287 - 28.10.05


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Il signor B. in
prima pagina
(parte sesta)

Daniele Castellani Perelli


Una nuova puntata dell’analisi di Daniele Castellani Perelli, su come i tre maggiori quotidiani italiani hanno parlato di Silvio Berlusconi negli ultimi dieci anni, un confronto delle prime pagine attraverso undici episodi emblematici della recente vita politica italiana.
Dal libro Giornali e tv negli anni di Berlusconi (a cura di G. Bosetti e M. Buonocore, con interventi di Luca Cordero di Montezemolo, Dario Di Vico, Ezio Mauro, Daniele Castellani Perelli, Marsilio – i libri di Reset, 2005).


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3 luglio 2003
Inizia, male, il semestre a Strasburgo
(Schulz e i Kapò: Silvio, what the fuck have you done?)


Nonostante i molti valori in comune, una differenza tra Corriere e Repubblica non ha mai smesso di essere in questi dieci anni: il tono della critica verso Silvio Berlusconi, che sul quotidiano romano è sempre stata tanto ostile e scandalizzata quanto a via Solferino è sempre stata (abbastanza) ferma ma sobria. Quando il premier, nel luglio 2003, inaugurando il semestre italiano a Strasburgo si rivolge al deputato tedesco Martin Schulz dicendogli che al cinema sarebbe adatto al ruolo del kapò, la Repubblica dedica alla vicenda quasi tutta la prima pagina, con un titolo d’apertura quasi apocalittico, «Europa, bufera su Berlusconi». Tutta la pagina è studiata in uno scandalizzato attacco alla figuraccia del premier: c’è la foto in cui si mostra un «Fini imbarazzato», e ci sono tre commenti, di cui uno del direttore. Nell’occhiello dell’apertura vengono ricordate tutte le frasi incriminate, compresa quella ai deputati verdi, definiti «turisti della democrazia». La frase rivolta a Schulz viene citata con una semplificazione giornalistica maliziosa, che intende aggravare la posizione del premier («Sei un kapò nazista”, ma in realtà Berlusconi ha detto «So che in Italia stanno girando un film sui lager nazisti. La proporrò per il ruolo di Kapò»). Nel catenaccio si usano termini che accrescono l’intensità («insorge il Parlamento», «il premier insulta») e quella con la Germania viene definita una «grave crisi diplomatica». Ezio Mauro, come detto, per l’occasione decide di scendere in campo, con un editoriale di lunghezza scalfariana dall’emblematico titolo «Il fattore B che ci allontana dall’Europa». L’affondo, durissimo, descrive la «deriva ogni giorno più tragica e inarrestabile» di un premier «trascinato da quel dilettantismo che tanto piace in Italia». Mauro come sempre sa inquadrare le cosiddette gaffe di Berlusconi in un contesto più ampio, riuscendo così a comunicare quanto non siano delle distrazioni, ma piuttosto delle logiche conseguenze di «una cultura che è fuori dall’Europa»: «L’incidente non nasce dal caso, ma è figlio di una cultura, che determina una politica». Certo poi, preso dall’indignazione, anche Mauro cade in un errore classico di Repubblica, quello di dare Berlusconi per spacciato, come quando scrive che questo è «l’inizio ufficiale del declino del Cavaliere» o che «da ieri l’uscita di An dal governo è qualcosa di più di una minaccia»: tutte previsioni rivelatesi sbagliate. Anche gli altri due commenti sono taglienti, con Bernardo Valli («L’ignoranza della storia») che descrive un Berlusconi che «considera le tragedie della storia una barzelletta», e Andrea Bonanni che inizia citando le parole del presidente dell’Europarlamento Pat Cox, «Silvio, what the fuck have you done?».

