Una nuova
puntata dell’analisi di Daniele Castellani Perelli,
su come i tre maggiori quotidiani italiani hanno parlato
di Silvio Berlusconi negli ultimi dieci anni, un confronto
delle prime pagine attraverso undici episodi emblematici
della recente vita politica italiana.
Dal libro Giornali e tv negli anni di Berlusconi
(a cura di G. Bosetti e M. Buonocore, con interventi
di Luca Cordero di Montezemolo, Dario Di Vico, Ezio
Mauro, Daniele Castellani Perelli, Marsilio –
i libri di Reset, 2005).
Le puntate precedenti:
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la prima parte
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la seconda parte
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la terza parte
3 giugno 1998
Bicamerale, inizio di una crisi
(La colpa di Silvio, la colpa di Massimo)
Nel giugno 1998 il centrosinistra al governo, che ha
già rischiato di cadere nell’ottobre del
1997 per una crisi minacciata da Rifondazione comunista,
vive gli ultimi mesi di gloria, e i tre maggiori quotidiani
nazionali gli riconoscono il merito del raggiungimento
di risultati notevoli, come l’ingresso nell’Unione
monetaria. Anche l’ambizioso e generoso tentativo
delle riforme costituzionali è da ascrivere ancora
al centrosinistra e più in particolare al presidente
della Commissione bicamerale Massimo D’Alema.
Il fallimento di quello slancio riformista è
invece subito attribuito dalla principale stampa nazionale,
nonostante la propaganda berlusconiana, al leader dell’opposizione.
L’iniziale compromesso di basso profilo della
Bicamerale, realizzato tra l’altro a spese della
tenuta della coalizione di governo, indebolisce l’immagine
della maggioranza agli occhi degli osservatori dei tre
quotidiani, segnando probabilmente l’inizio della
crisi tra il Paese e il centrosinistra al governo: d’altronde,
come spiega il 3 giugno sul Corriere Sergio
Romano (che ha lasciato frattanto La Stampa),
«tra governo e riforme vi è sempre stata,
a dispetto delle tranquillizzanti dichiarazioni di D’Alema
e di Prodi, una stretta relazione». Tuttavia rimane
ancora una maggiore simpatia verso l’atteggiamento
costruttivo, riformatore, comunque dinamico, degli esponenti
della maggioranza, rispetto ad un distruttivo Silvio
Berlusconi, di cui si riconoscono con facilità
i veri obiettivi personali.
Sintomatici dell’atteggiamento del Corriere
della Sera sono due editoriali di Angelo Panebianco
e Sergio Romano. Il professore bolognese, il 1 giugno,
ricorda il giudizio negativo verso il testo della Bicamerale,
considerato di «bassissimo profilo», ma
riconosce che il comportamento del leader dell’opposizione
non era ispirato al senso dello Stato, ma era piuttosto
«guidato soprattutto da due motivazioni»,
ovvero «il mancato accordo sulla giustizia»
e «la percezione dell’esistenza di un asse
sotterraneo fra D’Alema e Fini, che avrebbe forse
potuto emarginarlo politicamente». Ma se Panebianco
è persino meno tenero con D’Alema, il 10
giugno Sergio Romano descrive così i meriti del
presidente della Bicamerale: «Quale segretario
di partito ha dimostrato, in cinquant’anni di
storia repubblicana, altrettanto coraggio? [...] D’Alema
ha dimostrato di avere due delle virtù necessarie
a un leader politico. Ha un grande disegno e ha il coraggio
di perseguirlo personalmente, alla luce del sole».
Anche su La Stampa, non si nasconde un certo
fastidio verso la mossa del capo dell’opposizione,
tanto che, nella cronaca stessa del 3 giugno, è
scritto che «le riforme sono state colpite a morte
da Silvio Berlusconi». La delusione per il mancato
accordo è espressa dal verbo icastico usato nell’apertura:
«Riforme, affossata la Bicamerale». «Se
il polo – scrive amareggiato Gian Enrico Rusconi
nell’editoriale – ha cercato una rivalsa
politica, ha reso un cattivo servizio alla democrazia
percorrendo questa strada. Per dilettantismo o per cinismo
si è incrinata la fiducia di molti cittadini
verso questo ceto politico». Sul fatto che l’uomo
di Arcore non si sia mosso, neanche in questa circostanza,
con lo spirito dell’uomo di Stato, Edmondo Berselli,
nell’editoriale del 1 giugno, non aveva avuto
dubbi: «Ora è chiaro che il capo di Forza
Italia ha sparato contro l’accordo con un intento
esplicitamente politico: in primo luogo per scardinare
l’intesa tra D’Alema e Fini, cioè
l’asse fra postcomunisti e postfascisti in cui
rischiava di restare intrappolato».
