Una nuova
puntata dell’analisi di Daniele Castellani Perelli,
su come i tre maggiori quotidiani italiani hanno parlato
di Silvio Berlusconi negli ultimi dieci anni, un confronto
delle prime pagine attraverso undici episodi emblematici
della recente vita politica italiana.
Dal libro Giornali e tv negli anni di Berlusconi (a
cura di G. Bosetti e M. Buonocore, con interventi di
Luca Cordero di Montezemolo, Dario Di Vico, Ezio Mauro,
Daniele Castellani Perelli, Marsilio – i libri
di Reset, 2005).
Le puntate precedenti:
Leggi la prima parte
Leggi la seconda parte
Leggi la terza parte
Leggi la quarta parte
Leggi la quinta parte
3 luglio 2003
Inizia, male, il semestre a Strasburgo
(Schulz e i Kapò: Silvio, what the fuck have
you done?)
Nonostante i molti valori in comune, una differenza
tra Corriere e Repubblica non ha mai smesso di essere
in questi dieci anni: il tono della critica verso Silvio
Berlusconi, che sul quotidiano romano è sempre
stata tanto ostile e scandalizzata quanto a via Solferino
è sempre stata (abbastanza) ferma ma sobria.
Quando il premier, nel luglio 2003, inaugurando il semestre
italiano a Strasburgo si rivolge al deputato tedesco
Martin Schulz dicendogli che al cinema sarebbe adatto
al ruolo del kapò, la Repubblica dedica alla
vicenda quasi tutta la prima pagina, con un titolo d’apertura
quasi apocalittico, «Europa, bufera su Berlusconi».
Tutta la pagina è studiata in uno scandalizzato
attacco alla figuraccia del premier: c’è
la foto in cui si mostra un «Fini imbarazzato»,
e ci sono tre commenti, di cui uno del direttore. Nell’occhiello
dell’apertura vengono ricordate tutte le frasi
incriminate, compresa quella ai deputati verdi, definiti
«turisti della democrazia». La frase rivolta
a Schulz viene citata con una semplificazione giornalistica
maliziosa, che intende aggravare la posizione del premier
(«Sei un kapò nazista”, ma in realtà
Berlusconi ha detto «So che in Italia stanno girando
un film sui lager nazisti. La proporrò per il
ruolo di Kapò»). Nel catenaccio si usano
termini che accrescono l’intensità («insorge
il Parlamento», «il premier insulta»)
e quella con la Germania viene definita una «grave
crisi diplomatica». Ezio Mauro, come detto, per
l’occasione decide di scendere in campo, con un
editoriale di lunghezza scalfariana dall’emblematico
titolo «Il fattore B che ci allontana dall’Europa».
L’affondo, durissimo, descrive la «deriva
ogni giorno più tragica e inarrestabile»
di un premier «trascinato da quel dilettantismo
che tanto piace in Italia». Mauro come sempre
sa inquadrare le cosiddette gaffe di Berlusconi in un
contesto più ampio, riuscendo così a comunicare
quanto non siano delle distrazioni, ma piuttosto delle
logiche conseguenze di «una cultura che è
fuori dall’Europa»: «L’incidente
non nasce dal caso, ma è figlio di una cultura,
che determina una politica». Certo poi, preso
dall’indignazione, anche Mauro cade in un errore
classico di Repubblica, quello di dare Berlusconi per
spacciato, come quando scrive che questo è «l’inizio
ufficiale del declino del Cavaliere» o che «da
ieri l’uscita di An dal governo è qualcosa
di più di una minaccia»: tutte previsioni
rivelatesi sbagliate. Anche gli altri due commenti sono
taglienti, con Bernardo Valli («L’ignoranza
della storia») che descrive un Berlusconi che
«considera le tragedie della storia una barzelletta»,
e Andrea Bonanni che inizia citando le parole del presidente
dell’Europarlamento Pat Cox, «Silvio, what
the fuck have you done?».