Su La Stampa, invece, la notizia viene trattata in modo molto diverso. Anzitutto lo spazio è inferiore rispetto a Repubblica, e tutta la prima pagina intende ridimensionare l’accaduto. Il titolo («Semestre Ue, crisi tra Italia e Germania») limita lo scontro ai due paesi, quando invece la polemica è di interesse europeo, come dimostra l’attenzione di tutti i quotidiani continentali e come dovrebbe suggerire il fatto che Berlusconi ha parlato come presidente di turno dell’Ue e che nei giorni precedenti gran parte dell’Europa mediatica e politica aveva espresso dubbi sulla capacità del premier italiano di ricoprire quel ruolo. Diversamente da Repubblica, le accuse ai verdi non vengono riportate nell’apertura, non c’è nessuna foto che ritragga l’imbarazzante episodio (scelta paragonabile a quella del Tg1 berlusconiano, che con una decisione molto contestata non manda in onda l’audio del premier). La vignetta di Forattini è come al solito fuori luogo e non va al centro delle cose: per la solita noiosissima polemica personale, Forattini deride D’Alema, che lo ha querelato per una sua vecchia vignetta. L’editoriale di Pier Luigi Battista, coerentemente con la linea del giornale, ridimensiona il tutto, e sotto il titolo «Una battuta di troppo», scrive che «l’esito di quella battuta appare politicamente negativa», e nel finale si mostra fiducioso, registrando che «Berlusconi può ancora rimediare all’ennesima gaffe. Rimediare con l’autorità politica, chiudendo definitivamente nel cassetto il repertorio delle battute improvvide». Insomma, mentre tutti i giornali europei si mostrano scandalizzati, mentre Ezio Mauro spiega l’episodio alla luce della cultura del governo, La Stampa dice che è solo una battuta.

Anche per il Corriere «l’esordio di Berlusconi provoca una tempesta», come è detto nel titolo dell’apertura del 3 luglio. Il Corriere non ridimensiona affatto l’accaduto, e tuttavia è aperto anche a considerazioni diverse da quelle de la Repubblica. Nell’occhiello viene sottolineato che Berlusconi «replica a un attacco su giustizia e Bossi», nel sommario si precisa che la frase non è «lei è un kapò» (come semplifica maliziosamente la Repubblica), ma vien fatto dire al premier, senza virgolette, un più veritiero «Lei è il perfetto kapò in un film sui lager». Infine accanto alla vignetta si lancia anche un articolo sul discorso tenuto da Berlusconi, per fare in modo che la frase incriminata non faccia dimenticare che nella giornata c’è stato anche altro. Sono tre precisazioni che non intendono ridimensionare lo scontro, ma che garantiscono un’informazione più bilanciata: Repubblica, presa dalla polemica e dall’indignazione, le tralascia. D’altronde nel sommario il Corriere non nasconde «l’“avvilimento” del Quirinale», un giudizio che nell’Italia del 2003 (e nel Corriere del 2003) vale più di un editoriale: invece La Stampa, filogovernativa, non cita il disappunto di Ciampi. Nell’editoriale, Ernesto Galli della Loggia parla di «un pessimo inizio» di semestre, e non risparmia le critiche a un premier che «non è riuscito a tenere i nervi saldi e la lingua a posto». Il commentatore, che spesse volte è stato critico con Berlusconi, stavolta denuncia che «il semestre non poteva cominciare peggio» e accusa il Tg1 di aver mandato in onda un’edizione «omissiva e manipolatoria fino al grottesco». Galli della Loggia descrive «il carattere dilettantesco di Berlusconi in quanto uomo politico»: «Già è politicamente gravissimo non aver ancora mosso un dito per risolvere il conflitto d’interessi: farci sopra lo spiritoso e l’insolente è un puro e semplice suicidio». Non solo. L’editorialista attacca con veemenza, spazientito, le sparate di Bossi, «a metà tra capitan Fracassa e Goebbels», e a proposito della Lega Nord spiega quanto nuoccia all’immagine europea del nostro Paese «l’inarrestabile profluvio di dichiarazioni del suo capo, regolarmente improntate alla violenza, alla xenofobia, al più totale disprezzo verso ogni cosa, idea o persona che non gli vadano a genio».