Amarezza anche dalle parti de la Repubblica,
che il 3 giugno titola «Grande riforma addio»
(rispetto ad un più neutro «Riforme, la
fine della bicamerale» del Corriere).
Nell’editoriale di Ezio Mauro, «Lo scambio
impossibile», la posizione è chiara. Come
il Corriere, anche il quotidiano romano riconosce che
«il tentativo di varare la grande riforma nasceva
da un misto di ambizioni, necessità, ambiguità».
Anche qui, come al Corriere e a La Stampa,
si è guardato alla Bicamerale con la coscienza
che fosse necessaria una modernizzazione istituzionale,
che le ambizioni dei protagonisti della Commissione
fossero varie, che il testo finale fosse inadeguato
e non entusiasmante. Anche qui le responsabilità
del fallimento sono chiare: in modo ancora più
esplicito e aspro di quanto facciano Corriere
e Stampa, Mauro scrive che quell’alta
ambizione riformatrice «si è risolta in
una sconfitta perché ha creduto di poter governare
con le leggi della politica - e della realpolitik -
un’ambiguità che nasce fuori dalla politica,
e ne prescinde. L’ambiguità è quella
di Silvio Berlusconi, che cercava nelle riforme qualcosa
che non era all’ordine del giorno della Bicamerale,
perché politicamente inconfessabile: non un “cambio”,
ma uno “scambio”», che consisteva,
per Berlusconi, in «una sede di tutela reciproca
e di rispetto garantito, come negli anni del Caf, dove
le sue vicende aziendali possano mescolarsi alle riforme,
le sue vicissitudini giudiziarie possano confondersi
con i problemi del Paese, il suo ruolo non dipenda dall’esito
del voto ma da un gioco delle parti prefissato».
Il durissimo atto d’accusa di Ezio Mauro nei confronti
del leader dell’opposizione s’accompagna
però ad una amara delusione verso la gestione
tutta della Bicamerale, e il suo presidente non viene
risparmiato, così che D’Alema, per Mauro,
«deve riflettere su metodi ed errori, perché
la politica non è un origami o una battaglia
navale». Il sarcastico riconoscimento dell’inadeguatezza
del testo e dei suoi autori viene affidato a Curzio
Maltese, che in «Quei padri mancati», come
sempre ferocemente ostile al cosiddetto «inciucio»
(o «patto della crostata»), a proposito
del segretario dei Ds scrive che «l’impressione
è che la fine della Grande Riforma, due anni
di lavori per arrivare al nulla, sia una sconfitta soprattutto
sua», e ironizza sul «genio della Grande
Riforma» sconfitto dopo «due anni di volo
a bassa quota fra i pantani del compromesso«.
«Sicché dopo due anni di “caro Massimo»
e “caro Silvio” – conclude velenoso
il commentatore di Repubblica – eccoli
lì, i mancati padri costituzionali. Uno al centro
dell’arena, trafitto e scalpitante. E l’altro
sui banchi dell’opposizione, perso come sempre
dietro agli affari suoi, con l’aria corrucciata
perché non gli hanno dato l’abolizione
di mezzo codice e magari la deportazione di Borrelli».
