Una nuova puntata dell’analisi di Daniele
Castellani Perelli, su come i tre maggiori quotidiani
italiani hanno parlato di Silvio Berlusconi negli ultimi
dieci anni, un confronto delle prime pagine attraverso
undici episodi emblematici della recente vita politica
italiana.
Dal libro Giornali e tv negli anni di Berlusconi (a
cura di G. Bosetti e M. Buonocore, con interventi di
Luca Cordero di Montezemolo, Dario Di Vico, Ezio Mauro,
Daniele Castellani Perelli, Marsilio – i libri
di Reset, 2005).
Le puntate precedenti:
Leggi la prima parte
Leggi la seconda parte
Leggi la terza parte
Leggi la quarta parte
14 maggio 2001
Berlusconi 2, il ritorno
(Disorientamento)
La vittoria del centrodestra di Silvio Berlusconi alle
elezioni del 13 maggio 2001 segna una nuova rivoluzione
all’interno del sistema italiano, e i tre quotidiani
mostrano disorientamento. La Stampa
si disimpegna pilatesca, il Corriere
apre un credito a Berlusconi e solo la Repubblica,
pur delusa dalle prestazioni dei partiti del centrosinistra,
prosegue nel suo tradizionale sostegno all’Ulivo.
La Stampa mostra un’equidistanza
che sembra motivata più che altro dalla scarso
entusiasmo per le due parti in gioco. Se però
l’11 maggio Luigi La Spina è super partes,
il 10 Augusto Minzolini («Ora e sempre opposizione»)
critica una sinistra che avrebbe condotto una campagna
elettorale di mera opposizione all’avversario,
rimuovendo anche «la lezione del D’Alema
migliore, quella che considerava un errore mortale demonizzare
l’avversario». «Risultato: la campagna
elettorale – conclude il commentatore de La
Stampa – si è trasformata
in un referendum su Berlusconi, anzi, per Umberto Eco
addirittura un Referendum Morale». La delusione
verso le due coalizioni la esprime il direttore Sorgi,
il giorno stesso delle elezioni, in cui descrive «un
elettorato stanco e disilluso», mortificato da
una campagna in cui ci sono stati poca «chiarezza,
serietà e impegno», in cui è mancata
una reciproca legittimazione, in cui nessuno dei due
candidati ha saputo indicare «una possibile via
d’uscita dal decennio di transizione in cui, purtroppo,
la crisi italiana s’è avviata su se stessa».
«E si va a votare in un clima da ’48, non
solo per i toni aspri e la mediocrità degli argomenti
adoperati», aggiunge Sorgi con accenti da antipolitica.
Non c’è l’eccitazione del 1994 e
del 1996, la sensazione di vivere un evento epocale.
C’è il fatalismo di chi tutt’al più
si prepara ad accogliere un male minore. Il quotidiano
torinese non ha ancora imboccato la discesa che lo condurrà
a perdere credibilità e prestigio, ma già
si notano i primi segnali di una difficoltà.
I commenti che portano al voto sono numericamente scarsi
e qualitativamente poco efficaci e poco coinvolti (rispetto
a quelli dei due concorrenti), ma è notevole
che il giovedì e il venerdì prima delle
elezioni vengano messe in primo piano interviste esclusive
a entrambi i candidati (mentre la Repubblica
intervista solo il «suo» Rutelli). L’apertura
del 15 maggio è leggermente favorevole a Berlusconi,
perché, a differenza di Repubblica,
lo fa parlare e gli fa dire una frase ottimistica («Berlusconi:
manterrò le promesse»), e soprattutto perché
nel sommario l’immagine del premier è costruita
attraverso azioni e parole rassicuranti («“I
nostri alleati saranno soddisfatti”. Messaggio
agli “amici dell’Unione Europea” e
agli Stati Uniti. Elogi a Ciampi»). Rimane l’impressione
di un giornale ancora imparziale, ma già si sente,
rispetto agli anni della direzione di Mauro e delle
collaborazioni di Bobbio, e Galante Garrone che La
Stampa, probabilmente delusa dal quadro politico,
appare incapace sia di battagliare sia di analizzare
in profondità. Rutelli e Berlusconi pari sono,
e poco importa chi vincerà. Anzi, come aveva
concluso con rassegnazione Sorgi il giorno del voto,
«è difficile scegliere, soprattutto quando
è chiaro che sta diventando inutile».