Nel luglio 2003 Corriere e Repubblica, con il caso Schulz, dimostrano di trovarsi ancora dalla stessa parte nella difesa di quei valori tradizionali che le avventure berlusconiane tentano di sovvertire: europeismo, pluralismo dei media, rispetto delle istituzioni e contegno istituzionale. Tutti valori che fanno parte da sessant’anni della nostra storia politica e che sono la costituzione materiale del nostro Paese. Tutti valori che La Stampa ha smesso di difendere con costanza, ma che, come dimostrano anche le polemiche su Mussolini e sui «giudici pazzi» originate da alcune clamorose dichiarazioni del premier, hanno ancora un grande difensore ai vertici dello Stato. Carlo Azeglio Ciampi.

5 settembre 2003
I giudici pazzi
(I giganti e i nani)


In questa fase il premier Berlusconi inanella una serie clamorosa di «figuracce» istituzionali, tutte rivelatrici, come direbbe Ezio Mauro, della sua cultura politica. Corriere della Sera e Repubblica confermano di conseguenza quella sintonia di giudizio che in certi istanti era sembrata mancare, dopo il disorientante risultato elettorale del 2001. Il 4 settembre viene pubblicata un’intervista del premier a un giornalista inglese, Nicholas Farrell, editorialista della Voce di Rimini, in cui Berlusconi, oltre ad affermare che «Mussolini non ha mai ammazzato nessuno», parlando dei giudici sostiene che per fare quel mestiere «devi avere turbe psichiche, devi essere antropologicamente diverso dal resto della razza umana». Su Biagi e Montanelli aggiunge: «Invidiosi di me». Carlo Azeglio Ciampi è costretto a intervenire: «Gli italiani guardano alla magistratura con piena fiducia». La misura è colma.
Il giorno dopo la Repubblica titola «Ciampi sconfessa Berlusconi» e nel sommario opera la semplificazione che abbiamo già notato nel caso Schulz, facendo dire al premier «i giudici sono matti» (una semplificazione ad effetto, ma che stavolta è veniale). È l’unico giornale a pubblicare una foto di accompagnamento della notizia, una vecchia immagine in cui Ciampi sta accanto al premier con uno sguardo che sembra di rimprovero (è un altro vezzo tipico del quotidiano romano, l’uso malizioso delle foto). Anche in questo caso scende direttamente in campo il direttore Ezio Mauro, che in «Maggioranza libellista» va giù duro, come al solito attraverso un argomentare spietato da filosofia della politica: «Ieri Silvio Berlusconi ha confermato che la sua anomalia rispetto ad una moderna democrazia, basata sul rispetto delle regole e sulla divisione dei poteri, è insopprimibile». L’ennesimo scontro con il Quirinale è definito «una divaricazione clamorosa e drammatica per la nostra Repubblica». Il giornale di Mauro, diversamente dal Corriere, riporta in prima pagina anche l’attacco del premier a «opposizione e stampa», fiero del fatto di essere stato nuovamente citato dal premier, come ricorda il direttore («Repubblica, ossessione sua e dei suoi dipendenti»): «Nessun contropotere è previsto, nessun bilanciamento è contemplato – sintetizza, sempre riconducendo le frasi “spontanee” del premier a quella sua cultura altra – nessuna idea diversa dell’Italia è ammessa nella sgangherata e spaventata cultura del potere berlusconiana». Sempre sensibile ai valori veri e concreti della democrazia occidentale, Mauro segnala come si sia di fronte a «un ribellismo della maggioranza inedito in Occidente», dove «i più hanno sempre ragione non perché hanno ragione, ma perché hanno la forza»: «Soprattutto, è una riduzione della funzione politica al puro leaderismo populistico, estraneo e dunque ostile alla cultura istituzionale del nostro Paese e di ogni democrazia liberale».

