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Alle radici dell'isteria serba

Federigo Argentieri

 

Nel momento in cui avrà queste pagine sotto gli occhi, il lettore o la lettrice di "Reset" saprà già molte più cose di chi scrive: ad esempio sulla piega presa dalla guerra della Nato contro la Jugoslavia, oppure sulle conseguenze del fallito referendum abrogativo della quota proporzionale, nonché sulle prospettive di tenuta del governo D’Alema; sarà quindi in grado di valutare appieno se lo sforzo qui compiuto per superare gli avvenimenti quotidiani e contingenti e cercare di cogliere la prospettiva di medio e lungo termine ha avuto successo.

Come già sottolineato da alcuni commentatori, in particolare Sergio Romano - sempre acuto e lungimirante - vi è un legame assai stretto fra i tre avvenimenti, ampiamente dimostrabile: anticipando le conclusioni, si deve dire che l’Italia sta giocando una partita determinante per il suo futuro, al termine della quale si potrà probabilmente vedere se avevano ragione il corrispondente dell’"Economist" e commentatori di valore alterno come Brzezinski e Luttwak, tutti concordi nel sottolineare l’eterna inaffidabilità del nostro paese, oppure coloro che, come il sottoscritto, ritengono giunto il tempo di una maturazione complessiva e di una crescita del suo profilo internazionale.

A dimostrare lo stretto intreccio tra la guerra contro la pulizia etnica nel Kosovo ed il referendum contro la quota proporzionale sta in primo luogo il fatto incontrovertibile che chi avversa l’una ha avversato anche l’altro: hanno fatto parziale eccezione solo i popolari, in maggioranza fedeli alla linea del governo sulla guerra ma comprensibilmente contrari al referendum, che avrebbe potuto rappresentare, dopo la fine della Dc nel 1994, un ulteriore passo verso la crisi della presenza cattolica in politica; per il resto, si può vedere come tutti i partiti e gruppi schierati sul fronte pacifista - dai neofascisti alla destra di An fino a Rifondazione, passando per la Lega di Bossi, la cosiddetta "sinistra Ds", i Verdi e il Pdci di Cossutta - si siano tutti vigorosamente impegnati nella campagna di boicottaggio di quello che è stato chiamato il "referendum truffa".

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Risalendo alle origini del primo problema, ovvero la Serbia di Milosevic, si può trovare un utile aiuto alla sua comprensione più profonda nella classica opera dello studioso ungherese István Bibó, insuperato analista politico e psicologico, intitolata Miseria dei piccoli paesi dell’Europa orientale (Il Mulino, 1994). Si presti attenzione, ad esempio, al passo seguente: "[...] il tratto più caratteristico dello squilibrio nella psicologia politica in Europa centrale e orientale [è] la paura esistenziale per la propria comunità. La vita di ognuna di esse si è svolta all’ombra di un potere statale straniero e senza radici [...] che - si chiamasse imperatore, zar o sultano - le privava della migliore gioventù perché offriva la carriera ai più dotati e la prigione e la forca ai più giusti. Le ostilità attorno ai confini storici ed etnici condussero presto i popoli anche ad accanirsi l’uno contro l’altro [...] Tutti sanno cosa significhi perdere i luoghi sacri della storia nazionale, saperli in pericolo o in mani straniere e nemiche [...]". Nel caso qualcuno stentasse a credere che il ricordo della battaglia di Kosovo Polje, combattuta seicentodieci anni fa, possa ancora potentemente influenzare la politica di oggi, basterà rinviare al famoso memorandum dell’Accademia serba delle Scienze (risalente al 1986 e pubblicato su "Limes" n. 1, 1993, recentemente ristampato) e soprattutto al discorso pronunciato da Milosevic dieci anni fa, il 28 giugno 1989, in occasione del sesto centenario della battaglia a Gazimestan (la località in cui si svolse): "Seicento anni dopo siamo ancora in guerra. Non è una guerra d’armi, anche se questo non può essere ancora escluso". Fu allora che la Jugoslavia cominciò a volare in pezzi, poiché Milosevic contestualmente aveva modificato la costituzione titoista del 1974 annullando l’autonomia della regione kosovara, il che - assieme al crollo dei regimi comunisti di poco successivo - avrebbe accelerato le tendenze centrifughe delle repubbliche più sviluppate come Slovenia e Croazia, che nel giro di due anni avrebbero dichiarato l’indipendenza.

