È
in libreria Giornali e tv negli anni di Berlusconi
(a cura di G. Bosetti e M. Buonocore, con interventi
di Luca Cordero di Montezemolo, Dario Di Vico, Ezio
Mauro, Daniele Castellani Perelli, Marsilio –
i libri di Reset, 2005).
Tutto quello che c’è da sapere, con dati
e confronti europei e mondiali, sulla anomalia italiana
televisiva, sullo sbilanciamento economico, politico,
culturale tra stampa e video e sulle conseguenze che
tutto questa ha sulla opinione pubblica, costretta a
una dieta catodica unica al mondo.
Tra Mediaset e Rai un duopolio-monopolio che drena denaro
e ha portato la quota della pubblicità televisiva
a una inaudita percentuale record del 57%. Come si sono
difesi i maggiori giornali nel decennio berlusconiano?
Proponiamo, a puntate, su Caffè Europa l’analisi,
svolta da Daniele Castellani Perelli, su come i tre
maggiori quotidiani italiani hanno parlato di Silvio
Berlusconi negli ultimi dieci anni, un confronto delle
prime pagine attraverso undici episodi emblematici della
recente vita politica italiana.
«I giornali? Li leggete solo voi»
Alla presentazione del libro di Bruno Vespa, il 10 dicembre
del 2003, qualcosa andò storto. Tutto era pronto
per il tradizionale show, e la star indiscussa sarebbe
stata, anche quest’anno, Silvio Berlusconi. Accanto
al dominus della politica italiana e al dominus
della politica-italiana-in-tv erano stati fatti accomodare
Marcello Sorgi (La Stampa) e Paolo Gambescia
(Il Messaggero), due direttori moderati e beneducati
quanto basta per fingere che potessero rappresentare,
in quell’occasione, una sorta di «contropotere»
nei confronti dell’agguerrito e collaudato duo
(lo stesso già esibitosi ne «la firma del
contratto con gli italiani»). La politica ridotta
alla chiacchiera. C’erano tutti gli ingredienti
per la solita cerimonia: l’annuale, gioiosa e
reciproca celebrazione dei due potenti, alla faccia
del giornalismo anglosassone e di quel noioso particolare
che è il conflitto d’interessi (per inciso
il premier Berlusconi, tramite la Mondatori, è
editore dei libri di Vespa, principale giornalista politico
del servizio pubblico televisivo).
Inattesa, però, a causa dell’indisciplinatezza
di qualche cronista presente in sala, nacque una strana
cosa. Un dibattito. Silvio Berlusconi venne provocato
sul tema della legge Gasparri, da pochi giorni approvata
in Senato, e il discorso cadde sui giornali e sullo
stato dell’informazione in Italia. Il premier,
infastidito per l’interruzione della celebrazione,
cadde nella provocazione. Il tema della stampa è
uno di quelli che lo manda su tutte le furie, perché
il premier, come molti potenti, è un uomo che
non sopporta i contropoteri. I contropoteri di Silvio
Berlusconi (i cattivi) sono quattro: la magistratura
e la stampa (sia italiane sia straniere), le opposizioni
politico-sindacali e le Istituzioni a lui gerarchicamente
superiori (l’«Europa» e la Presidenza
della Repubblica). Non che Berlusconi sia malvagio,
anzi: viene il sospetto che a dettare la sua rabbia,
quando parla liberamente dei «contropoteri»,
sia una clamorosa debolezza. Viene il sospetto che quello
che Berlusconi proprio non riesce a tollerare è
che qualcuno non lo ami. Quando l’Economist
lo raffigura nei panni di Napoleone, un magistrato lo
indaga o qualche leader europeo si fa beffe di lui,
quando un Ferruccio de Bortoli osa contraddirlo, Silvio
Berlusconi allora diventa cattivo e bolla i suoi avversari
come «l’internazionale giacobina»,
«l’Odio» («C’è
il vento dell’odio giacobino, di un odio quasi
ideologico, e ci sono le piazze che urlano, inveiscono
e diffamano. Ma la maggioranza dei cittadini sa distinguere
tra ciò che è odio e ciò che è
amore e preferisce l’amore», dichiarò
il 2 marzo 2002 poche ore dopo una manifestazione dell’opposizione
a piazza San Giovanni). Irritato con un liberale come
Ferruccio De Bortoli, in occasione di una visita ai
terremotati del Molise il Cavaliere si rivolge a Cesare
Romiti chiedendogli di «salutargli il suo direttore
del Manifesto». A volte invece si difende
trincerandosi dietro il vittimismo o esaltandosi come
«il più grande politico d’Europa»
(«La mia bravura è fuori discussione, la
mia sostanza umana, la mia storia, gli altri se la sognano»,
replicò il 7 marzo 2001 agli attacchi della stampa
straniera, «Sono un uomo di fronte al quale nessuno,
sulla scena europea e mondiale, visto che ho anche coordinato
un G7-G8, può pretendere di confrontarsi per
storia personale e capacità. Quando incontro
un ministro, un primo ministro, un capo dello Stato
sono loro che devono cercare di essere più bravi
di me»).