Su La Stampa, invece, la notizia viene trattata in modo
molto diverso. Anzitutto lo spazio è inferiore
rispetto a Repubblica, e tutta la prima pagina intende
ridimensionare l’accaduto. Il titolo («Semestre
Ue, crisi tra Italia e Germania») limita lo scontro
ai due paesi, quando invece la polemica è di
interesse europeo, come dimostra l’attenzione
di tutti i quotidiani continentali e come dovrebbe suggerire
il fatto che Berlusconi ha parlato come presidente di
turno dell’Ue e che nei giorni precedenti gran
parte dell’Europa mediatica e politica aveva espresso
dubbi sulla capacità del premier italiano di
ricoprire quel ruolo. Diversamente da Repubblica, le
accuse ai verdi non vengono riportate nell’apertura,
non c’è nessuna foto che ritragga l’imbarazzante
episodio (scelta paragonabile a quella del Tg1 berlusconiano,
che con una decisione molto contestata non manda in
onda l’audio del premier). La vignetta di Forattini
è come al solito fuori luogo e non va al centro
delle cose: per la solita noiosissima polemica personale,
Forattini deride D’Alema, che lo ha querelato
per una sua vecchia vignetta. L’editoriale di
Pier Luigi Battista, coerentemente con la linea del
giornale, ridimensiona il tutto, e sotto il titolo «Una
battuta di troppo», scrive che «l’esito
di quella battuta appare politicamente negativa»,
e nel finale si mostra fiducioso, registrando che «Berlusconi
può ancora rimediare all’ennesima gaffe.
Rimediare con l’autorità politica, chiudendo
definitivamente nel cassetto il repertorio delle battute
improvvide». Insomma, mentre tutti i giornali
europei si mostrano scandalizzati, mentre Ezio Mauro
spiega l’episodio alla luce della cultura del
governo, La Stampa dice che è solo una battuta.
Anche per il Corriere «l’esordio di Berlusconi
provoca una tempesta», come è detto nel
titolo dell’apertura del 3 luglio. Il Corriere
non ridimensiona affatto l’accaduto, e tuttavia
è aperto anche a considerazioni diverse da quelle
de la Repubblica. Nell’occhiello viene sottolineato
che Berlusconi «replica a un attacco su giustizia
e Bossi», nel sommario si precisa che la frase
non è «lei è un kapò»
(come semplifica maliziosamente la Repubblica), ma vien
fatto dire al premier, senza virgolette, un più
veritiero «Lei è il perfetto kapò
in un film sui lager». Infine accanto alla vignetta
si lancia anche un articolo sul discorso tenuto da Berlusconi,
per fare in modo che la frase incriminata non faccia
dimenticare che nella giornata c’è stato
anche altro. Sono tre precisazioni che non intendono
ridimensionare lo scontro, ma che garantiscono un’informazione
più bilanciata: Repubblica, presa dalla polemica
e dall’indignazione, le tralascia. D’altronde
nel sommario il Corriere non nasconde «l’“avvilimento”
del Quirinale», un giudizio che nell’Italia
del 2003 (e nel Corriere del 2003) vale più di
un editoriale: invece La Stampa, filogovernativa, non
cita il disappunto di Ciampi. Nell’editoriale,
Ernesto Galli della Loggia parla di «un pessimo
inizio» di semestre, e non risparmia le critiche
a un premier che «non è riuscito a tenere
i nervi saldi e la lingua a posto». Il commentatore,
che spesse volte è stato critico con Berlusconi,
stavolta denuncia che «il semestre non poteva
cominciare peggio» e accusa il Tg1 di aver mandato
in onda un’edizione «omissiva e manipolatoria
fino al grottesco». Galli della Loggia descrive
«il carattere dilettantesco di Berlusconi in quanto
uomo politico»: «Già è politicamente
gravissimo non aver ancora mosso un dito per risolvere
il conflitto d’interessi: farci sopra lo spiritoso
e l’insolente è un puro e semplice suicidio».
Non solo. L’editorialista attacca con veemenza,
spazientito, le sparate di Bossi, «a metà
tra capitan Fracassa e Goebbels», e a proposito
della Lega Nord spiega quanto nuoccia all’immagine
europea del nostro Paese «l’inarrestabile
profluvio di dichiarazioni del suo capo, regolarmente
improntate alla violenza, alla xenofobia, al più
totale disprezzo verso ogni cosa, idea o persona che
non gli vadano a genio».
