282 - 27.07.05


Cerca nel sito
Cerca WWW
Il signor B. in prima pagina
(parte prima)

Daniele Castellani Perelli


È in libreria Giornali e tv negli anni di Berlusconi (a cura di G. Bosetti e M. Buonocore, con interventi di Luca Cordero di Montezemolo, Dario Di Vico, Ezio Mauro, Daniele Castellani Perelli, Marsilio – i libri di Reset, 2005).
Tutto quello che c’è da sapere, con dati e confronti europei e mondiali, sulla anomalia italiana televisiva, sullo sbilanciamento economico, politico, culturale tra stampa e video e sulle conseguenze che tutto questa ha sulla opinione pubblica, costretta a una dieta catodica unica al mondo.
Tra Mediaset e Rai un duopolio-monopolio che drena denaro e ha portato la quota della pubblicità televisiva a una inaudita percentuale record del 57%. Come si sono difesi i maggiori giornali nel decennio berlusconiano?

Proponiamo, a puntate, su Caffè Europa l’analisi, svolta da Daniele Castellani Perelli, su come i tre maggiori quotidiani italiani hanno parlato di Silvio Berlusconi negli ultimi dieci anni, un confronto delle prime pagine attraverso undici episodi emblematici della recente vita politica italiana.

«I giornali? Li leggete solo voi»
Alla presentazione del libro di Bruno Vespa, il 10 dicembre del 2003, qualcosa andò storto. Tutto era pronto per il tradizionale show, e la star indiscussa sarebbe stata, anche quest’anno, Silvio Berlusconi. Accanto al dominus della politica italiana e al dominus della politica-italiana-in-tv erano stati fatti accomodare Marcello Sorgi (La Stampa) e Paolo Gambescia (Il Messaggero), due direttori moderati e beneducati quanto basta per fingere che potessero rappresentare, in quell’occasione, una sorta di «contropotere» nei confronti dell’agguerrito e collaudato duo (lo stesso già esibitosi ne «la firma del contratto con gli italiani»). La politica ridotta alla chiacchiera. C’erano tutti gli ingredienti per la solita cerimonia: l’annuale, gioiosa e reciproca celebrazione dei due potenti, alla faccia del giornalismo anglosassone e di quel noioso particolare che è il conflitto d’interessi (per inciso il premier Berlusconi, tramite la Mondatori, è editore dei libri di Vespa, principale giornalista politico del servizio pubblico televisivo).

Inattesa, però, a causa dell’indisciplinatezza di qualche cronista presente in sala, nacque una strana cosa. Un dibattito. Silvio Berlusconi venne provocato sul tema della legge Gasparri, da pochi giorni approvata in Senato, e il discorso cadde sui giornali e sullo stato dell’informazione in Italia. Il premier, infastidito per l’interruzione della celebrazione, cadde nella provocazione. Il tema della stampa è uno di quelli che lo manda su tutte le furie, perché il premier, come molti potenti, è un uomo che non sopporta i contropoteri. I contropoteri di Silvio Berlusconi (i cattivi) sono quattro: la magistratura e la stampa (sia italiane sia straniere), le opposizioni politico-sindacali e le Istituzioni a lui gerarchicamente superiori (l’«Europa» e la Presidenza della Repubblica). Non che Berlusconi sia malvagio, anzi: viene il sospetto che a dettare la sua rabbia, quando parla liberamente dei «contropoteri», sia una clamorosa debolezza. Viene il sospetto che quello che Berlusconi proprio non riesce a tollerare è che qualcuno non lo ami. Quando l’Economist lo raffigura nei panni di Napoleone, un magistrato lo indaga o qualche leader europeo si fa beffe di lui, quando un Ferruccio de Bortoli osa contraddirlo, Silvio Berlusconi allora diventa cattivo e bolla i suoi avversari come «l’internazionale giacobina», «l’Odio» («C’è il vento dell’odio giacobino, di un odio quasi ideologico, e ci sono le piazze che urlano, inveiscono e diffamano. Ma la maggioranza dei cittadini sa distinguere tra ciò che è odio e ciò che è amore e preferisce l’amore», dichiarò il 2 marzo 2002 poche ore dopo una manifestazione dell’opposizione a piazza San Giovanni). Irritato con un liberale come Ferruccio De Bortoli, in occasione di una visita ai terremotati del Molise il Cavaliere si rivolge a Cesare Romiti chiedendogli di «salutargli il suo direttore del Manifesto». A volte invece si difende trincerandosi dietro il vittimismo o esaltandosi come «il più grande politico d’Europa» («La mia bravura è fuori discussione, la mia sostanza umana, la mia storia, gli altri se la sognano», replicò il 7 marzo 2001 agli attacchi della stampa straniera, «Sono un uomo di fronte al quale nessuno, sulla scena europea e mondiale, visto che ho anche coordinato un G7-G8, può pretendere di confrontarsi per storia personale e capacità. Quando incontro un ministro, un primo ministro, un capo dello Stato sono loro che devono cercare di essere più bravi di me»).