Quanto a Corriere e Repubblica, i
due principali giornali reagiscono stavolta in maniera
diversa tra loro. Per il quotidiano di Ezio Mauro, alla
vigilia delle elezioni, non c’è dubbio:
anche se la maggioranza di governo ha spesso deluso,
non c’è scelta, anybody but Berlusconi.
Già nella prima pagina di martedì 15 maggio,
il giorno in cui il risultato della consultazione è
ufficiale, da una parte il Corriere titola
con una specie di apertura di credito al nuovo premier,
lasciandolo anche parlare nell’apertura («Berlusconi:
“Subito il governo, manterrò le promesse”»),
sottolineandone nell’occhiello e nel catenaccio
l’immediato attivismo e un’iniziale ben
augurante moderazione («Il leader del Polo annuncia
che nel primo Consiglio dei ministri bloccherà
la riforma dei cicli scolastici e azzererà le
imposte su donazioni e successioni»; «Il
Cavaliere rassicura l’Europa e lancia segnali
di dialogo al centrosinistra»), due sue presunte
qualità che sono state premiate dall’elettorato
e a cui via Solferino in questo primo giorno vuole credere;
dall’altra parte su la Repubblica questi
elementi positivi scompaiono dall’occhiello e
dal catenaccio: c’è una pagina meno densa,
con un titolo quasi choc («Il governo a Berlusconi»)
e un editoriale del direttore dal titolo altrettanto
a effetto («Il Cavaliere alla presa del potere»),
che dà un’immagine arrembante del premier,
quasi da barbaro che marcia assetato di potere. La distanza
tra i due quotidiani è sintetizzabile con la
vignetta di Altan su Repubblica, spaziosa,
in evidenza, con l’amarezza di due elettori di
sinistra dialoganti («Poteva andare anche peggio»
dice l’uno, «No» replica secco l’altro):
anche qui Repubblica ricorda che è un
giornale di sinistra, di una parte, e che non vuole
nascondere questa sua identità. Sul quotidiano
romano domina l’amarezza per la vittoria del Berlusconi.
In campagna elettorale il giornale si era apertamente
schierato in favore dell’Ulivo, come dimostra
l’intervento di Umberto Eco sulla prima pagina
dell’8 maggio e l’editoriale di Eugenio
Scalfari il giorno del voto. Eco aveva invitato a «non
astenersi dal referendum morale», temendo l’instaurazione
di «un regime di fatto» in caso di vittoria
di Berlusconi. Il Fondatore, in un post scriptum impegnato,
aveva invece precisato eloquentemente: «Del conflitto
d’interessi non ho nemmeno parlato perché
c’è un solo modo per risolverlo: rimandare
Silvio Berlusconi ad occuparsi delle sue aziende. Spero
vivamente che così accada». La delusione
per l’insuccesso non è poi per nulla mascherata,
tanto che Giorgio Bocca, il 16 maggio, in «L’eclisse
dei valori comuni», scrive: «Non mi congratulo
e non mi allineo. Sono storicamente allergico ai neofascisti
“sdoganati” che ci ritroviamo al governo».
Bocca segnala «l’eclissi di quel senso comune
che aveva connotato la nostra vita comune di Repubblica
democratica nata da una Costituzione democratica»,
e conclude: «Non poteva andare peggio, è
scomparsa da questa Italia la decenza». La schietta
amarezza, però, come già era successo
nel marzo del 1994, convive con un’analisi lucida
del risultato elettorale: il quotidiano d’opinione,
in questo caso, convive con il quotidiano d’informazione.
