È
in libreria Giornali e tv negli anni di Berlusconi
(a cura di G. Bosetti e M. Buonocore, con interventi
di Luca Cordero di Montezemolo, Dario Di Vico, Ezio
Mauro, Daniele Castellani Perelli, Marsilio –
i libri di Reset, 2005).
Tutto quello che c’è da sapere, con dati
e confronti europei e mondiali, sulla anomalia italiana
televisiva, sullo sbilanciamento economico, politico,
culturale tra stampa e video e sulle conseguenze che
tutto questa ha sulla opinione pubblica, costretta a
una dieta catodica unica al mondo.
Tra Mediaset e Rai un duopolio-monopolio che drena denaro
e ha portato la quota della pubblicità televisiva
a una inaudita percentuale record del 57%. Come si sono
difesi i maggiori giornali nel decennio berlusconiano?
Proponiamo, a puntate, su Caffè Europa l’analisi,
svolta da Daniele Castellani Perelli, su come i tre
maggiori quotidiani italiani hanno parlato di Silvio
Berlusconi negli ultimi dieci anni, un confronto delle
prime pagine attraverso undici episodi emblematici della
recente vita politica italiana.
Leggi
la prima parte
24 novembre 1993
Il Proclama dell’ipermercato
(«Lasci perdere, Cavaliere»)
Questa storia ha inizio in un ipermercato di Casalecchio
di Reno, in provincia di Bologna. E’ il 23 novembre
del 1993, e la tempesta di Mani Pulite ha spazzato via
la «Prima Repubblica». Alle amministrative
ha appena trionfato la sinistra, forte di candidati
provenienti dalla società civile (Sansa a Genova,
Cacciari a Venezia, Illy a Trieste) e di politici dal
volto nuovo (Rutelli a Roma, Orlando a Palermo, Bassolino
a Napoli). Tra qualche mese ci saranno le prime elezioni
politiche della «Seconda Repubblica», e
Occhetto è sicuro che le vincerà: The
Times scrive che il suo successo è «un
fatto veramente rassicurante, anche dal punto di vista
delle prospettive economiche», mentre The
Indipendent ne loda «la competenza e l’onestà».
Insomma l’uomo della svolta della Bolognina ha
la vittoria in tasca in vista delle elezioni del marzo
1994, tanto che persino per Don Baget Bozzo «il
programma del Pds ci dice che abbiamo, dopo il crollo
del Psi, una possibilità socialdemocratica in
Italia». Gli uomini più potenti di questa
piccola Italia di santi e di mariuoli si contano sulle
dita di una mano. Uno di questi è certamente
un bizzarro imprenditore delle tv commerciali, un Citizen
Kane con un sorriso da «Mulino bianco»,
la fama di simpatico e di furbetto. Silvio Berlusconi
ha scalato più o meno da solo la montagna del
potere, realizzando un american dream che la
penisola tutta gli invidia, e ora ha il sogno (o la
necessità, a seconda dei punti di vista) di ripetere
in politica il suo miracolo. A Casalecchio, mentre inaugura
un ipermercato, gli chiedono un giudizio sul prossimo
ballottaggio delle comunali di Roma, che mette di fronte
il verde Francesco Rutelli al missino Gianfranco Fini:
«Se fossi a Roma non avrei un secondo di esitazione
– risponde secco – Sceglierei Fini, perché
è l’esponente che rappresenta quelle forze
moderate a cui mi sono richiamato fino ad ora».
Il Pds ironizza: forse Berlusconi ha scambiato il Fini
postfascista con quello dei tortellini. La replica del
Cavaliere è già tutto un programma elettorale:
«Queste sono reazioni dei vecchi protagonisti
della politica che non capiscono il nuovo, ciò
che vuole la gente». E’ l’inizio della
lunga marcia, per nulla silenziosa, che lo porterà
a Palazzo Chigi. La grande avventura del Cavaliere è
appena cominciata.
