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Il lato oscuro di una guerra giusta

Ulrich Beck

 

Stiamo assistendo alla nascita della guerra postnazionale. Tutto ciò che rende gli attacchi Nato alla Jugoslavia così paradossalmente (il)legittimi può portare facilmente all’attestazione di un nuovo tipo di guerra nell’epoca globale. Una guerra postnazionale (e quindi non più comprensibile nei termini di Clausewitz) perché non più combattuta in nome dell’interesse nazionale - "il proseguimento della politica con altri mezzi"- è una guerra che non può più essere compresa a partire da vecchie rivalità tra stati nazionali più o meno nemici. Al contrario, a rendere postnazionale questa guerra in Kosovo è proprio da una parte il ritrarsi globale dell’ordine sovrano nazionale, l’indebolirsi, o meglio l’imbarbarirsi dello Stato che provoca deportazioni e genocidi a spese dei propri cittadini, dall’altra la fede nella morale civilizzatrice dei diritti umani. "La guerra è la pace" (Orwell). In realtà la guerra postnazionale nasce quando vengono meno le classiche differenze tra guerra e pace, interno e esterno, attacco e difesa, diritto e arbitrio, vittime e carnefici, civiltà e barbarie.

Il neorealismo politologico secondo cui a dominare sono sempre i calcoli e gli interessi nazionali fallisce perché non sa capire né decodificare il nuovo gioco di potere della globalizzazione. Chi crede che gli Stati Uniti facciano solo finta di fare i poliziotti del mondo per affermare nella polveriera dei Balcani degli interessi economici e geopolitici semplicemente americani, stravolge la realtà. E non solo: si impedisce di vedere quanto la politica dei diritti umani (al pari dell’affermazione del "libero mercato") sia diventata la religione civile, il vero e proprio credo degli Stati Uniti.

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Nel documento delle Nazioni Unite "Report of the Commission on Global Goernance" si dichiara che le organizzazioni sovranazionali non puntano solo a governare la globalizzazione economica ma anche ad affermare una nuova etica della democrazia globale e dei diritti umani. Si possono ritenerle delle parole che lasciano il tempo che trovano. Ma il segretario di stato americano Albright non ha dubbi sulla serietà dell’impegno: "Il sostegno ai diritti umani non è solo una nuova forma di solidarietà internazionale. È indispensabile alla nostra sicurezza e al nostro benessere, perché i governi che calpestano i diritti dei propri cittadini finiscono prima o poi per non rispettare nemmeno i diritti degli altri. In questo secolo ad aggredire gli altri Stati sono stati quasi sempre dei regimi che opprimevano i diritti politici dei propri cittadini. Gli stessi regimi che propagano insicurezza perché opprimono le minoranze, danno asilo ai terroristi, commerciano in droga o preparano in segreto armi di distruzione di massa".

Poiché si sa che la via dell’inferno è costellata di buone intenzioni è meglio domandarsi per tempo se non sia visibile già oggi il lato oscuro di questa miscela di etica e politica globale. Quali incubi sta provocando il sogno della convivenza pacifica mondiale? Lo scoppio della guerra nel Kosovo ha messo a fuoco un aspetto: sta nascendo una nuova politica postnazionale di umanesimo militare, di intervento di potenze transnazionali che si muovono per far rispettare i diritti umani oltre i limiti dei confini nazionali. La buona notizia è anche la cattiva: il potere egemonico decide cos’è il diritto e cosa i diritti umani. E la guerra diventa il proseguimento della morale con altri mezzi. Proprio per questo diventa difficilissimo porre dei paletti politici all’escalation della logica di guerra.

"La Germania è circondata da amici", disse alla fine del confronto militare in Europa l’allora ministro della difesa tedesco Volker Ruehe. Il sentimento dell’accerchiamento genera il paradosso della minaccia, dopo la cui caduta ci si ritrova al punto che ha sorpreso l’occidente. Non c’è dubbio: ormai prive di nemici e responsabili al tempo stesso dell’ordine interno e internazionale nell’ambito delle istituzioni nazionali e sovranazionali (come l’Europa, la Nato e le Nazioni Unite), le democrazie occidentali necessitano di nuove fonti vive di legittimazione. Fonti che contribuiscano a giustificarne l’azione e a autorappresentarne il successo nel tempo della globalizzazione.

Per esprimere la cosa con grande cautela: l’umanesimo militare che con l’intervento in nome dei diritti umani l’occidente ha scelto di portare alto sulle sue bandiere, riempie precisamente questo vuoto in quanto assicura una missione cosmopolita a istituzioni ormai prive di nemici.

Non è esagerato parlare di crociate democratiche, in cui l’occidente in futuro combatterà anche per poter rinnovare la propria autolegittimazione. Nel caso della guerra del Kosovo si può vedere con quanta efficacia i pochi pacifisti rimasti si vedano rivolgere contro i loro stessi argomenti. E questo accade proprio perché si è passati dall’epoca della guerra alla Clausewitz a quella della guerra postnazionale.

La differenza riguarda, prima di tutto, il tipo di attori in campo. Le guerre postnazionali nascono dal crollo o dall’erosione delle strutture statali e non, come pensava Clausewitz, dal conflitto di stati espansionistici. Questo crollo del potere statuale ha molte cause e molti sintomi: delusione su socialismo e capitalismo, dispotismo, corruzione, crollo economico, nascita di gruppi paramilitari; in Jugoslavia, ad esempio, la rabbia delle famigerate "tigri" al comando del serbo Arkan o dei cetnici al comando del nazionalista Seselj. Prima che l’esercito jugoslavo lo assoldasse per operazioni di pulizia etnica, Arkan era una nota figura del sottobosco belgradese, padrone di una catena di caffè in cui si commerciava anche in droga.