L’editoriale di Ezio Mauro può fungere
da manifesto per la linea di Repubblica degli
ultimi dieci anni, il programma di un quotidiano d’opinione,
che si riconosce apertamente in una parte politica e
culturale, ma che non per questo si abbandona alla disinformazione
e alla faziosità. Il 15 maggio, in «Il
Cavaliere alla presa del potere», Mauro scrive
senza ipocrisia che quella di Berlusconi è «una
vittoria che non ci piace, perché non pensiamo
che quel modello di Paese, di leadership e di destra
sia utile all’Italia di oggi». Detto questo,
si ribadisce però l’impegno ad una critica
onesta: «Racconteremo con scrupolo di cronisti
l’avvento di quest’era berlusconiana, breve
o lunga che sia, com’è nostro dovere, e
come vuole il nostro mestiere, in democrazia: con serenità
e con severità – perché le domande
e i problemi che abbiamo sollevato in campagna elettorale
sussistono tutti – sapendo che un giornale è
solo un giornale, ma talvolta può rappresentare
un pezzo di opinione, di cultura e di Paese. Qualcosa
di importante, al di là di chi comanda in quel
momento. Un’Italia di minoranza, a cui noi teniamo».
Per il resto, Mauro ripete due volte che la vittoria
di Berlusconi è «legittima» ed è
arrivata dopo una campagna elettorale «aspra ma
pienamente regolare», così dissociandosi
in partenza da certi settori della sinistra massimalista.
Poi l’erede di Scalfari, con linguaggio pseudo-epico,
definisce quella del secondo successo di Berlusconi
«la data della presa del potere, l’anno-zero,
l’avvio di un’epoca “rivoluzionaria”».
Tornando su un concetto a lui caro, definisce il risultato
«qualcosa di più di una semplice alternanza
tra destra e sinistra alla guida di una grande democrazia
occidentale». L’analisi riecheggia gli argomenti
con cui la Repubblica aveva cercato di capire
la sconfitta del 1994. Ezio Mauro, che accusa Fausto
Bertinotti di aver regalato la vittoria a Berlusconi
«con l’inseguimento folle, egoista e inutile
dei suoi due senatori», spiega che «un Paese
impaziente e insofferente» si è fatto domare
da «un moderno populismo telematico e titanico»,
e aggiunge: «Berlusconi rappresenta antropologicamente,
biograficamente, addirittura biologicamente un’altra
Italia, che vuole impetuosamente “fare”,
ma chiede di fare da sé – spiega Mauro
– escludendo insieme lo Stato e il senso dello
Stato, pur di pagare meno tasse e soprattutto di non
avere più regole».
Il successo del centrodestra è registrato senza
emozioni dal Corriere. Paolo Franchi, nell’editoriale
del 15 maggio, spiega che la vittoria non è dovuta
alle tv, ma a «quello che un tempo, quando amava
scandagliare la società e cercare di coglierne
le linee di tendenza, la sinistra avrebbe definito un
blocco sociale», formato «in primo luogo
da un’Italia che lavora e produce, che il centrosinistra
non ha saputo o potuto né convincere né
dividere né, tanto meno, sconfiggere».
Il Corriere insomma tranquillamente registra
gli errori del centrosinistra e i meriti del vincitore,
a cui decide di dare una chance: «Sta
a Berlusconi cogliere una simile opportunità
– conclude Franchi – all’opinione
pubblica giudicare se e quanto ne sarà capace.
Senza pregiudizi. E senza sconti». D’altronde
lo stesso direttore era intervenuto la domenica delle
elezioni («La libera scelta degli italiani»),
rassicurando che quello non sarebbe stato «in
ogni caso, come ha paventato l’Economist,
un giorno nero per la democrazia». Ferruccio De
Bortoli spiega che il vero vincitore delle elezioni
è il presidente della Repubblica Ciampi,
che «non si è posto l’interrogativo
di chi andrà al governo, bensì di quale
Italia uscirà dalle urne». «E La
Stampa indipendente ha garantito, rispettando ogni
opinione, un confronto costante fra i diversi modelli
di società proposti», ricorda De Bortoli.