Il Corriere della Sera stavolta non è affatto da meno, anzi. Il titolo di apertura («Berlusconi attacca i giudizi, Ciampi li difende») contiene la stessa sostanza di quello di Repubblica. In più c’è in catenaccio l’autodifesa di Berlusconi («solo un paradosso»), e lo spazio che Repubblica dedica all’attacco del premier a stampa e opposizione viene riempito con le frasi su Biagi e Montanelli, due storiche firme del Corriere stesso. La vignetta di Giannelli mostra un Berlusconi che, travestitosi da pazzo che si crede Napoleone, dà del «disturbato mentale» ai magistrati. L’editoriale di Francesco Merlo (che tra poco passerà a Repubblica) è di un’indignazione eccezionale. In «Oltre ogni limite» (un titolo più arrabbiato di quello dell’editoriale di Mauro) Merlo fa il ritratto di un Berlusconi che, «almeno due volte la settimana», «si caricaturizza da solo con involontarie autodenigrazioni». In questo giorno, spiega l’editorialista del Corriere, «la cosa che più ci manca è la risposta di Montanelli»: «Solo lui avrebbe capito, allarmato, da quale pozzo di disperazione affiori l’idea infantile che un re invidi un valletto, un gigante un nano». Berlusconi, per Merlo, è «un improvvisatore del quale non si possono invidiare né la cultura né l’intelligenza né l’eleganza ma solo il danaro, problematicamente accumulato».
Come già era accaduto per il caso Schulz, La Stampa è invece riduttiva e fuorviante. Il titolo, infatti, fa pensare a una delle tante polemiche tra il premier e la magistratura («Berlusconi-giudici, è di nuovo scontro»), non individuando l’eccezionalità del fatto, un attacco gratuito, gravissimo e volgare da parte del premier (riportato con scandalo, anche in questa occasione, da tutta La Stampa europea). Inoltre l’apertura viene fortemente indebolita dalla presenza di una sottotestata dedicata a un’intervista a Prodi (non sull’argomento), e da una grande foto di Chirac e Schroeder a un vertice sull’Iraq. Schiacciato tra la sottotestata e la foto, la notizia risulta fortemente arginata. L’editoriale di Aldo Rizzo («Il peso delle chiacchiere») dice cose ovvie, si augura che le «dichiarazioni sconcertanti» di Berlusconi non compromettano, genericamente, «le “chances” dell’Italia», e risulta decisamente fiacco rispetto al volo alto di Mauro e alla bravura linguistica di un indignato Merlo: anche in questo La Stampa si conferma ormai giornale di seconda fascia.

3 dicembre 2003
La Gasparri, riforma illiberale
(La legge dell’Uomo della Tv)


Con la legge Gasparri il cerchio si chiude. Quello che nel 1993 avevamo chiamato «l’Uomo della tv» ottiene finalmente la riforma che, oltre a sancire il suo strapotere mediatico illiberale, decreta la superiorità economico-finanziaria, e quindi strategica, della tv rispetto ai giornali. Davanti a una legge così indifendibile, così chiaramente illiberale (perché, invece di incoraggiare un sostanziale e immediato pluralismo mediatico, cementa il bipolarismo televisivo e toglie risorse ai giornali), i tre quotidiani che abbiamo preso in considerazione in questa ricerca si comportano come previsto. Tutti e tre attaccano la legge del premier, ma in modi diversi. La Stampa con una certa timidezza, la Repubblica con un’indignazione senza ambiguità, il Corriere bilanciando spazi ridotti a parole schiette e inequivocabili.