I tre principali giornali italiani, Corriere della
Sera, la Repubblica e La Stampa, reagiscono criticamente
alle parole del presidente della Fininvest. Sebbene
l’impero di Berlusconi si estenda anche ai quotidiani,
il mondo della carta stampata lo guarda con un certo
scetticismo. Se i giornali inseguono analisi, discussione
e una certa severità di costumi, le sue televisioni
comunicano tutt’altro: spensieratezza, nani e
ballerine. L’occasione dell’annuncio di
quella primissima «discesa in campo» –
come da subito viene etichettata – è legata
peraltro a un partito, come l’Msi, che è
ancora considerato neo-fascista. L’impressione
di trovarsi di fronte ad un uomo che rappresenta la
«barbarie» televisiva e che appoggia una
destra impresentabile giustifica lo stupore ed il sospetto
dei tre grandi giornali. Inizialmente lo scetticismo
è destinato a farsi anche aspra polemica. Solo
con l’avvicinarsi delle elezioni di marzo ci sarà
un’inevitabile normalizzazione, una sorta di legittimazione.
Il 24 novembre, sul Corriere della Sera, l’editoriale
di Paolo Franchi, dal titolo «Il passo falso del
Cavaliere», contesta decisamente l’appoggio
a Fini. Nelle argomentazioni di Franchi sono presenti
gli stessi due problemi che vedremo sollevati dagli
altri due quotidiani, a conferma di una sostanziale
uniformità di vedute delle tre testate: il conflitto
d’interessi (che ancora non viene chiamato così)
e un forte antifascismo, o meglio il disappunto per
quello che viene percepito come un tentativo di rivalutazione
del fascismo attraverso la legittimazione del partito
di Fini. Franchi, pur auspicando l’arrivo di «protagonisti
veri e nuovi» nella politica italiana, ricorda
come Berlusconi sia «un imprenditore del tutto
particolare», ed afferma di non credere alla sua
promessa di essere un editore del tutto imparziale.
Ma per Franchi l’intera operazione politica è
da bocciare, perché intende rifondare il centro
partendo da quel Gianfranco Fini che Berlusconi ha definito,
precisa Franchi, «nientemeno che un esponente
a pieno titolo» dell’area moderata. Il commentatore
del Corriere non ha in simpatia il Cavaliere,
e non gli prevede grandi successi politici, visto che,
già prima di questo annuncio, «l’ipotesi
del “partito di Berlusconi” non sembrava
troppo convincente». Ora però il sostegno
a Fini, secondo Franchi, non farà che contribuire
«a quella radicalizzazione estrema dello scontro
di cui i liberal democratici di centro, di destra e
di sinistra sarebbero le vittime predestinate».
A via Solferino prevale una certa sottovalutazione del
progetto berlusconiano, che viene raccontato con un
misto di folklorismo, di preoccupazione e di profondo
scetticismo sulle reali possibilità di successo.
Sull’avanzata dell’Msi alle amministrative
di Roma e Napoli del 21 novembre sono emblematici i
giudizi di Leo Valiani e di Paolo Mieli. Valiani, il
23, invita a «non giocare con la fiamma»,
mentre Mieli, la domenica delle elezioni, aveva esplicitamente
indicato che il Pds era sì un partito dai ritardi
e dalle ambiguità enormi, ma «cento volte
meno evidenti» rispetto a quelle degli altri partiti.
L’allora direttore del Corriere lodava
il Pds per aver «saputo mettere in campo schieramenti
dove c’è sì ancora molto radicalismo
ma c’è anche un’attenzione alla sinistra
moderata e persino a fette di elettorato liberale e
riformatore che, in assenza di alternative, saranno
inevitabilmente risucchiate nella sua orbita».