Nel luglio 2003 Corriere e Repubblica, con il caso Schulz,
dimostrano di trovarsi ancora dalla stessa parte nella
difesa di quei valori tradizionali che le avventure
berlusconiane tentano di sovvertire: europeismo, pluralismo
dei media, rispetto delle istituzioni e contegno istituzionale.
Tutti valori che fanno parte da sessant’anni della
nostra storia politica e che sono la costituzione materiale
del nostro Paese. Tutti valori che La Stampa ha smesso
di difendere con costanza, ma che, come dimostrano anche
le polemiche su Mussolini e sui «giudici pazzi»
originate da alcune clamorose dichiarazioni del premier,
hanno ancora un grande difensore ai vertici dello Stato.
Carlo Azeglio Ciampi.
5 settembre 2003
I giudici pazzi
(I giganti e i nani)
In questa fase il premier Berlusconi inanella una serie
clamorosa di «figuracce» istituzionali,
tutte rivelatrici, come direbbe Ezio Mauro, della sua
cultura politica. Corriere della Sera e Repubblica confermano
di conseguenza quella sintonia di giudizio che in certi
istanti era sembrata mancare, dopo il disorientante
risultato elettorale del 2001. Il 4 settembre viene
pubblicata un’intervista del premier a un giornalista
inglese, Nicholas Farrell, editorialista della Voce
di Rimini, in cui Berlusconi, oltre ad affermare che
«Mussolini non ha mai ammazzato nessuno»,
parlando dei giudici sostiene che per fare quel mestiere
«devi avere turbe psichiche, devi essere antropologicamente
diverso dal resto della razza umana». Su Biagi
e Montanelli aggiunge: «Invidiosi di me».
Carlo Azeglio Ciampi è costretto a intervenire:
«Gli italiani guardano alla magistratura con piena
fiducia». La misura è colma.
Il giorno dopo la Repubblica titola «Ciampi sconfessa
Berlusconi» e nel sommario opera la semplificazione
che abbiamo già notato nel caso Schulz, facendo
dire al premier «i giudici sono matti» (una
semplificazione ad effetto, ma che stavolta è
veniale). È l’unico giornale a pubblicare
una foto di accompagnamento della notizia, una vecchia
immagine in cui Ciampi sta accanto al premier con uno
sguardo che sembra di rimprovero (è un altro
vezzo tipico del quotidiano romano, l’uso malizioso
delle foto). Anche in questo caso scende direttamente
in campo il direttore Ezio Mauro, che in «Maggioranza
libellista» va giù duro, come al solito
attraverso un argomentare spietato da filosofia della
politica: «Ieri Silvio Berlusconi ha confermato
che la sua anomalia rispetto ad una moderna democrazia,
basata sul rispetto delle regole e sulla divisione dei
poteri, è insopprimibile». L’ennesimo
scontro con il Quirinale è definito «una
divaricazione clamorosa e drammatica per la nostra Repubblica».
Il giornale di Mauro, diversamente dal Corriere, riporta
in prima pagina anche l’attacco del premier a
«opposizione e stampa», fiero del fatto
di essere stato nuovamente citato dal premier, come
ricorda il direttore («Repubblica, ossessione
sua e dei suoi dipendenti»): «Nessun contropotere
è previsto, nessun bilanciamento è contemplato
– sintetizza, sempre riconducendo le frasi “spontanee”
del premier a quella sua cultura altra – nessuna
idea diversa dell’Italia è ammessa nella
sgangherata e spaventata cultura del potere berlusconiana».
Sempre sensibile ai valori veri e concreti della democrazia
occidentale, Mauro segnala come si sia di fronte a «un
ribellismo della maggioranza inedito in Occidente»,
dove «i più hanno sempre ragione non perché
hanno ragione, ma perché hanno la forza»:
«Soprattutto, è una riduzione della funzione
politica al puro leaderismo populistico, estraneo e
dunque ostile alla cultura istituzionale del nostro
Paese e di ogni democrazia liberale».