«Il 70 per cento degli articoli che scrivete»,
disse irritato il premier ai giornalisti, il giorno
della presentazione del libro di Vespa, «li leggete
solo voi, e il vostro direttore». «Nessuna
massaia legge i giornali», ironizzò caustico.
E improvvisò quello che chiameremo «il
discorso della massaia».
Il discorso della massaia
Il ragionamento che il premier tenne quel 10 dicembre
del 2003 venne archiviato come l’ennesima boutade
berlusconiana, ma conteneva al contrario degli spunti
interessantissimi, se non addirittura delle verità
sparse qua e là. Punto uno: «I giornali
sono destinati a un’élite. In Italia se
ne vendono 4 milioni e ottocentomila copie, al netto
di quelli sportivi».
Punto due: «In Italia c’è un regime,
sì, cari direttori: i dittatori siete voi».
Punto tre: «Il futuro è digitale, i giornali
hanno fatto il loro tempo. Le vostre battaglie sembrano
quelle dei costruttori di carrozze che volevano impedire
la diffusione delle auto. Non potete fermare il progresso.
Non so indicarvi io la soluzione, ma quando ci sono
prodotti che diventano obsoleti bisogna prendere altre
strade». Poi, stoccata antropologica finale, l’Uomo
del fare che bacchetta quei fannulloni dei giornalisti,
così raccontata da Concita de Gregorio su Repubblica:
«Qui dentro il tempio di Adriano, non una saletta
qualunque, ci sono meno ministri del solito, quest’anno,
ad officiare il rito Berlusconi-Vespa. Si vede che avevano
da fare, “mica come voi - ride il premier - pubblico
di sfaccendati, ma come fate a essere qui alle quattro
del pomeriggio?”. Vespa: “E’ il richiamo
del grande seduttore, presidente”. Che domande».
Dietro l’apparente disinvoltura, non si faticava
a scorgere un forte fastidio. L’arroganza di facciata
con cui Berlusconi apostrofò i giornalisti nascondeva
la rabbia mal repressa di chi vorrebbe essere amato
da tutti e non capisce la natura di tanto astio nei
suoi confronti. Di chi constata che, nella sua fantastica
e decennale traversata verso il potere, non è
riuscito a convincere l’establishment, a portare
dalla sua parte quella élite che ai suoi occhi
è rappresentata dai giornali (sia nella sua componente
intellettuale, sia in quella della proprietà).
Quella élite che è spesso scesa a compromessi
con lui (da Agnelli a Tronchetti Provera), ma che lo
ha sempre guardato come un diverso e che si sentirebbe
più a suo agio se non lo avesse più tra
i piedi. L’élite colta, di buone letture,
dal bon ton istituzionale formale e culturale, di cui
il Cavaliere non farà mai parte.
E allora questa, in fondo, è la storia di un
diverso.
Noi siamo andati a vedere le tracce di questo rapporto
sulle pagine dei principali giornali italiani. Abbiamo
analizzato l’indipendenza, il grado di criticità
tenuto negli ultimi dieci anni verso la politica dai
primi tre quotidiani nazionali, ovvero Corriere
della Sera, la Repubblica e La Stampa. Abbiamo
studiato soprattutto l’atteggiamento verso Silvio
Berlusconi, perché è l’uomo più
potente del Paese ed è anche, attualmente, colui
che controlla in modo diretto e indiretto la televisione
italiana, con grande scandalo degli osservatori internazionali.
E lo abbiamo fatto anche perché la teoria secondo
cui in Italia ci sarebbe un regime spesso postula che
«nel nostro Paese Berlusconi si è comprato
anche la stampa». Ecco, se qualcosa la nostra
analisi ha dimostrato, è proprio il contrario:
i principali giornali italiani, nell’ultimo decennio,
hanno per lo più mostrato indipendenza, forte
criticità e anche un certo fastidio verso Silvio
Berlusconi, persino quando era all’opposizione.