Alla base dell’"isteria serba", come la chiamerebbe Bibó, sta la profonda convinzione di essere delle vittime della storia: oppressi per secoli dagli ottomani, sempre incompresi dagli occidentali, sfruttati e disprezzati, nella prima (1918-41) e seconda (1945-91) Jugoslavia dai "ricchi" sloveni e croati, infine perseguitati e discriminati, in Kosovo e in Bosnia, dagli odiatissimi musulmani, considerati i discendenti di coloro che servirono l’oppressore turco: ce n’è abbastanza per comprendere la situazione attuale, a maggior ragione in quanto alcuni dei fatti sopra elencati hanno certamente più di un fondamento.

È chiaro, però, che il serbo non è certo l’unico popolo europeo o balcanico ad aver subìto molti torti: in compenso, è tra quelli che hanno ed avranno maggiori difficoltà ad acquisire un rapporto equilibrato con la propria storia. In questo, fatte le debite proporzioni, la somiglianza con i tedeschi del dopo Versailles è piuttosto pertinente: nonostante le pretese della propaganda jugoslava di paragonare la Nato della primavera 1999 alla Wehrmacht della primavera 1941, è la Serbia stessa che oggi somiglia alla Germania nazista, con i suoi piani di "unità di tutti i serbi" e le manie di purificazione etnica, mentre il destino dei kosovari musulmani - almeno nelle intenzioni serbe - non dovrebbe essere dissimile da quello degli ebrei. Per essere più credibile nel ruolo della vittima, Milosevic dovrebbe ordinare indagini rigorose sulla morte del suo oppositore Slavko Curuvija, assassinato a colpi di mitra il giorno della Pasqua ortodossa: non lo farà, perché il mandante è lui e gli esecutori sono uomini suoi; per essere più credibili nel ruolo delle vittime, i belgradesi che si appendono i bersagli al collo dovrebbero spiegare dove erano, cosa hanno fatto, quali proteste hanno elevato quando il target erano le gole dei musulmani di Srebrenica (luglio 1995), tagliate a migliaia in pochi giorni dai patriottici coltelli serbi di Karadzic e Mladic. Anche Hitler aveva qualche ragione quando rivendicava l’unità con l’Austria e i territori dei Sudeti, così come i tedeschi avevano ragione nel considerare il trattato di pace del 1919 come un’odiosa ingiustizia: si sa come andò a finire e la lezione di allora sembra fortunatamente essere stata appresa.

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Tutto porta a credere che la comunità internazionale sia pienamente consapevole che l’inevitabile ricorso alle armi non porterà a nulla se non sarà accompagnato da uno sforzo politico-diplomatico ancora più impegnativo, e che ogni pericolo di isolamento - o peggio, di umiliazione- della Russia deve essere scongiurato, pena la catastrofe: inoltre, i problemi di ricostruzione (ma forse bisognerebbe dire semplicemente "costruzione") di tutta la regione balcanica saranno tali, prevedibilmente, da impegnare per almeno un paio di decenni le principali cancellerie, le organizzazioni umanitarie e quei contingenti armati che saranno incaricati di mantenere l’ordine.

Volgendo ora l’attenzione alla situazione italiana, si può osservare come, al momento di scrivere (19 aprile) il governo D’Alema, sempre più consapevole di giocare una partita decisiva - che non è esagerato chiamare storica - per il futuro del paese, tenta di mantenersi fedele alla linea della solidarietà atlantica, sacrosanta per chiunque abbia un minimo di buonsenso ma sottoposta a rischi gravissimi da parte di forze politiche tanto scarsamente rappresentative, quanto petulanti e sostanzialmente poco responsabili. Cosa pensare, ad esempio, del portavoce dei Verdi? Come giustamente sottolineato qualche mese fa sul "Corriere della Sera" da Giovanni Sartori, questo partito - dove pure sono presenti rispettabili esponenti storici dell’ambientalismo - di tutto si occupa, su tutto esprime giudizi (quasi sempre a vanvera) tranne che sui problemi che gli competono: inoltre, nei suoi avventati giudizi di politica estera, che ricevono sempre - e non a caso - spazio esagerato nei mezzi d’informazione, fin dai tempi dei bombardamenti sull’Iraq esprime un antiamericanismo e un antioccidentalismo rabbiosi e del tutto fuori luogo, che fanno a pugni con le posizioni assai più responsabili dei suoi omologhi francesi e tedeschi, schierati con la Nato oltre che dotati di una forza elettorale assai superiore. È forse un caso che costui sia anche uno di coloro che abbiano avversano il referendum sulla proporzionale e che auspichi il protrarsi in eterno dell’instabilità e del potere di ricatto dei frammenti di partito come il suo?