Il Corriere della Sera stavolta non è affatto
da meno, anzi. Il titolo di apertura («Berlusconi
attacca i giudizi, Ciampi li difende») contiene
la stessa sostanza di quello di Repubblica. In più
c’è in catenaccio l’autodifesa di
Berlusconi («solo un paradosso»), e lo spazio
che Repubblica dedica all’attacco del premier
a stampa e opposizione viene riempito con le frasi su
Biagi e Montanelli, due storiche firme del Corriere
stesso. La vignetta di Giannelli mostra un Berlusconi
che, travestitosi da pazzo che si crede Napoleone, dà
del «disturbato mentale» ai magistrati.
L’editoriale di Francesco Merlo (che tra poco
passerà a Repubblica) è di un’indignazione
eccezionale. In «Oltre ogni limite» (un
titolo più arrabbiato di quello dell’editoriale
di Mauro) Merlo fa il ritratto di un Berlusconi che,
«almeno due volte la settimana», «si
caricaturizza da solo con involontarie autodenigrazioni».
In questo giorno, spiega l’editorialista del Corriere,
«la cosa che più ci manca è la risposta
di Montanelli»: «Solo lui avrebbe capito,
allarmato, da quale pozzo di disperazione affiori l’idea
infantile che un re invidi un valletto, un gigante un
nano». Berlusconi, per Merlo, è «un
improvvisatore del quale non si possono invidiare né
la cultura né l’intelligenza né
l’eleganza ma solo il danaro, problematicamente
accumulato».
Come già era accaduto per il caso Schulz, La Stampa è invece riduttiva e fuorviante. Il titolo,
infatti, fa pensare a una delle tante polemiche tra
il premier e la magistratura («Berlusconi-giudici,
è di nuovo scontro»), non individuando
l’eccezionalità del fatto, un attacco gratuito,
gravissimo e volgare da parte del premier (riportato
con scandalo, anche in questa occasione, da tutta La Stampa europea). Inoltre l’apertura viene fortemente
indebolita dalla presenza di una sottotestata dedicata
a un’intervista a Prodi (non sull’argomento),
e da una grande foto di Chirac e Schroeder a un vertice
sull’Iraq. Schiacciato tra la sottotestata e la
foto, la notizia risulta fortemente arginata. L’editoriale
di Aldo Rizzo («Il peso delle chiacchiere»)
dice cose ovvie, si augura che le «dichiarazioni
sconcertanti» di Berlusconi non compromettano,
genericamente, «le “chances” dell’Italia»,
e risulta decisamente fiacco rispetto al volo alto di
Mauro e alla bravura linguistica di un indignato Merlo:
anche in questo La Stampa si conferma ormai giornale
di seconda fascia.
3 dicembre 2003
La Gasparri, riforma illiberale
(La legge dell’Uomo della Tv)
Con la legge Gasparri il cerchio si chiude. Quello che
nel 1993 avevamo chiamato «l’Uomo della
tv» ottiene finalmente la riforma che, oltre a
sancire il suo strapotere mediatico illiberale, decreta
la superiorità economico-finanziaria, e quindi
strategica, della tv rispetto ai giornali. Davanti a
una legge così indifendibile, così chiaramente
illiberale (perché, invece di incoraggiare un
sostanziale e immediato pluralismo mediatico, cementa
il bipolarismo televisivo e toglie risorse ai giornali),
i tre quotidiani che abbiamo preso in considerazione
in questa ricerca si comportano come previsto. Tutti
e tre attaccano la legge del premier, ma in modi diversi.
La Stampa con una certa timidezza, la Repubblica con
un’indignazione senza ambiguità, il Corriere
bilanciando spazi ridotti a parole schiette e inequivocabili.
Nel titolo di apertura la Repubblica attacca subito:
«Tv, la legge di Berlusconi». La vignetta
di Altan usa la parola «fascismo» («Il
fascismo, se non lo butti nel cassonetto, c’è
subito uno che lo raccatta»), in Ring composition
con l’accusa che Repubblica, come abbiamo visto,
aveva usato nel 1993, ai tempi del «proclama dell’ipermercato».
Mentre l’occhiello e il catenaccio del Corriere
sono minimi e cronachistici, quelli de la Repubblica
sono, come al solito, più «intensi»:
nell’occhiello vengono esplicitate quelle che
il Corriere chiama genericamente le «dure critiche
dell’opposizione» («L’Ulivo:
limitata la libertà d’espressione, manifesta
incostituzionalità»), e vengono anche riportate,
provocatoriamente (cioè con l’intenzione
di far indignare ancora di più il lettore), le
reazioni di due «nemici» del mondo de la
Repubblica («Confalonieri esulta: battaglia vinta.