In Mieli peraltro, come vedremo anche ne La Stampa
di Ezio Mauro e Norberto Bobbio, è esplicita
la speranza di un bipolarismo moderato, di una «tranquilla
democrazia di tipo occidentale dove progressisti e conservatori
si confrontano civilmente pronti a darsi il cambio ad
ogni tornata elettorale». Decisamente contrario
all’idea che Berlusconi scenda in campo è
anche Angelo Panebianco, che il 9 dicembre, in un editoriale
dal significativo titolo «Lasci perdere, Cavaliere»,
segnala come l’attivismo di Silvio Berlusconi
«sta procurando molti più danni che vantaggi
alla causa del (potenziale) schieramento liberaldemocratico»,
e questo perché Lega Nord e Msi sono incompatibili
e perché, come il Pds non dovrebbe dare spazio
a Rifondazione comunista, così «uno schieramento
alternativo alle sinistre che desse spazio a un partito
“lepenista” come l’Msi commetterebbe
un errore altrettanto clamoroso».
In quel periodo La Stampa aveva invece appena
aperto una discussione sulla definizione di «conservatore»
e «progressista», con l’intenzione
di incoraggiare un bipolarismo moderato. E’ proprio
l’insoddisfazione dei risultati delle amministrative,
la paura della mezza svolta a destra sull’onda
del buon risultato della Mussolini a Napoli e di Fini
a Roma (che per il commentatore Marcello Sorgi «non
prepara certo né un thatcherismo né un
reaganismo all’italiana») e l’apertura
di questa chiara discussione sul bipolarismo a indurre
La Stampa a un atteggiamento non pregiudiziale
nei confronti di Silvio Berlusconi. Anzi, è proprio
il quotidiano diretto da Mauro a dare voce al Cavaliere
lo stesso 23 novembre, il giorno prima della diffusione
della notizia del «proclama dell’ipermercato»,
con un’intervista in cui il presidente della Fininvest
spiega che «sono morti i partiti, ma non il Centro»,
e annuncia: «Scendo in campo io per farlo rinascere».
La Stampa mostra anch’essa scetticismo
nei confronti del personaggio e dell’alleanza
che questi sembra intenzionato a comporre, ma accoglie
il suo arrivo senza troppo scandalo, anzi quasi «sondando»
Berlusconi come possibile protagonista di quella nuova
destra moderata di cui La Stampa si augura
profondamente la nascita. Lo prova che quello stesso
giorno in prima pagina siano annunciate due interviste,
al vice di Occhetto Massimo D’Alema e a Berlusconi
stesso, accostati con foto e richiamo speculari, quasi
ad ipotizzarli, con lodevole preveggenza, come protagonisti
dei due campi di un futuro sistema bipolare. Il 24 novembre
l’annuncio di Berlusconi non trova poi il titolo
dell’apertura (come accade invece sul Corriere
e su Repubblica), ma solo una citazione, molto
sobria e descrittiva, nel sommario («Annuncio
choc di Berlusconi: a Roma voterei per Fini»).
Il quotidiano allora diretto da Ezio Mauro si mostra
lucido e, pur scettico, aperto ad una analisi senza
pregiudizi. I commenti del 24 e del 25 novembre lo confermano.
Sergio Romano fa per l’occasione il ritratto di
quello che per lui, in opposizione a Berlusconi, è
«Il buon conservatore». Alessandro Galante
Garrone, sotto un titolo sobrio ma deciso («Un
grave errore»), è altrettanto calmo e fermo:
«Silvio Berlusconi ha annunciato che se abitasse
a Roma non avrebbe dubbi: voterebbe Gianfranco Fini.
Credo che si tratti di un gravissimo errore».
Il giorno dopo viene pubblicata una lettera che Berlusconi
ha inviato al giornale in risposta a Galante Garrone,
in cui si autodefinisce «uomo della televisione»
e quindi «per essenza, uomo della democrazia»,
chiede di non considerare Fini un fascista perché
afferma che non si sognerebbe mai di «chiamare
Occhetto stalinista», e infine accusa Galante
Garrone di «moralismo», «l’arma
degli ipocriti». L’ex partigiano azionista
replica che «di solito l’accusa di moralismo,
chi sa perché, proviene da coloro che certamente,
per la loro natura e attività, non mettono i
valori morali al di sopra di ogni qualità»,
e si difende dall’accusa di applicare due pesi
e due misure a Pds e Msi, ricordando che l’anno
prima, «il 28 ottobre, in piazza Venezia a Roma,
le camicie nere inneggiavano al duce grande e “immortale”».