Un po’ diversa è la situazione dei comunisti "buoni" (così li chiama D’Alema) di Cossutta, assai più sobri nelle loro manifestazioni ma talvolta pericolosi (come nel caso della visita a Milosevic), nei quali i terribili sconquassi ideologici derivanti dal dover appoggiare una guerra della Nato sono compensati dal timore di sparire dal panorama politico in caso di crisi, o peggio ancora di elezioni. E cosa dire della "sinistra Ds", discendente dei cosiddetti comunisti democratici? È difficile capire che cosa li caratterizza oltre al fatto di essere in costante ritardo di due o tre anni sugli eventi.

Non è dunque invidiabile la situazione del presidente del Consiglio, il quale sembra un autista di "rally" costretto a procedere a gran velocità su una strada piena di curve, essendo sprovvisto sia di carte che di un navigatore all’altezza della situazione: ciononostante, non si può negare che passi in avanti significativi siano stati compiuti rispetto al governo Prodi, che era costretto ad umilianti patteggiamenti con l’opposizione anche per operazioni assolutamente pacifiche come "Alba", vista la forsennata intransigenza ideologica di Rifondazione, all’epoca unita. Ma resta il fatto che questo governo deve far fronte a due gravi lacune che pesano come macigni sulla cultura politica italiana: la crisi d’identità storica del maggior partito della sinistra e l’assai più grave assenza di una compiuta identità nazionale italiana, che si traduce tra l’altro nella mancanza di una cultura della difesa e nell’assenza di un ruolo delle Forze Armate adeguato alle esigenze di una moderna democrazia industriale.

In relazione a quest’ultimo punto, e senza voler affrontare un’analisi storica approfondita, bisogna riconoscere che le vicende del passato hanno portato ad un grave squilibrio, che rende l’Italia incapace di fronteggiare adeguatamente le sfide alla sua sicurezza ed ai suoi interessi nazionali, proprio perché da quando si è conclusa la guerra fredda non è esistita una compiuta elaborazione su questi temi. La responsabilità primaria di ciò è sicuramente da attribuire al regime fascista, il quale condusse alla rovina i concetti di patria, di sicurezza e di interesse nazionale facendoli coincidere con dissennate e fallimentari politiche di conquista e di aggressione verso altri popoli. Ma vi è da chiedersi se anche i costituenti della Repubblica, comprensibilmente desiderosi di cancellare quelle esecrabili eredità, non abbiano involontariamente contribuito ad aggravare il problema approvando la seconda frase dell’articolo 11 della Costituzione, secondo cui "L’Italia ripudia la guerra [...] come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali". La domanda è legittima se si osservano i penosi contorcimenti cui è costretto il governo per consentire da un lato alle Forze Armate di prendere parte a pieno titolo alle azioni militari, evitando così l’umiliazione di una partecipazione monca alla guerra, dall’altro per fare fronte ai vari Cossutta, Manconi e Tortorella che invocando appunto l’articolo 11 protestano ogni momento contro il normale espletamento dei normali obblighi derivanti dall’appartenenza alla Nato.

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Nel caso in cui qualcuno volesse muovere a queste affermazioni l’accusa di essere guerrafondaie, si consiglia di prendere in considerazione paesi come la Danimarca, l’Olanda o il Lussemburgo, pacifici e democratici quant’altri mai eppure in grado di ottemperare senza problemi agli impegni militari dell’Alleanza, senza i sussulti e le complicazioni di politica interna che caratterizzano l’Italia.