«L’equidistanza del Corriere ci
è sembrata utile se non preziosa. Crediamo di
aver contribuito a migliorare la qualità dell’offerta
politica. Il nostro giornale è stato un tavolo
delle idee. Un giornale aperto, non un partito. I lettori
hanno potuto valutare i programmi fin nei dettagli,
le posizioni di tutti. I nostri editorialisti hanno
espresso anche orientamenti differenti, ma tutti uniti
da un filo ininterrotto. Il filo del Corriere
che lega insieme i valori di una democrazia liberale
ed europea, nel segno della civiltà dell’informazione.
Principi ai quali non abbiamo mai derogato e che saranno
il metro con il quale giudicheremo, giorno per giorno,
il prossimo governo». «Il centrodestra rappresenta
una parte vitale e produttiva dell’Italia, comunque
un blocco sociale», ammette De Bortoli, «ma
un Berlusconi presidente del Consiglio, se vorrà
essere riconosciuto come parte non anomala del centrodestra
europeo, dovrà subito dare risposte alle grandi
questioni sollevate anche dall’opinione pubblica
internazionale (la teoria del complotto delLa Stampa
estera è infondata). Senza perdere tempo, nelle
prime due settimane del suo eventuale governo. Non nei
primi cento giorni». E’ un passaggio importante.
Il direttore del Corriere ricorda qui che sono
ancora validi e irrisolti i motivi per cui il primo
quotidiano d’Italia ha sempre guardato con diffidenza
a Silvio Berlusconi. Certo, dall’editoriale di
Mieli del 1996 qualcosa è cambiato. Sull’onda
dell’ipergarantismo di quei commentatori liberal-conservatori
che hanno dominato a via Solferino negli anni del centrosinistra
al governo, è scomparso il riferimento ai problemi
giudiziari del premier, e il pragmatismo della testata
ha condotto la direzione a smettere di contestare la
legittimità della premiership di Berlusconi (implicita
invece nell’editoriale di Mieli del 1996). Il
fatto che l’opinione pubblica abbia accettato
Berlusconi e lo rivoglia a Palazzo Chigi basta a legittimare
totalmente il leader di Forza Italia agli occhi del
Corriere. Tuttavia De Bortoli promette di vigilare
affinché il premier dia «risposte convincenti
sul conflitto d’interessi, sulla netta separazione
del politico dall’imprenditore nella trasparenza
societaria». «Poi il Cavaliere potrebbe
dire: giudicatemi solo dai risultati – conclude
– Quello che appunto faremo noi. Con chiunque
vinca».
La vittoria di Berlusconi sembra aver mischiato le carte,
e ognuno dei tre quotidiani è andato per conto
suo. La nuova rivoluzione berlusconiana si fa sentire,
anche se presto le tre testate si ritroveranno su quelle
posizioni sostanzialmente comuni, per merito di certi
atteggiamenti e certe leggi del premier decisamente
contrarie ai valori comuni di queste tre testate e alla
cultura di grandissima parte dell’establishment
tradizionale che esse rappresentano. Se La Stampa
sembra al momento incapace di un discorso autorevole
e si defila, la Repubblica mostra maggiore
intransigenza verso quei valori comuni, che vede fortemente
minacciati dal ritorno di Berlusconi. Il Corriere
accetta senza alcun problema il risultato elettorale.
La sua posizione non è mai stata identificabile,
in questo decennio, né in una parte né
nell’altra, e quindi il giornale non può
che documentare serenamente il cambio di governo. Ben
presto, d’altronde, ricorderà al premier
che non è un quotidiano che fa troppi sconti.
E che non tutto, al mondo, si può comprare.
6 novembre 2002
La Cirami è legge
(Le banane e i cani da guardia)
Se non fosse stato per il Papa, per Ciampi e per
un’opinione pubblica decisamente contraria, il
governo italiano di Silvio Berlusconi avrebbe probabilmente
sostenuto più apertamente la guerra di Bush in
Iraq, forse addirittura inviando simbolicamente un contingente
militare come la Spagna di Aznar. Certo non sarà
stato facile per il premier ritrovarsi contro, anche
questa volta, tutta La Stampa italiana, Corriere
della Sera in testa.