Dunque La Stampa si mostra ostile alla discesa
in campo di Berlusconi per gli stessi motivi degli altri
due giornali, cioè la pregiudiziale antifascista
antimissina e la preoccupazione che lo strapotere mediatico
del presidente della Fininvest alteri la democrazia.
Sergio Romano, il 25, nutre anche dubbi sui veri motivi
dell’impegno politico di Berlusconi: «Non
so se scenda in campo per “spirito di servizio”
o per difendere quell’”impero dell’informazione”
che ha costruito con molta tenacia negli ultimi vent’anni».
Lo stesso giorno Lietta Tornabuoni smonta subito quello
che sarà invece l’argomento principale
della campagna elettorale di Berlusconi, il suo presunto
essere «nuovo»: «Quasi a nessuno è
venuto in mente di sottolineare quanto sia poco legittimo,
da parte di Berlusconi, presentarsi come “uomo
nuovo” della politica». Berlusconi, ricorda
la Tornabuoni, «è uno che ieri stava coi
socialisti, e oggi dice di preferire Fini: bel salto.
Uno che era iscritto nelle liste della P2».
Su la Repubblica l’annuncio di Berlusconi
è accolto con forte inquietudine, quasi con toni
apocalittici. Scompare qui la cautela e la scettica
lucidità del Corriere e de La Stampa.
Il 24 il quotidiano di Scalfari titola in tutta evidenza
«Berlusconi con Fini», e l’occhiello
e il sommario sono costruiti entrambi su espressioni
ad effetto come «(nasce) il partito della Fininvest»
e «il proclama di Sua Emittenza»: linguaggio
espressivo che, soprattutto nel primo caso, vuole censurare
l’anomalia dell’operazione. Tanto sobri
sono i titoli dei fondi de La Stampa, quanto
allarmati e densi d’immagini sono quelli che
la Repubblica affida invece a Giovanni Valentini
(«Un “Cavaliere nero” per gli orfani
del regime») e a Giorgio Bocca («Ma con
i camerati non si rifà l’Italia»).
Se Valentini parla di una «marea nera»,
Bocca rievoca il fascismo, e scrive che l’Msi
di Fini «custodisce con orgoglio le memorie della
repubblica di Salò, cioè dell’alleanza
fino alla morte con i nazisti del genocidio, coltiva
e copre il neosquadrismo». Valentini non si ferma
però all’immagine «fascista»
del duo Berlusconi-Fini, e si concentra anche su quella
del tycoon e sul problema del conflitto d’interessi:
le immagini con cui descrive il «Cavaliere Onnipresente»
sono prese soprattutto dal mondo del commercio e usate
con valore dispregiativo, come «il concessionario
esclusivo» e «il rivenditore autorizzato».
Lo stesso progetto dei «Club Forza Italia»
viene definito «un progetto “chiavi in mano”,
dal produttore al consumatore». Insomma la
Repubblica attacca Berlusconi con nerbo e concentrandosi
su entrambe le «colpe», quella «neofascista»
e quella «mediatica». Negli articoli del
24 e del 25 tornano esplicitamente entrambi i temi:
così la cronaca dell’annuncio di Casalecchio
ha il maligno titolo «A chi l’Italia? A
noi…» (mentre la Stampa titola
neutra «Berlusconi: non ho dubbi, voterei per
Fini», e il Corriere fa altrettanto,
con «Berlusconi: se il paese mi chiama…»),
e il 25 l’intervento di Stefano Rodotà
si intitola «Se in Italia vince il partito delle
tv», che ripropone l’interrogativo esposto
da Valentini il giorno prima («E’ lecito
a un imprenditore che possiede direttamente tre reti
televisive, e altrettante ne controlla indirettamente,
partecipare in prima persona alla vita politica?»).