Fede ringrazia»). In prima pagina c’è
un commento di Giovanni Valentini («Mediaset senza
limiti»), in cui non si usano giri di parole.
Valentini, con espressioni che non verrebbero pubblicate
da Corriere e Stampa, parla di «legge-vergogna»,
di «un duro attacco alla libertà d’informazione».
Di più, il momento è così drammatico
che torna la teoria del regime: «Se è vero
che la libertà d’informazione è
un caposaldo di qualsiasi democrazia, allora bisogna
dire senza mezzi termini che questo è un attacco
alla vita democratica del nostro Paese. Una legge di
regime – attacca Valentini – un regime fondato
sul controllo della televisione, sul suo potere di persuasione
occulta, sulla concentrazione pubblicitaria che sostiene
e finanzia il partito-azienda del presidente del Consiglio».
Anche in questo caso il direttore scende direttamente
in campo. Nell’editoriale «Il contratto
con se stesso», Ezio Mauro ribadisce che provvedimenti
del genere sono anomali rispetto al quadro occidentale,
e conclude indignato: «La qualità della
nostra democrazia da ieri è pericolosamente impoverita».
Il Corriere, nell’apertura, definisce la Gasparri
«la legge tv», e non «la legge di
Berlusconi», ma il commento di Salvatore Bragantini
ha un titolo secco e durissimo («Squilibrata e
illiberale»), tale da risultare più sdegnato
di quelli di Repubblica, che sono invece di un antiberlusconismo
di maniera. Come nel caso dell’approvazione della
legge Cirami, il Corriere preferisce affidarsi ad un
commento tecnico, tanto più spietato quanto più
apparentemente freddo: «È difficile non
rendersi conto che la nuova legge non risponde ai requisiti
delle direttive comunitarie», scrive Brigantini.
«Il solo “criterio” previsto da questa
legge è, invece, lo stato di fatto. Viene così
cristallizzato quel “duopolio collusivo”
fra Rai e Mediaset». Bragantini smonta tutte le
argomentazioni dei difensori della Gasparri: «Si
dice che il digitale riequilibrerà la situazione,
con la sua teorica abbondanza di spazi; non è
vero in quanto, a parte il fatto che la sua introduzione
richiederà dai 6 ai 10 anni, solo le risorse
pubblicitarie consentono di investire nei contenuti,
che portano l’audience, che porta la pubblicità,
e così via. Il cerchio non si spezza».
«Il mantenimento dello status quo, a sua volta,
consente di perpetuare l’attuale squilibrio nella
raccolta pubblicitaria, unica fonte di ricavo dei network
e risorsa vitale anche per la carta stampata; continuerà
così una situazione nella quale le tv raccolgono
in Italia quasi il 60% della pubblicità, contro
un terzo del totale nel resto del mondo sviluppato»,
continua Brigantini. «Di più, due network,
da soli, raccolgono il 95% della torta pubblicitaria
televisiva (oltre il 50% del mercato totale), mentre
i primi due editori di quotidiani si fermano ad un quinto
della raccolta totale». «Dall’assenza
di concorrenza nel settore pubblicitario sono danneggiati
sia i consumatori, sia i produttori; entrambi pagano
di più il prodotto che acquistano. Parafrasando
Talleyrand – conclude il commentatore del Corriere
– potremmo dire che approvare la Gasparri è
stato peggio che un crimine: è stato un (grave)
errore». Il Corriere dà nel complesso meno
spazio alla notizia (non c’è un editoriale,
l’apertura è decisamente più stretta),
ma ribadisce la sua dura polemica con questa legge:
una vera e propria campagna, che aveva visto intervenire
Sabino Cassese, Giovanni Sartori e Dario Di Vico. Di
Vico aveva criticato punto per punto la legge, in maniera
così efficace e minuziosa da provocare una stizzita
lettera di protesta del ministro Gasparri. Il professor
Sartori, il 16 luglio 2003, segnalava come la legge
sistemi «gli interessi di Sua Emittenza»
e come con essa andrà «di male in peggio
per la libertà di sapere e di dire».