«Il 70 per cento degli articoli che scrivete», disse irritato il premier ai giornalisti, il giorno della presentazione del libro di Vespa, «li leggete solo voi, e il vostro direttore». «Nessuna massaia legge i giornali», ironizzò caustico. E improvvisò quello che chiameremo «il discorso della massaia».

Il discorso della massaia

Il ragionamento che il premier tenne quel 10 dicembre del 2003 venne archiviato come l’ennesima boutade berlusconiana, ma conteneva al contrario degli spunti interessantissimi, se non addirittura delle verità sparse qua e là. Punto uno: «I giornali sono destinati a un’élite. In Italia se ne vendono 4 milioni e ottocentomila copie, al netto di quelli sportivi».
Punto due: «In Italia c’è un regime, sì, cari direttori: i dittatori siete voi».
Punto tre: «Il futuro è digitale, i giornali hanno fatto il loro tempo. Le vostre battaglie sembrano quelle dei costruttori di carrozze che volevano impedire la diffusione delle auto. Non potete fermare il progresso. Non so indicarvi io la soluzione, ma quando ci sono prodotti che diventano obsoleti bisogna prendere altre strade». Poi, stoccata antropologica finale, l’Uomo del fare che bacchetta quei fannulloni dei giornalisti, così raccontata da Concita de Gregorio su Repubblica: «Qui dentro il tempio di Adriano, non una saletta qualunque, ci sono meno ministri del solito, quest’anno, ad officiare il rito Berlusconi-Vespa. Si vede che avevano da fare, “mica come voi - ride il premier - pubblico di sfaccendati, ma come fate a essere qui alle quattro del pomeriggio?”. Vespa: “E’ il richiamo del grande seduttore, presidente”. Che domande».

Dietro l’apparente disinvoltura, non si faticava a scorgere un forte fastidio. L’arroganza di facciata con cui Berlusconi apostrofò i giornalisti nascondeva la rabbia mal repressa di chi vorrebbe essere amato da tutti e non capisce la natura di tanto astio nei suoi confronti. Di chi constata che, nella sua fantastica e decennale traversata verso il potere, non è riuscito a convincere l’establishment, a portare dalla sua parte quella élite che ai suoi occhi è rappresentata dai giornali (sia nella sua componente intellettuale, sia in quella della proprietà). Quella élite che è spesso scesa a compromessi con lui (da Agnelli a Tronchetti Provera), ma che lo ha sempre guardato come un diverso e che si sentirebbe più a suo agio se non lo avesse più tra i piedi. L’élite colta, di buone letture, dal bon ton istituzionale formale e culturale, di cui il Cavaliere non farà mai parte.
E allora questa, in fondo, è la storia di un diverso.

Noi siamo andati a vedere le tracce di questo rapporto sulle pagine dei principali giornali italiani. Abbiamo analizzato l’indipendenza, il grado di criticità tenuto negli ultimi dieci anni verso la politica dai primi tre quotidiani nazionali, ovvero Corriere della Sera, la Repubblica e La Stampa. Abbiamo studiato soprattutto l’atteggiamento verso Silvio Berlusconi, perché è l’uomo più potente del Paese ed è anche, attualmente, colui che controlla in modo diretto e indiretto la televisione italiana, con grande scandalo degli osservatori internazionali. E lo abbiamo fatto anche perché la teoria secondo cui in Italia ci sarebbe un regime spesso postula che «nel nostro Paese Berlusconi si è comprato anche la stampa». Ecco, se qualcosa la nostra analisi ha dimostrato, è proprio il contrario: i principali giornali italiani, nell’ultimo decennio, hanno per lo più mostrato indipendenza, forte criticità e anche un certo fastidio verso Silvio Berlusconi, persino quando era all’opposizione.

