
ex-Jugoslavia.
Da questo punto di vista è indispensabile evitare di continuare a
considerare i processi in atto attraverso le lenti della contrapposizione globale: il
regime serbo non è certo "più comunista" di quello russo o "più
nazionalista" di quello croato. Semmai, i governi di questi paesi, come molti altri
dellex-Unione Sovietica e dellex-blocco comunista, sono il frutto di imponenti
operazioni trasformistiche, che hanno cambiato le varie nomenklature in ceti dirigenti
più o meno democraticamente legittimati. La Jugoslavia del maresciallo Tito era di certo
un paese governato tirannicamente, per quanto illuminato fosse il tiranno. Ma questo non
significa che la politica delle nazionalità condotta da Tito fosse completamente errata e
che il processo di disgregazione fosse valido di per sé, nellubriacatura generale
sulla "gloria delle nazioni", esaltata in nome dellanticomunismo da
Hélène Carrère dEncausse. Fra laltro, non è neppure possibile considerare
le vicende della ex Jugoslavia come estrinsecazione del wilsoniano principio
dellautodeterminazione dei popoli, dal momento che gli iniziali referendum
sullindipendenza delle varie repubbliche erano solo formalmente liberi in quanto non
era possibile far valere in essi le ragioni della permanenza dellUnione, in quanto
indissolubilmente legate con il comunismo. Quel legame, peraltro, non escludeva affatto
che tali ragioni fossero valide.
Il fatto che ormai Milosevic e il suo regime abbiano praticamente ben
poco a che fare con il comunismo, non significa che la Serbia non abbia responsabilità
prevalenti in tutto il processo di dissoluzione balcanico . E se, nella vicenda bosniaca,
tali responsabilità debbano essere divise con i croati e con i musulmani bosniaci, nel
caso del Kossovo esse sono esclusive, dal momento che anche la guerriglia albanese è
stata sostanzialmente alimentata dalla repressione serba.

È dunque comprensibile che, dopo le tragedie bosniache, in parte
attribuibili alle incertezze dei paesi dellUnione Europea e al ritardo con il quale
gli Stati Uniti hanno esercitato la loro funzione di supplenza, nel caso del Kossovo il
metodo di Milosevic di protrarre le trattative per proseguire nella repressione in Kossovo
abbiano indotto la Nato ad un intervento diretto e pienamente giustificato, se non si
vuole tornare allimpotenza della Società delle Nazioni, sempre incapace di
contrapporre la forza alle aggressioni, anche le più sfacciate. Vero è che la Nato ha
agito senza la copertura di quellembrione di ordinamento positivo delle relazioni
internazionali rappresentato dallOnu. Latteggiamento riservato tenuto da
questultima fino a questi giorni è purtuttavia assai significativo: consapevoli dei
limiti che alla sovranità nazionale deriverebbero dallammissione del principio
della legittimità dellintervento militare straniero per ragioni umanitarie, le
istanze delle Nazioni Unite hanno taciuto fino al momento in cui la tragedia del Kossovo
ha invaso gli schermi televisi del pianeta con una forza dirompente.
E, a quel punto, le Nazioni Unite si sono mosse nella giusta direzione,
che è quella di impedire ad ogni costo che la guerra tra la Nato e la Serbia divenga
assoluta e rimanga invece limitata, per quanto il dittatore serbo persegua tenacemente il
primo obiettivo. La limitazione della guerra non ha soltanto una valenza militare, a
proposito della quale occorre unattentissima valutazione (del resto già
raccomandata da Clausewitz) delladeguatezza dei mezzi impiegati ai fini perseguiti.
E, da questo punto di vista, vè solo da augurarsi che i responsabili della Nato non
abbiano scelto il metodo della escalation soltanto in base al riflesso condizionato che ha
sempre indotto i militari a combattere le nuove guerre con gli strumenti delle vecchie.
La guerra va limitata, soprattutto, dal punto di vista politico. Essa
deve mantenere lo scopo dichiarato fin dallinizio: quello di ripristinate condizioni
di vita accettabili per tutti gli abitanti del Kossovo e, soprattutto, di introdurre forze
adeguate a garantirle. Se questo sarà fatto chiaramente percepire, lasciando
impregiudicato il futuro definitivo assetto, si potrà forse ottenere che il consenso
emotivo goduto ora da Milosevic possa cominciare a decrescere, e, soprattutto, si eviterà
di sollecitare laspetto più pericoloso di questa crisi, cioè la ripresa, in forme
rinnovate, del panslavismo. E questo non tanto in Serbia quanto in Russia.
Ma la limitazione della guerra sul piano politico va intesa anche in un
altro, duplice senso . Il primo, di rilievo internazionale, è la possibilità di
sfruttare come una risorsa la varietà di posizioni che in unalleanza così vasta e
composita come la Nato si finisce inevitabilmente per registrare. Come è utile che vi
siano nellalleanza voci oltranziste, che operino in senso deterrente con la minaccia
della guerra assoluta (che, peraltro, resta ipotesi negativa), così è opportuno che vi
siano posizioni più inclini alla soluzione diplomatica e politica.
Il secondo risvolto ha carattere prevalentemente interno ai singoli
Stati dellAlleanza e consiste nel non porre in discussione le capacità belliche
delle democrazie, che, nelle condizioni date dallodierno conflitto, non hanno alcun
bisogno di ricorrere allunion sacrée di tutte le forze politiche e possono,
per il momento, tollerare tranquillamente un certo grado di dissenso.
Come si è accennato, il pacifismo assoluto va contrastato criticamente
e non demonizzato. E questo atteggiamento critico è il solo strumento, che alle soglie
del terzo millennio, lasci la speranza che, nella lunga durata, lo spazio
dellopzione militare e violenta nelle relazioni internazionali si riduca
gradualmente fino, se non a scomparire, a consentire una più ordinata convivenza tra i
popoli.
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