283 - agosto 2005


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Il signor B. in
prima pagina
(parte seconda)

Daniele Castellani Perelli



È in libreria Giornali e tv negli anni di Berlusconi (a cura di G. Bosetti e M. Buonocore, con interventi di Luca Cordero di Montezemolo, Dario Di Vico, Ezio Mauro, Daniele Castellani Perelli, Marsilio – i libri di Reset, 2005).
Tutto quello che c’è da sapere, con dati e confronti europei e mondiali, sulla anomalia italiana televisiva, sullo sbilanciamento economico, politico, culturale tra stampa e video e sulle conseguenze che tutto questa ha sulla opinione pubblica, costretta a una dieta catodica unica al mondo.
Tra Mediaset e Rai un duopolio-monopolio che drena denaro e ha portato la quota della pubblicità televisiva a una inaudita percentuale record del 57%. Come si sono difesi i maggiori giornali nel decennio berlusconiano?

Proponiamo, a puntate, su Caffè Europa l’analisi, svolta da Daniele Castellani Perelli, su come i tre maggiori quotidiani italiani hanno parlato di Silvio Berlusconi negli ultimi dieci anni, un confronto delle prime pagine attraverso undici episodi emblematici della recente vita politica italiana.


Leggi la prima parte

 

24 novembre 1993
Il Proclama dell’ipermercato
(«Lasci perdere, Cavaliere»)

Questa storia ha inizio in un ipermercato di Casalecchio di Reno, in provincia di Bologna. E’ il 23 novembre del 1993, e la tempesta di Mani Pulite ha spazzato via la «Prima Repubblica». Alle amministrative ha appena trionfato la sinistra, forte di candidati provenienti dalla società civile (Sansa a Genova, Cacciari a Venezia, Illy a Trieste) e di politici dal volto nuovo (Rutelli a Roma, Orlando a Palermo, Bassolino a Napoli). Tra qualche mese ci saranno le prime elezioni politiche della «Seconda Repubblica», e Occhetto è sicuro che le vincerà: The Times scrive che il suo successo è «un fatto veramente rassicurante, anche dal punto di vista delle prospettive economiche», mentre The Indipendent ne loda «la competenza e l’onestà». Insomma l’uomo della svolta della Bolognina ha la vittoria in tasca in vista delle elezioni del marzo 1994, tanto che persino per Don Baget Bozzo «il programma del Pds ci dice che abbiamo, dopo il crollo del Psi, una possibilità socialdemocratica in Italia». Gli uomini più potenti di questa piccola Italia di santi e di mariuoli si contano sulle dita di una mano. Uno di questi è certamente un bizzarro imprenditore delle tv commerciali, un Citizen Kane con un sorriso da «Mulino bianco», la fama di simpatico e di furbetto. Silvio Berlusconi ha scalato più o meno da solo la montagna del potere, realizzando un american dream che la penisola tutta gli invidia, e ora ha il sogno (o la necessità, a seconda dei punti di vista) di ripetere in politica il suo miracolo. A Casalecchio, mentre inaugura un ipermercato, gli chiedono un giudizio sul prossimo ballottaggio delle comunali di Roma, che mette di fronte il verde Francesco Rutelli al missino Gianfranco Fini: «Se fossi a Roma non avrei un secondo di esitazione – risponde secco – Sceglierei Fini, perché è l’esponente che rappresenta quelle forze moderate a cui mi sono richiamato fino ad ora». Il Pds ironizza: forse Berlusconi ha scambiato il Fini postfascista con quello dei tortellini. La replica del Cavaliere è già tutto un programma elettorale: «Queste sono reazioni dei vecchi protagonisti della politica che non capiscono il nuovo, ciò che vuole la gente». E’ l’inizio della lunga marcia, per nulla silenziosa, che lo porterà a Palazzo Chigi. La grande avventura del Cavaliere è appena cominciata.

I tre principali giornali italiani, Corriere della Sera, la Repubblica e La Stampa, reagiscono criticamente alle parole del presidente della Fininvest. Sebbene l’impero di Berlusconi si estenda anche ai quotidiani, il mondo della carta stampata lo guarda con un certo scetticismo. Se i giornali inseguono analisi, discussione e una certa severità di costumi, le sue televisioni comunicano tutt’altro: spensieratezza, nani e ballerine. L’occasione dell’annuncio di quella primissima «discesa in campo» – come da subito viene etichettata – è legata peraltro a un partito, come l’Msi, che è ancora considerato neo-fascista. L’impressione di trovarsi di fronte ad un uomo che rappresenta la «barbarie» televisiva e che appoggia una destra impresentabile giustifica lo stupore ed il sospetto dei tre grandi giornali. Inizialmente lo scetticismo è destinato a farsi anche aspra polemica. Solo con l’avvicinarsi delle elezioni di marzo ci sarà un’inevitabile normalizzazione, una sorta di legittimazione.