I valori comuni della stampa e la diversità del Cavaliere

Il nostro lavoro è consistito nell’individuare dodici date fondamentali della storia italiana dell’ultimo decennio, dal «proclama dell’ipermercato» del novembre 1993 (quando il Cavaliere, prendendo posizione per Fini nel ballottaggio alle comunali di Roma, anticipa la propria «discesa in campo») all’approvazione della Legge Gasparri. Abbiamo esaminato le relative prime pagine di quelli che, per numero di lettori e/o per tradizione, sono accreditati come i primi tre quotidiani italiani e abbiamo preso in considerazione gli editoriali, i commenti, le aperture, lo spazio della notizia nella pagina, i titoli, gli occhielli e i sommari, le foto e le vignette relative (inoltre siamo sempre andati a verificare questi dati nei giorni precedenti o successivi a quello della notizia).
Da questa prevalente indipendenza della maggiore stampa possiamo far discendere due osservazioni:

- che Berlusconi è stato percepito come estraneo all’élite politico-culturale, all’establishment tradizionale del Paese. Berlusconi, che è l’Uomo della Tv commerciale, si è posto in rottura con i valori della classe dirigente italiana degli ultimi 60 anni, che la principale stampa italiana ancora rappresenta nella sostanza.
- che sono stati questi valori comuni fondamentali (anche se, come vedremo, non mancano delle eccezioni soprattutto nella fase più recente) che hanno indotto i primi tre giornali italiani ad avversare Berlusconi più spesso che i suoi avversari politici. Questi valori sono il pluralismo e l’indipendenza dei media, il rispetto per la magistratura e la divisione dei poteri, un profondo antifascismo, la laicità, un bipolarismo moderato di stampo occidentale, la difesa delle Istituzioni e la rinuncia agli scontri istituzionali, l’europeismo e il sostegno alle Nazioni Unite, il rifiuto del conflitto d’interessi.

Sono i valori della Costituzione italiana (e anche di quella europea), che il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi difende da sempre. I valori costituzionali dei partiti della Prima Repubblica, ma aggiornati ai tempi di un’Italia ai tempi della globalizzazione. Rispetto a tutto ciò Berlusconi ha quasi sempre rappresentato qualcosa di diverso, eppure sempre molto ben radicato nel popolo italiano, che non a caso l’ha voluto a Palazzo Chigi, in dieci anni, due volte su tre. E’ come se la stampa rappresentasse un’élite più o meno ampia, e Berlusconi rappresentasse una certa Italia profonda, viscerale. La stampa italiana, dove la formula omnibus prova a fare il lavoro che negli altri paesi è svolto dai quotidiani popolari e da quelli d’élite, non riesce ad attirare i non-scolarizzati. Berlusconi, da parte sua, non riesce ad attirare l’élite culturale e neanche quella economico-finanziaria, i cosiddetti «Poteri forti», che lo hanno sempre considerato un parvenu, uno con cui, al massimo, arrivare a compromesso per interesse reciproco e per quieto vivere. Certo questi valori vengono vissuti con intensità diverse dalle tre testate, ed esistono anche delle eccezioni, visto che alcuni editorialisti del Corriere della Sera hanno spesso mostrato una sensibilità non perfettamente riconducibile a questi valori comuni (Ernesto Galli della Loggia, Angelo Panebianco e Piero Ostellino su temi come la magistratura, la laicità, l’Europa), la Repubblica in qualche occasione è sembrata radicalizzare questi valori, mentre La Stampa che ha tenuto una linea non dissimile per la maggior parte del decennio esaminato, nell’ultima fase (a partire dal 2002) ha mutato linea di condotta senza esplicitarlo e lasciandoci sedurre dalle sirene berlusconiane.