18 aprile 2000
Cade D’Alema, fine di un matrimonio
(E Repubblica aprì l’ombrello della sinistra)
Se il tentativo bicamerale, figlio dell’Ulivo,
pur testimoniando una coraggiosa e alta ambizione del
centrosinistra, segna pur sempre un fallimento di quell’Ulivo,
la caduta del governo D’Alema rappresenta l’inizio
della fine. Dopo verranno solo tentativi (anche nobili
ed efficaci, ma in una sempre crescente indifferenza
dell’elettorato) di evitare l’inevitabile
ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi. Il governo di
Massimo D’Alema, che era succeduto a Romano Prodi
nell’ottobre del 1998, cade in seguito all’ennesima
crisi interna dei partiti della maggioranza, e alla
successiva decisione del premier di legare la propria
permanenza a capo del governo all’indiretta legittimazione
popolare di un’eventuale vittoria alle regionali
del 16 aprile, le quali videro al contrario il trionfo
di Forza Italia e del centrodestra. I tre quotidiani
dimostrano ancora sostanziale indipendenza dalla politica,
e sono pronti a criticare gli errori del centrosinistra
così come prima avevano fatto con il centrodestra.
Senza troppo attenuanti, come risulta evidente dal titolo
impietoso di Ezio Mauro su la Repubblica del
18 aprile 2000, «Il suicidio della sinistra».
Quella del principale leader della sinistra è,
per l’erede di Scalfari, una «sconfitta
politica e personale», e «dietro la figura
del premier sconfitto che abbandona il campo, c’è
la rotta del centrosinistra italiano», mentre
Berlusconi è andato «suscitando e raccogliendo
energie nel territorio». Anche in questo caso,
come era accaduto dopo la vittoria del 1994, la
Repubblica non demonizza affatto il capo dell’opposizione
(come era successo invece al momento del «proclama
dell’ipermercato»), ma cerca di capire i
motivi del suo rinnovato successo, registrando che ormai
Forza Italia non è più un partito di plastica,
ma è diventato «un partito di ferro, radicato
nelle città e nelle periferie». Mauro guarda
poi al centrosinistra e mette in risalto «l’egoismo
di partito, la rendita di posizione, il peso della vecchia
tradizione e la zavorra di apparati antichi e nuovi».
Repubblica, come è sua linea, non fa mistero
di essere un giornale di sinistra, e lo ricorda la vignetta
di Altan in prima pagina, in cui l’uomo di sinistra
percepisce in una ben definita parte del corpo il dolore
dell’ombrello del destino. Tuttavia, pur essendo
un giornale che si riconosce in una parte, nulla le
vieta di arrivare a livelli di disapprovazione tali
verso il premier da permettere a Curzio Maltese, lo
stesso giorno, di accomunarlo a Berlusconi: «Hanno
bluffato fino all’ultimo. Hanno occupato per intero
la scena, con flotte aeronavali in giro per l’Italia,
trasformando le elezioni in quindici regioni in un referendum
su due leader». Anche in questo caso la Repubblica
si concentra, da onesto quotidiano di approfondimento
e non di propaganda, nell’analisi della sconfitta,
che, ricorda Michele Serra, «consiste, sostanzialmente,
nell’aprire l’ombrello prima di averlo estratto.
Se un attimo prima tutta la colpa era solo esterna ora,
di colpo, diventa solo interna».
La Stampa, con un editoriale di Marcello Sorgi
(direttore dal settembre 1998) dall’emblematico
titolo «Si chiude un ciclo», suona anch’essa
la marcia funebre per il centrosinistra. Con il fallimento
del governo, secondo il direttore de La Stampa,
fallisce il riformismo di sinistra: «Un ciclo
s’è chiuso […] Il dalemismo, inteso
come tentativo ambizioso di rinnovare insieme il Paese
e la sinistra, è entrato in crisi». Le
colpe, anche in questo caso, non sono solo attribuibili
all’arroganza del premier: «D’Alema
– aggiunge Sorgi – era diventato una specie
di alibi, di copertura, per una maggioranza che ha mostrato
il suo lato peggiore agli elettori, convincendo anche
i più restii a votarle contro». Il titolo
d’apertura è cronachistico («D’Alema
lascia. Polo e Lega: elezioni»), per nulla enfatico,
come è nella tradizione del giornale negli anni
Novanta. Ma sul quotidiano torinese, che ha cominciato
a perdere l’autorevolezza e i lettori che tradizionalmente
gli erano propri, appare anche l’intervento più
dissonante. Enzo Bettiza, il 23 aprile, in «L’anomalia
italiana» si accanisce sul vinto, con toni inutilmente
anticomunisti. Perché «l’anomalia
italiana» è per Bettiza ancora il Pci,
o meglio, secondo la vulgata berlusconiana che Bettiza,
su La Stampa, mostra di voler propagandare,
la supposta antidemocraticità degli ex comunisti:
«Con Massimo D’Alema che getta a mare la
spugna, dopo due anni di tormentata navigazione fallisce
il primo e finora unico tentativo di un governo occidentale
presieduto da un politico di formazione e matrice comunista».