Studiosi di valore, a cominciare da Renzo De Felice, Elena Aga Rossi, Ernesto Galli della Loggia, Emilio Gentile e vari altri si sono ripetutamente cimentati negli ultimi anni con il concetto di "morte della patria" e di assenza, nell’Italia repubblicana, di un compiuto sentimento nazionale: sarebbe troppo lungo entrare nel merito delle loro argomentazioni, ma è un fatto che il terreno su cui questo grave handicap si palesa nel modo più clamoroso è proprio la mancata elaborazione del concetto di interesse nazionale, di una compiuta dottrina di sicurezza, di un ordine di priorità strategiche, economiche, commerciali e politiche, cosa che rende l’Italia un caso assolutamente unico nel panorama internazionale. Chi dovrebbe essere adibito ad un tale compito? Evidentemente, in primo luogo i centri studi che si occupano di politica internazionale: ma tali istituti – perlomeno quelli con sede a Roma – pur finanziati pubblicamente sono governati da burocrazie inamovibili e mai seriamente sottoposte a giudizi di merito, totalmente assenti dall’ampio dibattito che si sta svolgendo sulla guerra ed i problemi ad essa connessi e considerati, a livello internazionale, incapaci di fornire contributi utili a una migliore comprensione degli avvenimenti, ivi compreso il ruolo che potrebbe svolgere l’Italia.

Per quanto riguarda la crisi d’identità dei Ds, che sono pur sempre uno dei due maggiori partiti del paese, essa non riguarda la contingenza politica, dove ormai ogni decisione viene presa nell’ambito dell’Internazionale socialista, ma l’identità di un partito che è sorto dal ripudio di una parte del proprio passato. Rispetto a Jospin, Blair e financo Schroeder, D’Alema ha l’handicap di non potersi appoggiare a una tradizione, poiché questa non è più considerata valida: la "questione morale" e la "democrazia come valore universale" di Berlinguer, pur importanti, non sono sufficienti a creare una storia da rivendicare con fierezza. Probabilmente è una questione di tempo: D’Alema, contrariamente a altri dirigenti del suo partito, non ha fortunatamente mai negato le sue origini comuniste, il che è una premessa indispensabile per riuscire a superarle effettivamente; bisogna dire che quasi tutti gli intellettuali di partito, o gravitanti intorno a esso, dopo aver teorizzato egemonie e transizioni al socialismo oggi sembrano piuttosto ripiegati su loro stessi e preoccupati più che altro di mantenere le posizioni acquisite, in campo accademico e altrove. Dunque non forniscono grandi aiuti in questo senso.

Tornando al conflitto tra la Nato e la Jugoslavia, non è dato sapere quanto possa durare, anche se al momento di scrivere sono cominciate a circolare voci che parlano di bombardamenti destinati a durare fino a luglio e oltre: è chiaro che i dirigenti atlantici preferirebbero non ricorrere al cosiddetto intervento di terra, poiché questo - oltre a provocare quasi certamente un numero insostenibile di vittime - fomenterebbe anche un vero e proprio fanatismo nei serbi, i quali probabilmente vedrebbero tale intervento come la conferma definitiva del complotto mondiale ai loro danni e si preparerebbero a combattere senza esitazioni e con vigore fino all’ultimo uomo.

L’auspicio che l’Italia sappia fare la sua parte fino in fondo è stato senza dubbio duramente colpito dal mancato raggiungimento del quorum nel referendum del 18 aprile: le riforme istituzionali serie si allontanano indefinitamente, così come la stabilità di cui il paese ha bisogno. Si allontana anche, di conseguenza, l’elaborazione di una dottrina di sicurezza ed una definizione adeguata degli interessi e delle priorità nazionali, tali da rendere finalmente il nostro - come direbbe D’Alema - un "paese normale": cioè da permettergli, nel quadro delle alleanze esistenti, di essere in grado di fare fronte ad ogni circostanza senza dover ogni volta lacerarsi su questioni di principio o sudare freddo nella speranza di raggiungere la maggioranza necessaria a non perdere completamente la faccia. Non bisogna però farsi illusioni, e sarebbe utile che non se ne facessero i "vincitori" del referendum: l’epoca dell’euro accelera tutti i processi ed il rapporto economia-politica; tra la crescita del paese nel senso di cui sopra e la sua progressiva decadenza a breve-medio termine, tertium non datur.

 

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