In questi dieci anni la battaglia c’è stata: da una parte Berlusconi, dall’altra la principale stampa italiana. E se La Stampa di Torino vive oggi la sua crisi d’identità e si relega troppo frequentemente in seconda fascia («Talvolta – ha scritto Paolo Murialdi – si avverte il condizionamento della crisi della Fiat»), Corriere della Sera e Repubblica rimangono due giornali liberi, indipendenti e sempre autorevoli. Su tre sono ancora due i giornali che si basano su quei valori comuni che Berlusconi non rappresenta. Due giornali così liberi che Repubblica, vicina al centrosinistra, non ha avuto scrupoli a denunciare lo scandalo Telekom Serbia, nonostante si sapesse che avrebbe potuto travolgere i principali leader dell’Ulivo. Così liberi che l’allora direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, non esitò, nel momento in cui Silvio Berlusconi era più forte, a criticarne la politica, tanto da rimetterci infine la poltrona. La Stampa degli ultimi anni vale un discorso a parte. Il problema, ovviamente, non è il fatto che il quotidiano torinese si sia spostato a destra (così come ha fatto il Paese). Il problema è che lo ha fatto ambiguamente e un po’ furbescamente, e che nel farlo ha tradito la propria tradizione, che era anche la tradizione della classe dirigente italiana. Nonostante la presenza di grandi commentatori come Barbara Spinelli, Igor Man e Maurizio Molinari, ha tradito anche il prestigio che, nei primi anni Novanta, le aveva garantito la direzione di Ezio Mauro e la presenza costante di commentatori come Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone. Ha tradito, in breve, Torino e se stessa, perdendo la propria identità e soprattutto la capacità di incidere autorevolmente sul discorso pubblico, come dimostra il calo dei lettori.

La riprova che in questi dieci anni sia esistita una profonda consonanza tra le tre testate è che diversi uomini-simbolo si sono spostati senza difficoltà da un quotidiano all’altro. Certo difficilmente Eugenio Scalfari scriverà mai sul Corriere, e Panebianco e Ostellino e Galli della Loggia su Repubblica, ma Ezio Mauro è passato dalla Stampa a Repubblica, e nell’estate del 2004 sono persino circolate voci di una sua chiamata alla direzione del Corriere. Paolo Mieli ha scritto su Repubblica e ha diretto La Stampa prima di andare alla guida del Corriere. Gianni Riotta è passato dalla Stampa al Corriere, Giulio Anselmi dal Corriere a Repubblica, per non parlare di commentatori come Gad Lerner, Lucia Annunziata, Sergio Romano o Michele Salvati, che pure sono passati dall’una all’altra testata.

Quella che è emersa dalla nostra analisi è generalmente una stampa affidabile, libera e indipendente. Anche coraggiosa, che ha sempre saputo riconoscere i meriti di chi idealmente le era più lontano politicamente, e gli errori di chi le era più vicino. Con un paragone sportivo, si potrebbe dire che, se ci fossero più spettatori e più denari, queste squadre farebbero vedere all’Italia un gran bel calcio.

L’Uomo della Tv e la democrazia liberale

La scarsa simpatia (abbondantemente ricambiata) mostrata dalla stampa italiana per il fenomeno Berlusconi trova una sua ragione nel fatto che il presidente di Mediaset viene quasi da un altro universo culturale rispetto a chi fa e produce i giornali. Se fosse un fumetto, questo saggio si chiamerebbe «Berlusconi contro le élites». Prendete Gianni Agnelli, Enrico Cuccia, Cesare Romiti, Raul Gardini, Romano Prodi, Marco Tronchetti Provera, Silvio Berlusconi e tutti i simboli dell’establishment italiano degli ultimi 25 anni. Adesso chiedetevi: chi è l’unico che ha «osato» legare il proprio nome alle ballerine scosciate del Drive In?