Il 24 novembre, sul Corriere della Sera, l’editoriale di Paolo Franchi, dal titolo «Il passo falso del Cavaliere», contesta decisamente l’appoggio a Fini. Nelle argomentazioni di Franchi sono presenti gli stessi due problemi che vedremo sollevati dagli altri due quotidiani, a conferma di una sostanziale uniformità di vedute delle tre testate: il conflitto d’interessi (che ancora non viene chiamato così) e un forte antifascismo, o meglio il disappunto per quello che viene percepito come un tentativo di rivalutazione del fascismo attraverso la legittimazione del partito di Fini. Franchi, pur auspicando l’arrivo di «protagonisti veri e nuovi» nella politica italiana, ricorda come Berlusconi sia «un imprenditore del tutto particolare», ed afferma di non credere alla sua promessa di essere un editore del tutto imparziale. Ma per Franchi l’intera operazione politica è da bocciare, perché intende rifondare il centro partendo da quel Gianfranco Fini che Berlusconi ha definito, precisa Franchi, «nientemeno che un esponente a pieno titolo» dell’area moderata. Il commentatore del Corriere non ha in simpatia il Cavaliere, e non gli prevede grandi successi politici, visto che, già prima di questo annuncio, «l’ipotesi del “partito di Berlusconi” non sembrava troppo convincente». Ora però il sostegno a Fini, secondo Franchi, non farà che contribuire «a quella radicalizzazione estrema dello scontro di cui i liberal democratici di centro, di destra e di sinistra sarebbero le vittime predestinate». A via Solferino prevale una certa sottovalutazione del progetto berlusconiano, che viene raccontato con un misto di folklorismo, di preoccupazione e di profondo scetticismo sulle reali possibilità di successo. Sull’avanzata dell’Msi alle amministrative di Roma e Napoli del 21 novembre sono emblematici i giudizi di Leo Valiani e di Paolo Mieli. Valiani, il 23, invita a «non giocare con la fiamma», mentre Mieli, la domenica delle elezioni, aveva esplicitamente indicato che il Pds era sì un partito dai ritardi e dalle ambiguità enormi, ma «cento volte meno evidenti» rispetto a quelle degli altri partiti. L’allora direttore del Corriere lodava il Pds per aver «saputo mettere in campo schieramenti dove c’è sì ancora molto radicalismo ma c’è anche un’attenzione alla sinistra moderata e persino a fette di elettorato liberale e riformatore che, in assenza di alternative, saranno inevitabilmente risucchiate nella sua orbita». In Mieli peraltro, come vedremo anche ne La Stampa di Ezio Mauro e Norberto Bobbio, è esplicita la speranza di un bipolarismo moderato, di una «tranquilla democrazia di tipo occidentale dove progressisti e conservatori si confrontano civilmente pronti a darsi il cambio ad ogni tornata elettorale». Decisamente contrario all’idea che Berlusconi scenda in campo è anche Angelo Panebianco, che il 9 dicembre, in un editoriale dal significativo titolo «Lasci perdere, Cavaliere», segnala come l’attivismo di Silvio Berlusconi «sta procurando molti più danni che vantaggi alla causa del (potenziale) schieramento liberaldemocratico», e questo perché Lega Nord e Msi sono incompatibili e perché, come il Pds non dovrebbe dare spazio a Rifondazione comunista, così «uno schieramento alternativo alle sinistre che desse spazio a un partito “lepenista” come l’Msi commetterebbe un errore altrettanto clamoroso».