I valori comuni della stampa e la diversità
del Cavaliere
Il nostro lavoro è consistito nell’individuare
dodici date fondamentali della storia italiana dell’ultimo
decennio, dal «proclama dell’ipermercato»
del novembre 1993 (quando il Cavaliere, prendendo posizione
per Fini nel ballottaggio alle comunali di Roma, anticipa
la propria «discesa in campo») all’approvazione
della Legge Gasparri. Abbiamo esaminato le relative
prime pagine di quelli che, per numero di lettori e/o
per tradizione, sono accreditati come i primi tre quotidiani
italiani e abbiamo preso in considerazione gli editoriali,
i commenti, le aperture, lo spazio della notizia nella
pagina, i titoli, gli occhielli e i sommari, le foto
e le vignette relative (inoltre siamo sempre andati
a verificare questi dati nei giorni precedenti o successivi
a quello della notizia).
Da questa prevalente indipendenza della maggiore stampa
possiamo far discendere due osservazioni:
- che Berlusconi è stato percepito come estraneo
all’élite politico-culturale, all’establishment
tradizionale del Paese. Berlusconi, che è l’Uomo
della Tv commerciale, si è posto in rottura con
i valori della classe dirigente italiana degli ultimi
60 anni, che la principale stampa italiana ancora rappresenta
nella sostanza.
- che sono stati questi valori comuni fondamentali (anche
se, come vedremo, non mancano delle eccezioni soprattutto
nella fase più recente) che hanno indotto i primi
tre giornali italiani ad avversare Berlusconi più
spesso che i suoi avversari politici. Questi valori
sono il pluralismo e l’indipendenza dei media,
il rispetto per la magistratura e la divisione dei poteri,
un profondo antifascismo, la laicità, un bipolarismo
moderato di stampo occidentale, la difesa delle Istituzioni
e la rinuncia agli scontri istituzionali, l’europeismo
e il sostegno alle Nazioni Unite, il rifiuto del conflitto
d’interessi.
Sono i valori della Costituzione italiana (e anche
di quella europea), che il presidente della Repubblica
Carlo Azeglio Ciampi difende da sempre. I valori costituzionali
dei partiti della Prima Repubblica, ma aggiornati ai
tempi di un’Italia ai tempi della globalizzazione.
Rispetto a tutto ciò Berlusconi ha quasi sempre
rappresentato qualcosa di diverso, eppure sempre molto
ben radicato nel popolo italiano, che non a caso l’ha
voluto a Palazzo Chigi, in dieci anni, due volte su
tre. E’ come se la stampa rappresentasse un’élite
più o meno ampia, e Berlusconi rappresentasse
una certa Italia profonda, viscerale. La stampa italiana,
dove la formula omnibus prova a fare il lavoro che negli
altri paesi è svolto dai quotidiani popolari
e da quelli d’élite, non riesce ad attirare
i non-scolarizzati. Berlusconi, da parte sua, non riesce
ad attirare l’élite culturale e neanche
quella economico-finanziaria, i cosiddetti «Poteri
forti», che lo hanno sempre considerato un parvenu,
uno con cui, al massimo, arrivare a compromesso per
interesse reciproco e per quieto vivere. Certo questi
valori vengono vissuti con intensità diverse
dalle tre testate, ed esistono anche delle eccezioni,
visto che alcuni editorialisti del Corriere della
Sera hanno spesso mostrato una sensibilità
non perfettamente riconducibile a questi valori comuni
(Ernesto Galli della Loggia, Angelo Panebianco e Piero
Ostellino su temi come la magistratura, la laicità,
l’Europa), la Repubblica in qualche occasione
è sembrata radicalizzare questi valori, mentre
La Stampa che ha tenuto una linea non dissimile
per la maggior parte del decennio esaminato, nell’ultima
fase (a partire dal 2002) ha mutato linea di condotta
senza esplicitarlo e lasciandoci sedurre dalle sirene
berlusconiane.