Sebbene i toni del quotidiano di Scalfari siano aggressivi,
le argomentazioni apocalittiche e troppo spesso l’impostazione
rischi di apparire faziosa e persino propagandistica,
quasi che si volesse attivamente ostacolare l’ingresso
in politica del presidente della Fininvest, tuttavia
è possibile rintracciare una linea comune tra
i tre giornali. Tutti e tre bocciano l’esternazione
e il progetto berlusconiano. Il Corriere parla
di «passo falso», la Stampa di
«grave errore», la Repubblica avverte
il rischio di un nuovo e moderno fascismo. Leggendo
le argomentazioni degli editoriali si ricava che i tre
principali giornali italiani, oltre a nutrire scetticismo
sul progetto e sui reali motivi dell’impegno berlusconiano,
erano uniti, nel 1993, dai valori di un antifascismo
«senza se e senza ma» e dell’indipendenza
dei media dal potere politico. La comunanza ideologica
è tale che curiosamente La Stampa, a
difesa di Galante Garrone offeso da Berlusconi, il 25
pubblica un intervento di Carlo De Benedetti, editore
di un suo concorrente.
29 marzo 1994
L’Italia ha scelto
(Il berlusconismo come
autobiografia della nazione)
Quando, quattro mesi dopo, l’outsider Berlusconi
stravince le elezioni, la stampa italiana mostra ancora
più uniformità nel raccontare la vittoria.
Repubblica assorbe lo choc, e si accoda all’atteggiamento
dei due concorrenti. Il fenomeno Berlusconi si è
ormai ampiamente diffuso nel Paese, e il quotidiano
diretto da Scalfari, persa la battaglia, si sforza ora
di analizzarlo. Fermi rimangono il dissenso e la preoccupazione,
ma scompaiono certi toni da crociata. Nell’editoriale
del 29 marzo, si legge che l’Msi «è
ormai entrato a far parte del circuito politico e che
di lui dovranno tener conto i suoi avversari ed i suoi
alleati», che «questo ha voluto la maggioranza
degli elettori e questo è accaduto». La
destra ha vinto per aver meglio interpretato l’anima
e le aspirazioni dei cittadini: «L’immagine
che la maggioranza del paese ha di sé in questa
fase della sua trasformazione concede assai poco ai
valori dei quali la sinistra è portatrice. L’immagine
è quella di un paese che vuole cavalcare il suo
individualismo senza impacci e con il minor numero di
regole possibile» (saranno le stesse identiche
parole che la Repubblica userà nel maggio
2001). Anzi, conclude l’editoriale, c’è
anche un aspetto positivo: «Almeno la situazione
uscita dalle urne ha il pregio della chiarezza. Ciascuno
dimostrerà quel che sa fare e sarà giudicato
per ciò che fa. L’epoca dei pastrocchi
è definitivamente chiusa. Questo almeno è
un risultato positivo per tutti». Berlusconi ha
conquistato in pochi mesi il Paese, e «bisogna
capire perché», scrive Scalfari il giorno
dopo.
Repubblica, prima delle elezioni, non aveva fatto mistero
delle sue simpatie politiche di sinistra moderata, né
aveva rinunciato alla polemica con Berlusconi; tuttavia
aveva abbandonato i toni apocalittici usati qualche
mese prima. Insomma, davanti alla clamorosa vittoria
della destra, la Repubblica smette di «fare
politica», e cerca invece di analizzare, capire
quel fenomeno che pochi mesi prima si era limitata troppo
spesso a demonizzare. Il 30 marzo Scalfari parla lucidamente
del «grande seduttore», e loda la capacità
del politico di aver saputo vendere un sogno e di aver
capito le vere aspirazioni dell’uomo medio italiano.