In quel periodo La Stampa aveva invece appena aperto una discussione sulla definizione di «conservatore» e «progressista», con l’intenzione di incoraggiare un bipolarismo moderato. E’ proprio l’insoddisfazione dei risultati delle amministrative, la paura della mezza svolta a destra sull’onda del buon risultato della Mussolini a Napoli e di Fini a Roma (che per il commentatore Marcello Sorgi «non prepara certo né un thatcherismo né un reaganismo all’italiana») e l’apertura di questa chiara discussione sul bipolarismo a indurre La Stampa a un atteggiamento non pregiudiziale nei confronti di Silvio Berlusconi. Anzi, è proprio il quotidiano diretto da Mauro a dare voce al Cavaliere lo stesso 23 novembre, il giorno prima della diffusione della notizia del «proclama dell’ipermercato», con un’intervista in cui il presidente della Fininvest spiega che «sono morti i partiti, ma non il Centro», e annuncia: «Scendo in campo io per farlo rinascere». La Stampa mostra anch’essa scetticismo nei confronti del personaggio e dell’alleanza che questi sembra intenzionato a comporre, ma accoglie il suo arrivo senza troppo scandalo, anzi quasi «sondando» Berlusconi come possibile protagonista di quella nuova destra moderata di cui La Stampa si augura profondamente la nascita. Lo prova che quello stesso giorno in prima pagina siano annunciate due interviste, al vice di Occhetto Massimo D’Alema e a Berlusconi stesso, accostati con foto e richiamo speculari, quasi ad ipotizzarli, con lodevole preveggenza, come protagonisti dei due campi di un futuro sistema bipolare. Il 24 novembre l’annuncio di Berlusconi non trova poi il titolo dell’apertura (come accade invece sul Corriere e su Repubblica), ma solo una citazione, molto sobria e descrittiva, nel sommario («Annuncio choc di Berlusconi: a Roma voterei per Fini»). Il quotidiano allora diretto da Ezio Mauro si mostra lucido e, pur scettico, aperto ad una analisi senza pregiudizi. I commenti del 24 e del 25 novembre lo confermano. Sergio Romano fa per l’occasione il ritratto di quello che per lui, in opposizione a Berlusconi, è «Il buon conservatore». Alessandro Galante Garrone, sotto un titolo sobrio ma deciso («Un grave errore»), è altrettanto calmo e fermo: «Silvio Berlusconi ha annunciato che se abitasse a Roma non avrebbe dubbi: voterebbe Gianfranco Fini. Credo che si tratti di un gravissimo errore». Il giorno dopo viene pubblicata una lettera che Berlusconi ha inviato al giornale in risposta a Galante Garrone, in cui si autodefinisce «uomo della televisione» e quindi «per essenza, uomo della democrazia», chiede di non considerare Fini un fascista perché afferma che non si sognerebbe mai di «chiamare Occhetto stalinista», e infine accusa Galante Garrone di «moralismo», «l’arma degli ipocriti». L’ex partigiano azionista replica che «di solito l’accusa di moralismo, chi sa perché, proviene da coloro che certamente, per la loro natura e attività, non mettono i valori morali al di sopra di ogni qualità», e si difende dall’accusa di applicare due pesi e due misure a Pds e Msi, ricordando che l’anno prima, «il 28 ottobre, in piazza Venezia a Roma, le camicie nere inneggiavano al duce grande e “immortale”». Dunque La Stampa si mostra ostile alla discesa in campo di Berlusconi per gli stessi motivi degli altri due giornali, cioè la pregiudiziale antifascista antimissina e la preoccupazione che lo strapotere mediatico del presidente della Fininvest alteri la democrazia. Sergio Romano, il 25, nutre anche dubbi sui veri motivi dell’impegno politico di Berlusconi: «Non so se scenda in campo per “spirito di servizio” o per difendere quell’”impero dell’informazione” che ha costruito con molta tenacia negli ultimi vent’anni». Lo stesso giorno Lietta Tornabuoni smonta subito quello che sarà invece l’argomento principale della campagna elettorale di Berlusconi, il suo presunto essere «nuovo»: «Quasi a nessuno è venuto in mente di sottolineare quanto sia poco legittimo, da parte di Berlusconi, presentarsi come “uomo nuovo” della politica». Berlusconi, ricorda la Tornabuoni, «è uno che ieri stava coi socialisti, e oggi dice di preferire Fini: bel salto. Uno che era iscritto nelle liste della P2».