In questi dieci anni la battaglia c’è
stata: da una parte Berlusconi, dall’altra la
principale stampa italiana. E se La Stampa
di Torino vive oggi la sua crisi d’identità
e si relega troppo frequentemente in seconda fascia
(«Talvolta – ha scritto Paolo Murialdi –
si avverte il condizionamento della crisi della Fiat»),
Corriere della Sera e Repubblica rimangono
due giornali liberi, indipendenti e sempre autorevoli.
Su tre sono ancora due i giornali che si basano su quei
valori comuni che Berlusconi non rappresenta. Due giornali
così liberi che Repubblica, vicina al
centrosinistra, non ha avuto scrupoli a denunciare lo
scandalo Telekom Serbia, nonostante si sapesse che avrebbe
potuto travolgere i principali leader dell’Ulivo.
Così liberi che l’allora direttore del
Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli,
non esitò, nel momento in cui Silvio Berlusconi
era più forte, a criticarne la politica, tanto
da rimetterci infine la poltrona. La Stampa
degli ultimi anni vale un discorso a parte. Il problema,
ovviamente, non è il fatto che il quotidiano
torinese si sia spostato a destra (così come
ha fatto il Paese). Il problema è che lo ha fatto
ambiguamente e un po’ furbescamente, e che nel
farlo ha tradito la propria tradizione, che era anche
la tradizione della classe dirigente italiana. Nonostante
la presenza di grandi commentatori come Barbara Spinelli,
Igor Man e Maurizio Molinari, ha tradito anche il prestigio
che, nei primi anni Novanta, le aveva garantito la direzione
di Ezio Mauro e la presenza costante di commentatori
come Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone. Ha
tradito, in breve, Torino e se stessa, perdendo la propria
identità e soprattutto la capacità di
incidere autorevolmente sul discorso pubblico, come
dimostra il calo dei lettori.
La riprova che in questi dieci anni sia esistita una
profonda consonanza tra le tre testate è che
diversi uomini-simbolo si sono spostati senza difficoltà
da un quotidiano all’altro. Certo difficilmente
Eugenio Scalfari scriverà mai sul Corriere,
e Panebianco e Ostellino e Galli della Loggia su Repubblica,
ma Ezio Mauro è passato dalla Stampa
a Repubblica, e nell’estate del 2004
sono persino circolate voci di una sua chiamata alla
direzione del Corriere. Paolo Mieli ha scritto
su Repubblica e ha diretto La Stampa
prima di andare alla guida del Corriere. Gianni
Riotta è passato dalla Stampa al Corriere,
Giulio Anselmi dal Corriere a Repubblica,
per non parlare di commentatori come Gad Lerner, Lucia
Annunziata, Sergio Romano o Michele Salvati, che pure
sono passati dall’una all’altra testata.
Quella che è emersa dalla nostra analisi è
generalmente una stampa affidabile, libera e indipendente.
Anche coraggiosa, che ha sempre saputo riconoscere i
meriti di chi idealmente le era più lontano politicamente,
e gli errori di chi le era più vicino. Con un
paragone sportivo, si potrebbe dire che, se ci fossero
più spettatori e più denari, queste squadre
farebbero vedere all’Italia un gran bel calcio.
L’Uomo della Tv e la democrazia liberale
La scarsa simpatia (abbondantemente ricambiata) mostrata
dalla stampa italiana per il fenomeno Berlusconi trova
una sua ragione nel fatto che il presidente di Mediaset
viene quasi da un altro universo culturale rispetto
a chi fa e produce i giornali. Se fosse un fumetto,
questo saggio si chiamerebbe «Berlusconi contro
le élites». Prendete Gianni Agnelli, Enrico
Cuccia, Cesare Romiti, Raul Gardini, Romano Prodi, Marco
Tronchetti Provera, Silvio Berlusconi e tutti i simboli
dell’establishment italiano degli ultimi
25 anni. Adesso chiedetevi: chi è l’unico
che ha «osato» legare il proprio nome alle
ballerine scosciate del Drive In?