La nuova voglia di lucidità è testimoniata
dall’editoriale del 31, in cui Mario Pirani, in
«Hanno vinto gli anti-partito», accusa i
media e la sinistra di aver alimentato e cavalcato quella
«deriva giustizialistica e demagogica» che
ora porta al governo forze che rinnegano «molti
dei valori di base della nostra Costituzione, nata sul
presupposto della organizzazione partitica del consenso
democratico, solidaristica e antifascista nei contenuti»,
e che invece si fondano sui «valori dell’anti-partito
e dell’anti-politica, di un desiderio di nuovo
che faccia piazza pulita dei metodi di mediazione democratica
per cercare e identificare, invece, in un leaderismo
forte il momento demiurgico della decisione».
Nelle aperture del 29 e del 30 marzo («Ha vinto
Berlusconi. La destra con Bossi e Fini batte i Progressisti»,
«Berlusconi al governo») non c’è
traccia di quell’acredine che dominava invece
il giornale nel novembre 1993. Svaniscono gli accenni
polemici, ed è notevole che nel «catenaccio»
del titolo del 30 si riporti a grandi lettere una dichiarazione
con cui il Presidente della Repubblica Scalfaro legittima
senza esitazioni il voto, peraltro con le stesse parole
(«Scalfaro: “L’Italia ha scelto”»)
usate per l’editoriale del giorno precedente («Il
paese ha scelto»).
La posizione de La Stampa è molto
simile, sia per l’assenza di emotività
nel commentare i risultati, sia nel giudizio molto scettico
verso la nuova destra che fa capo a Berlusconi. Nelle
aperture c’è la stessa descrittività
de la Repubblica, e la sobrietà è
accentuata dalla titolazione più lunga («Vince
Berlusconi, l’Italia va a destra», «Sulla
strada di Berlusconi c’è Bossi»).
Anche qui non si nasconde che la vittoria del centrodestra
qualche conseguenza positiva ce l’avrà:
sono la maggiore chiarezza e un passo deciso verso il
bipolarismo, di cui parla Marcello Sorgi nell’editoriale
del 29 marzo. Lo scetticismo nei confronti di Berlusconi
e della sua alleanza, però, non possono sparire
di colpo. Ecco allora che, mentre la Repubblica
paradossalmente ne tace, nelle aperture del 30 marzo
sia La Stampa sia il Corriere evidenziano il grande
ostacolo che si frappone tra il vincitore e il governo:
«Sulla strada di Berlusconi c’è Bossi».
Sempre il 30, Ezio Mauro cerca di individuare i motivi
della svolta dell’elettorato, e segnala come sotto
ad una «apparenza di centro» il Cavaliere
abbia saputo immettere «una carica ideologica
di destra, più istintiva che razionale».
Berlusconi, per il direttore de La Stampa, «non
è soltanto il naturale catalizzatore degli istinti
politici di reazione alla sinistra», ma è
anche portatore dell’ideologia di una «destra
italiana di fine secolo», «ben più
che occidentale». In quest’ultimo concetto
risiede un giudizio di merito negativo, in quanto la
destra di Berlusconi si porrebbe al di fuori di quel
bipolarismo moderno e occidentale di cui La Stampa
(con il Corriere) aveva auspicato negli ultimi
mesi la nascita: «Questa destra è scarsamente
occidentale e fortemente italiana – spiega Mauro
– Non è liberaldemocratica. E’ fortemente
ideologizzata». «Tutto ciò rischia
di tradursi in un progetto “estremista”»,
conclude il direttore del quotidiano torinese, che vede
il rischio di un conseguente radicalizzarsi della sinistra
e che dimostra d’essere in perfetta sintonia con
Norberto Bobbio, che sullo stesso giornale il 20 marzo
aveva scritto di vedere nel berlusconismo «l’autobiografia
della nazione». La posizione de La Stampa,
che il giorno delle elezioni con l’editoriale
di Ezio Mauro si era augurata la vittoria del centro
o della sinistra moderata e che era stata molto critica
verso la destra berlusconiana e verso la sinistra comunista,
sembra dunque identica a quella de la Repubblica:
da un lato si legittima serenamente il risultato elettorale,
analizzandone i motivi, e dall’altro si esprime
scetticismo verso il progetto berlusconiano e preoccupazione
per la vittoria di una destra non solo divisa, ma soprattutto
«estremista», che ha avuto la meglio, come
scrive Bobbio, su «una sinistra in cui era andata
finalmente prevalendo l’ala moderata».