Su la Repubblica l’annuncio di Berlusconi è accolto con forte inquietudine, quasi con toni apocalittici. Scompare qui la cautela e la scettica lucidità del Corriere e de La Stampa. Il 24 il quotidiano di Scalfari titola in tutta evidenza «Berlusconi con Fini», e l’occhiello e il sommario sono costruiti entrambi su espressioni ad effetto come «(nasce) il partito della Fininvest» e «il proclama di Sua Emittenza»: linguaggio espressivo che, soprattutto nel primo caso, vuole censurare l’anomalia dell’operazione. Tanto sobri sono i titoli dei fondi de La Stampa, quanto allarmati e densi d’immagini sono quelli che la Repubblica affida invece a Giovanni Valentini («Un “Cavaliere nero” per gli orfani del regime») e a Giorgio Bocca («Ma con i camerati non si rifà l’Italia»). Se Valentini parla di una «marea nera», Bocca rievoca il fascismo, e scrive che l’Msi di Fini «custodisce con orgoglio le memorie della repubblica di Salò, cioè dell’alleanza fino alla morte con i nazisti del genocidio, coltiva e copre il neosquadrismo». Valentini non si ferma però all’immagine «fascista» del duo Berlusconi-Fini, e si concentra anche su quella del tycoon e sul problema del conflitto d’interessi: le immagini con cui descrive il «Cavaliere Onnipresente» sono prese soprattutto dal mondo del commercio e usate con valore dispregiativo, come «il concessionario esclusivo» e «il rivenditore autorizzato». Lo stesso progetto dei «Club Forza Italia» viene definito «un progetto “chiavi in mano”, dal produttore al consumatore». Insomma la Repubblica attacca Berlusconi con nerbo e concentrandosi su entrambe le «colpe», quella «neofascista» e quella «mediatica». Negli articoli del 24 e del 25 tornano esplicitamente entrambi i temi: così la cronaca dell’annuncio di Casalecchio ha il maligno titolo «A chi l’Italia? A noi…» (mentre la Stampa titola neutra «Berlusconi: non ho dubbi, voterei per Fini», e il Corriere fa altrettanto, con «Berlusconi: se il paese mi chiama…»), e il 25 l’intervento di Stefano Rodotà si intitola «Se in Italia vince il partito delle tv», che ripropone l’interrogativo esposto da Valentini il giorno prima («E’ lecito a un imprenditore che possiede direttamente tre reti televisive, e altrettante ne controlla indirettamente, partecipare in prima persona alla vita politica?»).

Sebbene i toni del quotidiano di Scalfari siano aggressivi, le argomentazioni apocalittiche e troppo spesso l’impostazione rischi di apparire faziosa e persino propagandistica, quasi che si volesse attivamente ostacolare l’ingresso in politica del presidente della Fininvest, tuttavia è possibile rintracciare una linea comune tra i tre giornali. Tutti e tre bocciano l’esternazione e il progetto berlusconiano. Il Corriere parla di «passo falso», la Stampa di «grave errore», la Repubblica avverte il rischio di un nuovo e moderno fascismo. Leggendo le argomentazioni degli editoriali si ricava che i tre principali giornali italiani, oltre a nutrire scetticismo sul progetto e sui reali motivi dell’impegno berlusconiano, erano uniti, nel 1993, dai valori di un antifascismo «senza se e senza ma» e dell’indipendenza dei media dal potere politico. La comunanza ideologica è tale che curiosamente La Stampa, a difesa di Galante Garrone offeso da Berlusconi, il 25 pubblica un intervento di Carlo De Benedetti, editore di un suo concorrente.


29 marzo 1994
L’Italia ha scelto
(Il berlusconismo come
autobiografia della nazione)