Il giornale di Ferruccio De Bortoli si schiera apertamente
contro la guerra, e la sua posizione deve aver certo
contribuito a dissuadere il premier dall’esporsi
troppo nel suo tradizionale appoggio all’alleato
texano. Il 9 febbraio, in un editoriale esplicitamente
intitolato «Le ragioni per dire no», De
Bortoli offre al giornalismo italiano una lezione di
coraggio, che non fa mai male. Ricorda a molti che l’europeismo
del Corriere non può limitarsi all’esibizione
della bandiera europea sotto la testata, e con un accenno
che sembrerebbe diretto anche ad alcuni suoi collaboratori
euro-tiepidi (i Della Loggia, gli Ostellino, i Panebianco),
scrive che «spiace leggere troppi autorevoli e
sprezzanti giudizi sull’indecisa Europa»,
che «l’antieuropeismo cresce al pari purtroppo
di quell’antiamericanismo strisciante che abbiamo
sempre condannato». Il «no razionale»
del direttore si basa sul no alla guerra preventiva,
che «è il prodotto, pur comprensibile ma
pericoloso, del neo unilateralismo americano»
e che «soprattutto non è iscritta nel sistema
condiviso delle regole internazionali». Riconfermando
la tradizionale linea multilateralista e filo-Onu del
giornale, De Bortoli invita a continuare «una
pressione internazionale costante, un’ispezione
prolungata, una vigilanza ferrea (con l’impiego
dei caschi blu come pensano Parigi e Berlino)»,
e conclude il suo editoriale spiegando come sia proprio
l’adesione ai valori autentici dell’Occidente
a sconsigliare questa avventura bellica. «È
la guerra continua l’eredità che lasceremo
ai nostri figli in un Occidente più diviso e,
dunque, più vulnerabile? È questo il modo
migliore di dialogare con gli arabi moderati? E, soprattutto,
con i giovani di quei Paesi, che saranno le classi dirigenti
di domani, per convincerli che l’Occidente è
libertà, democrazia, che rispetta e si fa rispettare
e usa la forza soltanto quando vi è costretto?».
Sul Corriere il dissenso verso la politica
di Bush, invero, è accompagnato da analisi spesso
polemiche verso il fronte del no: così via Solferino
mostra la sua distanza da la Repubblica. Ecco
allora Galli della Loggia e Ostellino provocare la sinistra
e i pacifisti, Panebianco attaccare a ripetizione la
Francia di Chirac. Ma le voci contro la guerra sono
più solide, l’indipendenza dal governo
è assoluta, e se Franco Venturini, a due giorni
dall’attacco, sostiene il suo «no della
ragione» e profeticamente avverte che «questa
guerra la si può perdere anche vincendola»,
il 22 marzo la prima pagina del Corriere è
sublimemente intensa, commovente e convincente più
di quella di Repubblica. Se su quest’ultima
il titolo drammatico («Bagdad in fiamme»)
sovrasta una foto notturna della città infuocata,
sul Corriere è l’immagine, analoga,
a dominare la parte superiore della pagina. La prima
del Corriere convince di più, perché
tiene insieme la sobrietà drammatica del titolo
(«Bombe e missili, l’inferno su Baghdad»),
dell’occhiello e del catenaccio (più a
effetto, spettacolari e compiaciute certe espressioni
de la Repubblica, come «scatta l’A-Day»
e «decollano le “fortezze volanti”»),
con l’aperta emozione dei titoli degli articoli
(«La morte negli occhi» dell’editoriale
di Claudio Magris, «Un boato, l’onda d’urto
e le pareti si sbriciolano» dell’inviato
Lorenzo Cremonesi). Lo stesso editoriale dello scrittore
triestino è un inno alla pace: «il volto
della guerra è la sconfitta», «la
guerra in Iraq è un errore disastroso»,
scrive Magris, che condanna «l’arroganza,
l’ipocrisia e la superficialità»
dell’amministrazione Bush. Su Repubblica
i titoli degli articoli sono invece più stanchi,
più freddi («A colpi di mitra contro i
B52», «Quei soldati con le mani alzate»,
e soprattutto il banale «Vedere la guerra in diretta
tv»), e cozzano con l’apertura «spettacolare».