La Stampa, nel titolo, chiama la legge con un’espressione
che, rispetto a quelle di Repubblica e Corriere, le
dà ancora maggiore dignità politica («Approvata
dal Senato la riforma tv») e soprattutto riporta
in bella evidenza, nel catenaccio, la grossa bugia legittimante
dell’autore della legge («Gasparri: aumenta
il pluralismo»). Le accuse dell’opposizione
sono genericamente sintetizzate in un «L’Ulivo:
la battaglia continua»: chi legge la prima pagina
de La Stampa non ha né le gravi accuse dell’Ulivo
citate da la Repubblica, né il titolo sprezzante
del commento del Corriere, e potrebbe anzi essere indotto
a credere alla bugia di Gasparri. Il commento di Luigi
La Spina («Lo strano caso della legge futurista»)
contraddice l’apertura, ironizzando amaramente
su una legge che «si occupa di regolamentare il
futuro», cioè l’era del digitale,
e non il presente, in cui «il perdurante conflitto
d’interessi del Presidente del Consiglio»
avrebbe dovuto consigliare di ascoltare le critiche
delle opposizioni e «soprattutto di tre autorità
garanti», ovvero il Presidente della Repubblica,
la Corte Costituzionale e il presidente dell’Antitrust.
Ritornano qui, in extremis, alcuni di quei valori comuni,
come il pluralismo dei media e il rispetto delle Istituzioni,
a cui in questo caso nemmeno La Stampa riesce ad abdicare.
D’altronde la gravità del provvedimento
è tale e tocca così da vicino l’esistenza
delLa Stampa italiana che sarebbe stato incomprensibile
se il quotidiano torinese non avesse concordato con
gli altri due quotidiani. La legge Gasparri, proprio
in quei giorni, era stata duramente criticata dall’allora
presidente degli editori italiani (Fieg) Luca Cordero
di Montezemolo, dal Rappresentante per la libertà
dei media dell’Organizzazione per la sicurezza
e la cooperazione in Europa (Osce), che aveva parlato
di «un precedente molto pericoloso che potrebbe
seriamente influenzare la struttura dei media in altri
stati membri dell’Osce» (Ansa, 11 dicembre
2003), e dall’Istituto internazionale delLa Stampa
(Ipi), che aveva segnalato con preoccupazione come il
nostro Paese nel campo dei media rappresenti sempre
più un’anomalia nel panorama europeo: «L’Unione
Europea ha cercato di definire standard democratici
per il mercato dei media all’interno delle sue
frontiere, ma la concentrazione dei media in Italia
– scrisse l’Ipi al presidente Ciampi –
solleva preoccupazione sulla qualità della democrazia
in Europa nel suo complesso» (Ansa, 10 dicembre
2003).
Dal «proclama dell’ipermercato» all’approvazione
della legge Gasparri sono passati dieci anni. Se battaglia
c’è stata tra Berlusconi e La Stampa, si
può dire che l’abbia vinta il Cavaliere.
Perché tutte le richieste di cui anche il Corriere
si è sempre fatto voce, come la risoluzione del
conflitto d’interessi e il rispetto dei valori
della Costituzione, sono state costantemente ignorate
da Berlusconi. Il conflitto d’interessi si è
ingigantito, e la tv, grazie alla legge Gasparri, è
destinata ad aumentare le risorse economico-finanziarie
rispetto alla carta stampata, in un duello che già
oggi è fortemente impari. Ne seguirà che
la tv e i valori della tv si diffonderanno ancora di
più, a danno dei valori delLa Stampa. Pare che,
per dirla con Neil Postman, il Divertimento continuerà
a vincere sulla Razionalità, sebbene non ci sia
dubbio che sia quest’ultima a fondare una solida
democrazia liberale.
«Una democrazia moderna deve interrogarsi sul
ruolo che vuole riservare alla carta stampata»,
ha scritto Dario Di Vico il 25 marzo 2004 sul Corriere
della Sera: «Concentrando le risorse sulla tv
il suo futuro non può che apparire grigio».
Le puntate precedenti:
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