Quando, quattro mesi dopo, l’outsider Berlusconi stravince le elezioni, la stampa italiana mostra ancora più uniformità nel raccontare la vittoria. Repubblica assorbe lo choc, e si accoda all’atteggiamento dei due concorrenti. Il fenomeno Berlusconi si è ormai ampiamente diffuso nel Paese, e il quotidiano diretto da Scalfari, persa la battaglia, si sforza ora di analizzarlo. Fermi rimangono il dissenso e la preoccupazione, ma scompaiono certi toni da crociata. Nell’editoriale del 29 marzo, si legge che l’Msi «è ormai entrato a far parte del circuito politico e che di lui dovranno tener conto i suoi avversari ed i suoi alleati», che «questo ha voluto la maggioranza degli elettori e questo è accaduto». La destra ha vinto per aver meglio interpretato l’anima e le aspirazioni dei cittadini: «L’immagine che la maggioranza del paese ha di sé in questa fase della sua trasformazione concede assai poco ai valori dei quali la sinistra è portatrice. L’immagine è quella di un paese che vuole cavalcare il suo individualismo senza impacci e con il minor numero di regole possibile» (saranno le stesse identiche parole che la Repubblica userà nel maggio 2001). Anzi, conclude l’editoriale, c’è anche un aspetto positivo: «Almeno la situazione uscita dalle urne ha il pregio della chiarezza. Ciascuno dimostrerà quel che sa fare e sarà giudicato per ciò che fa. L’epoca dei pastrocchi è definitivamente chiusa. Questo almeno è un risultato positivo per tutti». Berlusconi ha conquistato in pochi mesi il Paese, e «bisogna capire perché», scrive Scalfari il giorno dopo.
Repubblica, prima delle elezioni, non aveva fatto mistero delle sue simpatie politiche di sinistra moderata, né aveva rinunciato alla polemica con Berlusconi; tuttavia aveva abbandonato i toni apocalittici usati qualche mese prima. Insomma, davanti alla clamorosa vittoria della destra, la Repubblica smette di «fare politica», e cerca invece di analizzare, capire quel fenomeno che pochi mesi prima si era limitata troppo spesso a demonizzare. Il 30 marzo Scalfari parla lucidamente del «grande seduttore», e loda la capacità del politico di aver saputo vendere un sogno e di aver capito le vere aspirazioni dell’uomo medio italiano. La nuova voglia di lucidità è testimoniata dall’editoriale del 31, in cui Mario Pirani, in «Hanno vinto gli anti-partito», accusa i media e la sinistra di aver alimentato e cavalcato quella «deriva giustizialistica e demagogica» che ora porta al governo forze che rinnegano «molti dei valori di base della nostra Costituzione, nata sul presupposto della organizzazione partitica del consenso democratico, solidaristica e antifascista nei contenuti», e che invece si fondano sui «valori dell’anti-partito e dell’anti-politica, di un desiderio di nuovo che faccia piazza pulita dei metodi di mediazione democratica per cercare e identificare, invece, in un leaderismo forte il momento demiurgico della decisione». Nelle aperture del 29 e del 30 marzo («Ha vinto Berlusconi. La destra con Bossi e Fini batte i Progressisti», «Berlusconi al governo») non c’è traccia di quell’acredine che dominava invece il giornale nel novembre 1993. Svaniscono gli accenni polemici, ed è notevole che nel «catenaccio» del titolo del 30 si riporti a grandi lettere una dichiarazione con cui il Presidente della Repubblica Scalfaro legittima senza esitazioni il voto, peraltro con le stesse parole («Scalfaro: “L’Italia ha scelto”») usate per l’editoriale del giorno precedente («Il paese ha scelto»).
La posizione de La Stampa è molto simile, sia per l’assenza di emotività nel commentare i risultati, sia nel giudizio molto scettico verso la nuova destra che fa capo a Berlusconi. Nelle aperture c’è la stessa descrittività de la Repubblica, e la sobrietà è accentuata dalla titolazione più lunga («Vince Berlusconi, l’Italia va a destra», «Sulla strada di Berlusconi c’è Bossi»). Anche qui non si nasconde che la vittoria del centrodestra qualche conseguenza positiva ce l’avrà: sono la maggiore chiarezza e un passo deciso verso il bipolarismo, di cui parla Marcello Sorgi nell’editoriale del 29 marzo. Lo scetticismo nei confronti di Berlusconi e della sua alleanza, però, non possono sparire di colpo. Ecco allora che, mentre la Repubblica paradossalmente ne tace, nelle aperture del 30 marzo sia La Stampa sia il Corriere evidenziano il grande ostacolo che si frappone tra il vincitore e il governo: «Sulla strada di Berlusconi c’è Bossi». Sempre il 30, Ezio Mauro cerca di individuare i motivi della svolta dell’elettorato, e segnala come sotto ad una «apparenza di centro» il Cavaliere abbia saputo immettere «una carica ideologica di destra, più istintiva che razionale». Berlusconi, per il direttore de La Stampa, «non è