E’ apparso chiaro da subito che la televisione
commerciale della Fininvest sapeva esprimere alla perfezione,
in sé, il messaggio politico-culturale di Silvio
Berlusconi. La sua tv era la rappresentazione del suo
programma politico. Berlusconi ha saputo creare quello
che Umberto Eco, nell’appello al voto pubblicato
su la Repubblica in occasione delle elezioni
del maggio 2001, definisce l’«Elettorato
Affascinato», ovvero «chi non ha un’opinione
politica definita, ma ha fondato il proprio sistema
di valori sull’educazione strisciante impartita
da decenni dalle televisioni». Questi elettori
leggono «pochi quotidiani e pochissimi libri»,
sono assuefatti dalla «ideologia dello Spettacolo»
e per loro, continua il professore bolognese, «valgono
ideali di benessere materiale e una visione mitica della
vita». La televisione-specchio portata in Italia
dal Cavaliere (in opposizione alla vecchia Rai gerarchica,
alla televisione-modello pedagogica) ha sicuramente
avuto un effetto liberatorio, e ha saputo sintonizzare
umanamente sulla stessa onda Berlusconi e il suo elettorato:
con una immediatezza e un’identificazione che
ai giornali riesce solo nei confronti di pochi milioni
di persone. Come ha scritto Michele Salvati, su la
Repubblica del 4 dicembre 2003, «la tv commerciale,
fin dal suo nascere, è stata antigerarchica.
Ha annullato nel volgere di pochi anni la divisione
tradizionale tra protagonisti e pubblico, fungendo da
potentissimo moltiplicatore dei modi di dire e di pensare
del nuovo ceto dei consumatori. Una specie di basic-television,
populista e impulsiva quanto il monopolio pubblico era
stato precettoso e azzimato, demagogica e impolitica
quanto la Rai lottizzata era un (discusso) simulacro
della democrazia dei partiti». «Ha perfettamente
ragione chi sostiene che la vera discesa in campo fu
di parecchio antecedente a quella finalmente politica
del ’94 – aggiungeva l’attuale commentatore
del Corriere della Sera – Quando Berlusconi
fonda un partito, la sua base è già plasmata
e orientata da palinsesti esplicitamente, allegramente
devoti alla way of life subamericana della nuova Italia
affrancata da ansie culturali e remore solidaristiche».
Per Salvati quello strappo «ha anche i suoi meriti:
l’ipocrisia cattolica e il moralismo comunista
(ah, quel Berlinguer che boccia la tv a colori?) erano
una griglia malsopportata, e anacronistica, per un paese
secolarizzato e avido di benessere». «Ma
nella volgarità formale e sostanziale dell’estetica
berlusconiana – conclude – in quell’ingordigia
vanesia e incauta, da quattrino facile, da successo
disinvolto, un pezzo di Italia ha individuato da subito,
per istinto, per carattere, un nuovo conformismo, acritico
e aggressivo, antipolitico e anticulturale».
Insomma la sua tv gli aveva già dato un programma
politico, e Berlusconi fu abile nel raccogliere i frutti
politici della semina televisiva. Ma non per questo
è riuscito mai a far dimenticare all’élite
la natura di quel suo peccato originale, di quella sua
vulgaritas, di quella sua diversità.
La lezione «omnibus» di Mauro e Mieli ha
portato la tv nei giornali degli anni Novanta, ma i
giornali, nonostante questo compromesso, hanno sempre
continuato a parlare alle teste delle persone, mentre
la tv ha sempre più parlato alle viscere. Da
una parte la razionalità e l’Illuminismo,
dall’altra il divertimento e lo Spettacolo. E’
come se Berlusconi venisse da un altro mondo, un mondo
abitato da quello che Giovanni Sartori chiama l’«homo
videns», un tipo di cittadino estraneo a quella
che il sociologo Neil Postman ha definito la typographic
mind.
E’ una semplificazione, d’accordo. Non
è che la stampa sia il Bene, e la tv il Male,
figuriamoci. La tv è capace di approfondimenti
straordinari e senza di essa la nostra vita sarebbe
più povera. Il livello medio della tv, tuttavia,
possiamo dire che non tenda certo verso il progresso
della specie umana. E’ dunque una semplificazione,
ma rende bene l’idea. Il Cavaliere ricorda sempre
compiaciuto il suggerimento che gli diede una volta
Margaret Thatcher, «non leggere mai giornali,
se non quelli che parlano bene di te», e sembra
quasi sempre in grado di sintonizzarsi sulla lunghezza
d’onda dell’italiano medio. Non gli sentiremo
mai dire, come a Gianni Agnelli, che Del Piero è
come Pinturicchio, ma, diciamoci la verità, chi
di quei signori dell’establishmnet sopra
citati sarebbe stato in grado di creare in pochi mesi
un movimento politico che raccogliesse più del
20% dei consensi? Chi di loro avrebbe saputo riconoscere
con tanta facilità e rappresentare le viscere
di questo «popolo» italiano?
(continua...)
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