E’ apparso chiaro da subito che la televisione commerciale della Fininvest sapeva esprimere alla perfezione, in sé, il messaggio politico-culturale di Silvio Berlusconi. La sua tv era la rappresentazione del suo programma politico. Berlusconi ha saputo creare quello che Umberto Eco, nell’appello al voto pubblicato su la Repubblica in occasione delle elezioni del maggio 2001, definisce l’«Elettorato Affascinato», ovvero «chi non ha un’opinione politica definita, ma ha fondato il proprio sistema di valori sull’educazione strisciante impartita da decenni dalle televisioni». Questi elettori leggono «pochi quotidiani e pochissimi libri», sono assuefatti dalla «ideologia dello Spettacolo» e per loro, continua il professore bolognese, «valgono ideali di benessere materiale e una visione mitica della vita». La televisione-specchio portata in Italia dal Cavaliere (in opposizione alla vecchia Rai gerarchica, alla televisione-modello pedagogica) ha sicuramente avuto un effetto liberatorio, e ha saputo sintonizzare umanamente sulla stessa onda Berlusconi e il suo elettorato: con una immediatezza e un’identificazione che ai giornali riesce solo nei confronti di pochi milioni di persone. Come ha scritto Michele Salvati, su la Repubblica del 4 dicembre 2003, «la tv commerciale, fin dal suo nascere, è stata antigerarchica. Ha annullato nel volgere di pochi anni la divisione tradizionale tra protagonisti e pubblico, fungendo da potentissimo moltiplicatore dei modi di dire e di pensare del nuovo ceto dei consumatori. Una specie di basic-television, populista e impulsiva quanto il monopolio pubblico era stato precettoso e azzimato, demagogica e impolitica quanto la Rai lottizzata era un (discusso) simulacro della democrazia dei partiti». «Ha perfettamente ragione chi sostiene che la vera discesa in campo fu di parecchio antecedente a quella finalmente politica del ’94 – aggiungeva l’attuale commentatore del Corriere della Sera – Quando Berlusconi fonda un partito, la sua base è già plasmata e orientata da palinsesti esplicitamente, allegramente devoti alla way of life subamericana della nuova Italia affrancata da ansie culturali e remore solidaristiche».

Per Salvati quello strappo «ha anche i suoi meriti: l’ipocrisia cattolica e il moralismo comunista (ah, quel Berlinguer che boccia la tv a colori?) erano una griglia malsopportata, e anacronistica, per un paese secolarizzato e avido di benessere». «Ma nella volgarità formale e sostanziale dell’estetica berlusconiana – conclude – in quell’ingordigia vanesia e incauta, da quattrino facile, da successo disinvolto, un pezzo di Italia ha individuato da subito, per istinto, per carattere, un nuovo conformismo, acritico e aggressivo, antipolitico e anticulturale».

Insomma la sua tv gli aveva già dato un programma politico, e Berlusconi fu abile nel raccogliere i frutti politici della semina televisiva. Ma non per questo è riuscito mai a far dimenticare all’élite la natura di quel suo peccato originale, di quella sua vulgaritas, di quella sua diversità. La lezione «omnibus» di Mauro e Mieli ha portato la tv nei giornali degli anni Novanta, ma i giornali, nonostante questo compromesso, hanno sempre continuato a parlare alle teste delle persone, mentre la tv ha sempre più parlato alle viscere. Da una parte la razionalità e l’Illuminismo, dall’altra il divertimento e lo Spettacolo. E’ come se Berlusconi venisse da un altro mondo, un mondo abitato da quello che Giovanni Sartori chiama l’«homo videns», un tipo di cittadino estraneo a quella che il sociologo Neil Postman ha definito la typographic mind.

E’ una semplificazione, d’accordo. Non è che la stampa sia il Bene, e la tv il Male, figuriamoci. La tv è capace di approfondimenti straordinari e senza di essa la nostra vita sarebbe più povera. Il livello medio della tv, tuttavia, possiamo dire che non tenda certo verso il progresso della specie umana. E’ dunque una semplificazione, ma rende bene l’idea. Il Cavaliere ricorda sempre compiaciuto il suggerimento che gli diede una volta Margaret Thatcher, «non leggere mai giornali, se non quelli che parlano bene di te», e sembra quasi sempre in grado di sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda dell’italiano medio. Non gli sentiremo mai dire, come a Gianni Agnelli, che Del Piero è come Pinturicchio, ma, diciamoci la verità, chi di quei signori dell’establishmnet sopra citati sarebbe stato in grado di creare in pochi mesi un movimento politico che raccogliesse più del 20% dei consensi? Chi di loro avrebbe saputo riconoscere con tanta facilità e rappresentare le viscere di questo «popolo» italiano?
(continua...)

 

 

 

Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it