soltanto il naturale catalizzatore degli istinti politici di reazione alla sinistra», ma è anche portatore dell’ideologia di una «destra italiana di fine secolo», «ben più che occidentale». In quest’ultimo concetto risiede un giudizio di merito negativo, in quanto la destra di Berlusconi si porrebbe al di fuori di quel bipolarismo moderno e occidentale di cui La Stampa (con il Corriere) aveva auspicato negli ultimi mesi la nascita: «Questa destra è scarsamente occidentale e fortemente italiana – spiega Mauro – Non è liberaldemocratica. E’ fortemente ideologizzata». «Tutto ciò rischia di tradursi in un progetto “estremista”», conclude il direttore del quotidiano torinese, che vede il rischio di un conseguente radicalizzarsi della sinistra e che dimostra d’essere in perfetta sintonia con Norberto Bobbio, che sullo stesso giornale il 20 marzo aveva scritto di vedere nel berlusconismo «l’autobiografia della nazione». La posizione de La Stampa, che il giorno delle elezioni con l’editoriale di Ezio Mauro si era augurata la vittoria del centro o della sinistra moderata e che era stata molto critica verso la destra berlusconiana e verso la sinistra comunista, sembra dunque identica a quella de la Repubblica: da un lato si legittima serenamente il risultato elettorale, analizzandone i motivi, e dall’altro si esprime scetticismo verso il progetto berlusconiano e preoccupazione per la vittoria di una destra non solo divisa, ma soprattutto «estremista», che ha avuto la meglio, come scrive Bobbio, su «una sinistra in cui era andata finalmente prevalendo l’ala moderata».
Il Corriere della Sera esprime nelle aperture e nei titoli la stessa lucidità, la stessa assenza di emotività degli altri due quotidiani («Vince Berlusconi, sinistra sconfitta»). Forse è un modo ostentato di mascherare quello scarto che si registra tra le preferenze elettorali dei cittadini e le posizioni politiche dei tre quotidiani. Se infatti il voto degli elettori (grazie anche al maggioritario e alle scelte poco oculate del centro e della sinistra, incapaci di allearsi) ha premiato clamorosamente la destra, la stampa non aveva nascosto invece una certa antipatia verso quella parte politica, e una certa simpatia verso il centro o la sinistra. Galli della Loggia sul Corriere del 25 marzo aveva visto il centro di Martinazzoli e Segni come il «luogo di mediazione» tra «due poli infuriati», e il 27 marzo Paolo Mieli, che in novembre aveva lodato il Pds, esprimeva apprezzamento per «la coerenza tranquilla» di quei due moderati destinati alla sconfitta, augurandosi che potessero almeno «controllare e condizionare» i vincitori. Franchi, nell’editoriale del dopo-elezioni, scrive sbalordito che «ha preso corpo qualcosa di assai simile a una rivoluzione»: «Inutile girarci attorno – ammette preoccupato il commentatore del Corriere – non era così che pensavamo si dovesse transitare dalla notte della Prima Repubblica all’alba della nuova». Tuttavia il direttore Paolo Mieli, il 30 marzo, nell’editoriale «Subito il governo» fa prevalere ancora una volta, nel Corriere, il pragmatismo: si rispetta l’esito delle elezioni e nonostante la scarsa simpatia verso il Cavaliere (Panebianco, il 27 gennaio ricorda le «molte ragioni» per cui è contrario alla discesa in campo del presidente della Fininvest, prima fra tutte quella del conflitto d’interessi ) si chiede che il vincitore venga subito incaricato. Mieli però, inaugurando una polemica che segnerà l’intero decennio nei rapporti tra Corriere e Silvio Berlusconi, avverte: «Vorremmo che uno dei primi passi di questo governo fosse una risistemazione del sistema televisivo che favorisca l’uscita dal duopolio e si ispiri alla legislazione vigente in altri Paesi così da non ingenerare sospetti di commistione tra gli interessi pubblici e quelli della Fininvest». «Dei risultati faremo un bilancio a fine partita», conclude Paolo Mieli, e le fondamenta del rapporto decennale tra Corriere della Sera e Berlusconi sono gettate: battaglia sul conflitto d’interessi e atteggiamento critico ma non pregiudizialmente ostile.
Concordi nel pessimismo, nell’inquietudine e nell’analisi lucida dei motivi che hanno condotto alla vittoria il Polo delle Libertà, i tre quotidiani lo sono anche nell’individuare l’elemento più positivo di questi risultati elettorali: il fatto che l’Italia abbia voltato pagina. Sarà finalmente il bipolarismo, a prendere il posto del paludato sistema della «Prima Repubblica». Scrive Bobbio: «Abbiamo solo una certezza: la tanto attesa dialettica, propria di una democrazia compiuta, fra chi è al governo e chi è all’opposizione potrebbe ora finalmente cominciare».
(continua...)

 

 

 

 

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