Il Corriere della Sera esprime nelle aperture
e nei titoli la stessa lucidità, la stessa assenza
di emotività degli altri due quotidiani («Vince
Berlusconi, sinistra sconfitta»). Forse è
un modo ostentato di mascherare quello scarto che si
registra tra le preferenze elettorali dei cittadini
e le posizioni politiche dei tre quotidiani. Se infatti
il voto degli elettori (grazie anche al maggioritario
e alle scelte poco oculate del centro e della sinistra,
incapaci di allearsi) ha premiato clamorosamente la
destra, la stampa non aveva nascosto invece una certa
antipatia verso quella parte politica, e una certa simpatia
verso il centro o la sinistra. Galli della Loggia sul
Corriere del 25 marzo aveva visto il centro
di Martinazzoli e Segni come il «luogo di mediazione»
tra «due poli infuriati», e il 27 marzo
Paolo Mieli, che in novembre aveva lodato il Pds, esprimeva
apprezzamento per «la coerenza tranquilla»
di quei due moderati destinati alla sconfitta, augurandosi
che potessero almeno «controllare e condizionare»
i vincitori. Franchi, nell’editoriale del dopo-elezioni,
scrive sbalordito che «ha preso corpo qualcosa
di assai simile a una rivoluzione»: «Inutile
girarci attorno – ammette preoccupato il commentatore
del Corriere – non era così che
pensavamo si dovesse transitare dalla notte della Prima
Repubblica all’alba della nuova». Tuttavia
il direttore Paolo Mieli, il 30 marzo, nell’editoriale
«Subito il governo» fa prevalere ancora
una volta, nel Corriere, il pragmatismo: si
rispetta l’esito delle elezioni e nonostante la
scarsa simpatia verso il Cavaliere (Panebianco, il 27
gennaio ricorda le «molte ragioni» per cui
è contrario alla discesa in campo del presidente
della Fininvest, prima fra tutte quella del conflitto
d’interessi ) si chiede che il vincitore venga
subito incaricato. Mieli però, inaugurando una
polemica che segnerà l’intero decennio
nei rapporti tra Corriere e Silvio Berlusconi,
avverte: «Vorremmo che uno dei primi passi di
questo governo fosse una risistemazione del sistema
televisivo che favorisca l’uscita dal duopolio
e si ispiri alla legislazione vigente in altri Paesi
così da non ingenerare sospetti di commistione
tra gli interessi pubblici e quelli della Fininvest».
«Dei risultati faremo un bilancio a fine partita»,
conclude Paolo Mieli, e le fondamenta del rapporto decennale
tra Corriere della Sera e Berlusconi sono gettate:
battaglia sul conflitto d’interessi e atteggiamento
critico ma non pregiudizialmente ostile.
Concordi nel pessimismo, nell’inquietudine e nell’analisi
lucida dei motivi che hanno condotto alla vittoria il
Polo delle Libertà, i tre quotidiani lo sono
anche nell’individuare l’elemento più
positivo di questi risultati elettorali: il fatto che
l’Italia abbia voltato pagina. Sarà finalmente
il bipolarismo, a prendere il posto del paludato sistema
della «Prima Repubblica». Scrive Bobbio:
«Abbiamo solo una certezza: la tanto attesa dialettica,
propria di una democrazia compiuta, fra chi è
al governo e chi è all’opposizione potrebbe
ora finalmente cominciare».
(continua...)
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|