Se Repubblica non offre dunque una presentazione
esaltante, il Corriere riesce invece a scaricare
su questa prima pagina un lavoro coraggioso che dura
da mesi: esplicitato il dissenso alla guerra, al momento
dell’attacco americano decide di non tornare indietro,
di non annacquare le proprie convinzioni in quella forma
di terzismo che troppo spesso è facile «cerchiobottismo»,
se non proprio basso doroteismo: De Bortoli va fino
in fondo, e tanta chiarezza gli sarà presto fatale.
Su la Repubblica il no alla guerra è
netto, e i distinguo e le cautele dei Della Loggia e
di Ostellino non trovano posto. «È una
guerra sbagliata – scrive Ezio Mauro nell’editoriale
del 19 marzo “La guerra sbagliata di Bush”
– è il momento di dire con chiarezza che
anche se raggiungerà l’obiettivo di liberare
l’Iraq dalla tirannia di Saddam - come io mi auguro
fortemente e come tutti dobbiamo sperare, nel momento
in cui non si riesce ad arrestare il conflitto - questa
guerra resta sbagliata». E se Scalfari il 23 marzo
parla di «una guerra particolarmente sciagurata»,
il mondo pacifista non incontra quasi mai il fastidio
che sul Corriere mostrano taluni, ed anzi il
21 marzo il taglio basso è dominato da un esaltante
«Marea pacifista nelle città», con
Curzio Maltese, autentico cantore del movimento, che
soddisfatto annuncia che «questo secolo si apre
con i cortei dei giovani pacifisti e non è un
piccolo progresso». Le voci discordanti dalla
linea editoriale sono rarissime, molto più rare
di quelle del Corriere: c’è ad
esempio Adriano Sofri, che l’11 marzo, a chi tifa
per la sconfitta degli Usa, chiede provocatoriamente
«Cari disobbedienti, tiferete per l’Iraq?».
È peraltro singolare, e conferma la nostra impressione
sulla presenza costante di valori di fondo comuni ai
due giornali, che nell’editoriale del 19 marzo
Ezio Mauro esponga la contrarietà di Repubblica
alla guerra riecheggiando argomenti che abbiamo visto
utilizzati dallo stesso De Bortoli. C’è
la contrarietà verso un pacifismo «senza
se e senza ma» («perché la guerra,
strumento terribile, può in qualche caso essere
giusta»), e c’è soprattutto la tesi
che la guerra all’Iraq sia contraria ai valori
dell’Occidente: «La democrazia, ecco il
punto che abbiamo sempre sostenuto, può e deve
difendersi soltanto restando se stessa […] Non
è accettabile per un occidentale che un paese
pretenda di “incarnare” una “missione”
a nome della libertà, dell’Occidente e
addirittura dell’umanità, saltando i passaggi
di salvaguardia del diritto internazionale». Ezio
Mauro, è vero, introduce una critica a Berlusconi
che è assente nel discorso di De Bortoli (Mauro
definisce quella del governo una politica da «sudditi
velleitari» degli Usa e argomenta che è
contraria a «i pilastri della politica degasperiana,
che Berlusconi non conosce, ma che qualcuno dovrebbe
ricordargli»), ma in un passaggio scavalca «a
destra» il Corriere, quando sottolinea
che «l’Europa ha lasciato l’America
sola, dopo l’11 settembre». Rispetto a via
Solferino, Repubblica è, pur con cautela,
più filo-francese, ma Ezio Mauro per tutto il
mese di marzo dà ampio spazio alle mille voci
di americani anti-Bush, intellettuali e politici come
George Soros, Richard Ford, Mario Cuomo, Jimmy Carter
e Noam Chomsky.