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Anche gli obiettivi della guerra contraddicono gli interessi nazionali. Le guerre postnazionali scoppiano per politiche identitarie rivolte all’interno: la conquista dell’apparato statale da parte di singoli gruppi che si differenziano dagli altri in base a "identità culturali" (etniche, razziste, religiose, linguistiche) e eliminano le controparti con mezzi statali e militari. Non si tratta quindi più di espansione o di interesse geostrategico, come pensava Clausewitz. Si tratta della continuazione dei conflitti etnici con altri mezzi, statali e militari. Al tempo stesso s’attenuano i confini tra Stato e criminalità organizzata, non da ultimo per la necessità di finanziare le rapine e le stragi dei gruppi paramilitari. Poiché il fine è spesso la destabilizzazione e la deportazione di gruppi interi di popolazione e non la sottomissione di un avversario chiaramente individuato, gli effetti collaterali delle guerre classiche diventano il vero obiettivo delle guerre postnazionali.

Con la sua politica orientata ai diritti umani l’occidente si trova quindi costretto, in un modo o nell’altro, a prendere decisioni imprendibili. Si parla di mancanza di alternative. Ma quali sono le alternative?

Alle guerre postnazionali si può rispondere considerandole come guerre alla Clausewitz, assumendo che le frazioni in guerra rappresentino se non degli Stati almeno dei quasi Stati, e proponendo quindi una soluzione negoziale "dall’alto". Esempi in questo senso sono gli accordi di Dayton (con cui si riconobbe la Bosnia) e di Oslo (che avrebbero dovuto portare alla pace tra israeliani e palestinesi). L’altra alternativa è considerare i genocidi all’interno degli Stati sovrani come una ricaduta nella barbarie premoderna su cui i richiami ai diritti umani rimbalzano come se venissero da un altro pianeta. Così si giustifica la politica del non-intervento - combinata con la costruzione di un vallo difensivo per proteggere l’Europa da questi Balcani irrimediabilmente sanguinari.

Entrambe le risposte sono prima di tutto irrealistiche. La confusione tra epoca nazionale e globale porta a tregue ingiuste e provvisorie e a successive recrudescenze belliche che minano la legittimità e la credibilità delle istituzioni internazionali. Nel secondo caso viene misconosciuto il carattere transnazionale delle nuove guerre. E invece stare a guardare non è più possibile, anche perché le ondate di profughi, la criminalità internazionale, la pressione dei gruppi della diaspora non lo permettono più. In futuro sarà paradossalmente proprio questo dilemma - chi guarda dall’altra parte non è meno colpevole di chi interviene - a rendere possibili, forse addirittura normali le guerre postnazionali.

La nuova politica occidentale di globalizzazione etica ed economica comporta che i diritti di sovranità nazionale e statale tipici della Modernità vengano svuotati e offerti alla presa della "responsabilità globale". Sia il richiamo ai diritti elementari che gli interventi che ne derivano, come quello in Kosovo, sono considerati altamente legittimi, ma spesso non ci si accorge che proprio per questo si prestano a degli splendidi intrecci con i cari, vecchi obiettivi della politica imperialista (scacco delle Nazioni Unite, rapporti dall’alto in basso ecc.). Sul fronte interno, inoltre, spesso si riescono a creare dal nulla ruoli e tribune grazie ai quali le "anatre zoppe" - politici e militari - tornano a godere della luce dell’azione e della legittimità: i temi della convivenza globale (anche questo è un paradosso) e del pacifismo procurano quindi all’occidente il nerbo ideologico necessario alla politica di intervento militare. Ma non solo: si potrebbe addirittura parlare del pacifismo militarista come di una pillola miracolosa con cui vengono sanati politici malaticci e in difficoltà. Per un socialdemocratico è forse addirittura più facile dare il proprio assenso ai bombardamenti Nato nella ex-Jugoslavia che rimboccarsi le maniche per riformare finalmente le pensioni -come tante volte annunciato- e abbattere la disoccupazione.

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Il pacifismo militare, la nuova miscela di generosità umanitaria e logica imperialista viene preparato, normalizzato e generalizzato con un processo che chiameremmo "circolo della globalizzazione": l’erosione del potere territoriale fa scoccare l’ora della responsabilità globale. La globalizzazione (comunque la si intenda) indebolisce la sovranità nazionale e le strutture statali. Negli anni novanta il crollo delle istituzioni statali ha portato a guerre e terribili tragedie umanitarie, da ultimo nella ex-Jugoslavia, ma prima già in Somalia, in Africa occidentale e in alcune zone della ex Unione sovietica. Qualcosa di simile potrebbe accadere ora con la crisi finanziaria in Asia orientale, ad esempio in Indonesia. Anche nei casi in cui l’indebolimento del potere centrale statale non sia da ascrivere direttamente all’influenza dei nuovi mercati globali, è chiaro però che così si accentua o sale in superficie un vuoto di legittimazione e di potere fino ad allora nascosto. Accade quindi che i compromessi tra i gruppi etnici perdano il loro carattere vincolante e i conflitti latenti esplodano in guerre civili. Poiché però tutto ciò accade davanti all’opinione pubblica mondiale si ripresenta costantemente il dilemma -intervenire o voltarsi dall’altra parte- e il pacifismo militarista dell’Occidente comincia a scricchiolare. In un sistema mondiale di Stati deboli come quello ora propagato dalle politiche neoliberali, nulla più si oppone ad una manipolazione imperialistica della missione cosmopolita. Ma questo -oggi- non lo vuole nessuno.

(Traduzione a cura di Raffaele Oriani)

 

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