Nel titolo di apertura la Repubblica attacca subito: «Tv, la legge di Berlusconi». La vignetta di Altan usa la parola «fascismo» («Il fascismo, se non lo butti nel cassonetto, c’è subito uno che lo raccatta»), in Ring composition con l’accusa che Repubblica, come abbiamo visto, aveva usato nel 1993, ai tempi del «proclama dell’ipermercato». Mentre l’occhiello e il catenaccio del Corriere sono minimi e cronachistici, quelli de la Repubblica sono, come al solito, più «intensi»: nell’occhiello vengono esplicitate quelle che il Corriere chiama genericamente le «dure critiche dell’opposizione» («L’Ulivo: limitata la libertà d’espressione, manifesta incostituzionalità»), e vengono anche riportate, provocatoriamente (cioè con l’intenzione di far indignare ancora di più il lettore), le reazioni di due «nemici» del mondo de la Repubblica («Confalonieri esulta: battaglia vinta. Fede ringrazia»). In prima pagina c’è un commento di Giovanni Valentini («Mediaset senza limiti»), in cui non si usano giri di parole. Valentini, con espressioni che non verrebbero pubblicate da Corriere e Stampa, parla di «legge-vergogna», di «un duro attacco alla libertà d’informazione». Di più, il momento è così drammatico che torna la teoria del regime: «Se è vero che la libertà d’informazione è un caposaldo di qualsiasi democrazia, allora bisogna dire senza mezzi termini che questo è un attacco alla vita democratica del nostro Paese. Una legge di regime – attacca Valentini – un regime fondato sul controllo della televisione, sul suo potere di persuasione occulta, sulla concentrazione pubblicitaria che sostiene e finanzia il partito-azienda del presidente del Consiglio». Anche in questo caso il direttore scende direttamente in campo. Nell’editoriale «Il contratto con se stesso», Ezio Mauro ribadisce che provvedimenti del genere sono anomali rispetto al quadro occidentale, e conclude indignato: «La qualità della nostra democrazia da ieri è pericolosamente impoverita».

Il Corriere, nell’apertura, definisce la Gasparri «la legge tv», e non «la legge di Berlusconi», ma il commento di Salvatore Bragantini ha un titolo secco e durissimo («Squilibrata e illiberale»), tale da risultare più sdegnato di quelli di Repubblica, che sono invece di un antiberlusconismo di maniera. Come nel caso dell’approvazione della legge Cirami, il Corriere preferisce affidarsi ad un commento tecnico, tanto più spietato quanto più apparentemente freddo: «È difficile non rendersi conto che la nuova legge non risponde ai requisiti delle direttive comunitarie», scrive Brigantini. «Il solo “criterio” previsto da questa legge è, invece, lo stato di fatto. Viene così cristallizzato quel “duopolio collusivo” fra Rai e Mediaset». Bragantini smonta tutte le argomentazioni dei difensori della Gasparri: «Si dice che il digitale riequilibrerà la situazione, con la sua teorica abbondanza di spazi; non è vero in quanto, a parte il fatto che la sua introduzione richiederà dai 6 ai 10 anni, solo le risorse pubblicitarie consentono di investire nei contenuti, che portano l’audience, che porta la pubblicità, e così via. Il cerchio non si spezza». «Il mantenimento dello status quo, a sua volta, consente di perpetuare l’attuale squilibrio nella raccolta pubblicitaria, unica fonte di ricavo dei network e risorsa vitale anche per la carta stampata; continuerà così una situazione nella quale le tv raccolgono in Italia quasi il 60% della pubblicità, contro un terzo del totale nel resto del mondo sviluppato», continua Brigantini. «Di più, due network, da soli, raccolgono il 95% della torta pubblicitaria televisiva (oltre il 50% del mercato totale), mentre i primi due editori di quotidiani si fermano ad un quinto della raccolta totale». «Dall’assenza di concorrenza nel settore pubblicitario sono danneggiati sia i consumatori, sia i produttori; entrambi pagano di più il prodotto che acquistano. Parafrasando Talleyrand – conclude il commentatore del Corriere – potremmo dire che approvare la Gasparri è stato peggio che un crimine: è stato un (grave) errore». Il Corriere dà nel complesso meno spazio alla notizia (non c’è un editoriale, l’apertura è decisamente più stretta), ma ribadisce la sua dura polemica con questa legge: una vera e propria campagna, che aveva visto intervenire Sabino Cassese, Giovanni Sartori e Dario Di Vico. Di Vico aveva criticato punto per punto la legge, in maniera così efficace e minuziosa da provocare una stizzita lettera di protesta del ministro Gasparri. Il professor Sartori, il 16 luglio 2003, segnalava come la legge sistemi «gli interessi di Sua Emittenza» e come con essa andrà «di male in peggio per la libertà di sapere e di dire».