Confrontata con questi due ottimi quotidiani di livello
europeo, La Stampa del 2003 è un giornale
di seconda fascia, deludente e senza identità.
Già la prima pagina del 22 marzo è indicativa
di come il quotidiano torinese abbia perso contatto
dalle due testate, e sia ormai ad esse incomparabile
per qualità e coerenza della linea editoriale,
e per qualità del prodotto giornalistico. La
grande foto che mostra un moribondo iracheno è
chiaramente inferiore ai notturni di Baghdad che dominano
le aperture di Corriere e Repubblica,
e il titolo («Inferno di bombe sull’Iraq»)
è contraddetto da una evidente vignetta di Giorgio
Forattini, come al solito fuori luogo, che mostra Saddam
trasformarsi in una specie di Sergio Cofferati e con
la frase «Saddam è vivo e lotta insieme
a noi» polemizza inutilmente con i pacifisti.
E come l’editoriale di Maurizio Molinari (un mero
commento sulla situazione militare), anche la spalla
di Igor Man, che pur analizza con bravura la posizione
della Lega araba nel conflitto, non sembra capace di
andare al centro delle cose: come se La Stampa
avesse abdicato al suo ruolo di formatore dell’opinione
pubblica, stretta contraddittoriamente tra una visione
popolare e la vecchia ambizione di grande giornale di
qualità. Il risultato è insoddisfacente.
L’identità è scialba e non bastano
le intelligenti analisi di Molinari, Man e Barbara Spinelli
a risollevare un giornale che, senza quell’asse
centrale, quella coerenza forte e radicata che appartiene
al Corriere e a Repubblica, sbanda
da posizioni di sinistra moderata a, molto più
frequentemente, ossessioni tipiche della destra berlusconiana.
E allora nei mesi di febbraio e marzo 2003 si rincorrono
le invettive ai pacifisti e alla sinistra in generale,
anche in questo caso mancando il fuoco della questione
(20 marzo, Gian Enrico Rusconi, «Il rischio dell’Aventino
pacifista»; 24 marzo, Elie Wiesel, «Non
marcerò con i pacifisti»; 27 marzo, Gian
Enrico Rusconi, «Sinistra pro-Usa cercasi»).
Se Barbara Spinelli il 16 febbraio scrive, a un mese
dall’attacco, che «forse ci si può
sbarazzare di Saddam con una guerra fredda, senza gettare
nel terrore il popolo d’America e quello d’Israele»
e il 25 marzo Marcello Sorgi si trincera dietro posizioni
terziste, le analisi che maggiormente affrontano il
tema dell’intervento sembrano suggerire che La
Stampa in fondo sostenga il conflitto nella
stessa maniera in cui l’appoggia il premier Berlusconi,
ovvero senza farsi troppo accorgere. Ecco allora che
il 21 marzo, mentre un intervento di Kofi Annan si merita
solo una spalletta (grande quasi quanto l’ennesima
poco esaltante vignetta di Forattini), Enzo Bettiza
nell’editoriale «Comincia l’atto finale»
suona la tromba di Bush, descrivendo l’inutilità
dell’Onu e prevedendo l’inizio di una nuova
era per l’Iraq, cattivo profeta.
Ma la virata de La Stampa verso la destra berlusconiana
è riassumibile con l’editoriale con cui
il 6 febbraio Pier Luigi Battista accoglie lo scetticismo
dei molti nei confronti delle presunte prove della colpevolezza
di Saddam Hussein mostrate al Palazzo di Vetro da Colin
Powell, il cui show (di cui lo stesso Powell si sarebbe
pentito) viene definito «una lezione di democrazia,
tra gli annoiati cori degli scettici». Però
gli scettici avevano ragione, e La Stampa credette
a quella che non era certo una «lezione di democrazia»,
ma semplice propaganda.
(continua...)
Le puntate precedenti:
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la prima parte
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la seconda parte
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