La Stampa, nel titolo, chiama la legge con un’espressione che, rispetto a quelle di Repubblica e Corriere, le dà ancora maggiore dignità politica («Approvata dal Senato la riforma tv») e soprattutto riporta in bella evidenza, nel catenaccio, la grossa bugia legittimante dell’autore della legge («Gasparri: aumenta il pluralismo»). Le accuse dell’opposizione sono genericamente sintetizzate in un «L’Ulivo: la battaglia continua»: chi legge la prima pagina de La Stampa non ha né le gravi accuse dell’Ulivo citate da la Repubblica, né il titolo sprezzante del commento del Corriere, e potrebbe anzi essere indotto a credere alla bugia di Gasparri. Il commento di Luigi La Spina («Lo strano caso della legge futurista») contraddice l’apertura, ironizzando amaramente su una legge che «si occupa di regolamentare il futuro», cioè l’era del digitale, e non il presente, in cui «il perdurante conflitto d’interessi del Presidente del Consiglio» avrebbe dovuto consigliare di ascoltare le critiche delle opposizioni e «soprattutto di tre autorità garanti», ovvero il Presidente della Repubblica, la Corte Costituzionale e il presidente dell’Antitrust. Ritornano qui, in extremis, alcuni di quei valori comuni, come il pluralismo dei media e il rispetto delle Istituzioni, a cui in questo caso nemmeno La Stampa riesce ad abdicare. D’altronde la gravità del provvedimento è tale e tocca così da vicino l’esistenza delLa Stampa italiana che sarebbe stato incomprensibile se il quotidiano torinese non avesse concordato con gli altri due quotidiani. La legge Gasparri, proprio in quei giorni, era stata duramente criticata dall’allora presidente degli editori italiani (Fieg) Luca Cordero di Montezemolo, dal Rappresentante per la libertà dei media dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), che aveva parlato di «un precedente molto pericoloso che potrebbe seriamente influenzare la struttura dei media in altri stati membri dell’Osce» (Ansa, 11 dicembre 2003), e dall’Istituto internazionale delLa Stampa (Ipi), che aveva segnalato con preoccupazione come il nostro Paese nel campo dei media rappresenti sempre più un’anomalia nel panorama europeo: «L’Unione Europea ha cercato di definire standard democratici per il mercato dei media all’interno delle sue frontiere, ma la concentrazione dei media in Italia – scrisse l’Ipi al presidente Ciampi – solleva preoccupazione sulla qualità della democrazia in Europa nel suo complesso» (Ansa, 10 dicembre 2003).

Dal «proclama dell’ipermercato» all’approvazione della legge Gasparri sono passati dieci anni. Se battaglia c’è stata tra Berlusconi e La Stampa, si può dire che l’abbia vinta il Cavaliere. Perché tutte le richieste di cui anche il Corriere si è sempre fatto voce, come la risoluzione del conflitto d’interessi e il rispetto dei valori della Costituzione, sono state costantemente ignorate da Berlusconi. Il conflitto d’interessi si è ingigantito, e la tv, grazie alla legge Gasparri, è destinata ad aumentare le risorse economico-finanziarie rispetto alla carta stampata, in un duello che già oggi è fortemente impari. Ne seguirà che la tv e i valori della tv si diffonderanno ancora di più, a danno dei valori delLa Stampa. Pare che, per dirla con Neil Postman, il Divertimento continuerà a vincere sulla Razionalità, sebbene non ci sia dubbio che sia quest’ultima a fondare una solida democrazia liberale.
«Una democrazia moderna deve interrogarsi sul ruolo che vuole riservare alla carta stampata», ha scritto Dario Di Vico il 25 marzo 2004 sul Corriere della Sera: «Concentrando le risorse sulla tv il suo futuro non può che apparire grigio».


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