Nella scrittura di Bettiza si assapora la gioia di un
uomo che finalmente si sta vendicando del suo storico
nemico, con un’ispirazione che a tratti si fa
autenticamente berlusconiana: «D’Alema è
diventato capo di governo di un Paese dell’Occidente
democratico senza passare al vaglio di una franca consultazione
elettorale, affidandosi prevalentemente alla fredda
manovra di corridoio culminata nello sfratto di Romano
Prodi». Citando per scherno finale Mao Tse-tung,
Bettiza conclude così la sua tirata anticomunista:
«E’ facile trattare con gli uomini di destra:
dicono quello che pensano. E’ difficile trattare
con gli uomini di sinistra: non dicono mai quello che
pensano».
Mentre La Stampa da un lato, con Sorgi, si
mantiene all’interno di quella linea sostanzialmente
comune che abbiamo riscontrato finora nei tre giornali,
e dall’altro, con Bettiza, da quella linea clamorosamente
si allontana, sul Corriere della Sera l’impostazione
non è diversa da Repubblica. Il titolo d’apertura
è identico («D’Alema si dimette»).
Anche qui si registra il disamoramento del Paese nei
confronti del centrosinistra, e tuttavia, paradossalmente,
i toni verso il premier uscente sono meno aggressivi
di quelli usati da Curzio Maltese. Tocca a Galli della
Loggia, nell’editoriale del 20 aprile («Il
Boomerang della sinistra. L’antiberlusconismo
non paga chi governa»), dipingere il quadro della
morte del centrosinistra nel paese reale: «E’
un elettorato, ormai, che al massimo vota, ma che per
il resto non c’è, non comunica nulla se
non qualche più o meno rassegnato mugugno. La
sinistra, insomma, che sembra avere ancora la rappresentanza
del Paese politico organizzato (i sindacati, le grandi
corporazioni, i grandi potentati economico-finanziari),
e quella del notabilato socio-culturale (tutto cresciuto
all’ombra degli apparati della Prima Repubblica),
non sembra però avere più contatto con
le emozioni e le passioni del Paese profondo, con i
suoi rozzi ancorché concreti interessi, con gli
“animal spirits” italiani». Nei confronti
del politico che più di tutti ha rappresentato
la sinistra negli anni Novanta, il bilancio di Indro
Montanelli, il 19 aprile in prima pagina, è però
generoso, tanto quanto lo era stato il ritratto di Sergio
Romano dopo il fallimento della Bicamerale. D’Alema,
secondo Montanelli, ha avuto il «merito di averci
dato un governo che, salvo qualche eccezione, ha raggiunto
buoni risultati lavorando con serietà, senza
gare di protagonismo ed esibizionismo». La colpa
dell’insuccesso, secondo l’ex direttore
del Giornale, è nella «coalizione brancaleonesca»
che «paralizzava qualsiasi intenzione decisionale»
del premier. La motivazione di questo «non sparate
su D’Alema» sta nel fatto che, come dice
Piero Ostellino il 18 aprile, l’ex segretario
dei Ds era l’unico che, in quel partito, aveva
combattuto lo statalismo. Mentre a «Re Massimo»
Gian Antonio Stella dedica un bellissimo ritratto, i
liberalconservatori del Corriere, che in questi anni,
con la sinistra al governo, acquistano sempre più
influenza a via Solferino, attaccano il centrosinistra,
segnalando che «la parte più ricca, moderna
ed europea del Paese non accetta di essere governata
da una coalizione che mantiene i tratti della vecchia
sinistra statalista, che ha in un sindacato iper-conservatore
il suo principale “azionista di riferimento”,
e che fa più “riforme” stataliste
(come, ad esempio, da ultimo, quella della sanità
) che liberalizzatrici» (Angelo Panebianco, «Il
divorzio dal Nord», 18 aprile 2000). Il Corriere
non volge le spalle al centrosinistra, anzi accoglie
con soddisfazione l’incarico ad un riformista
come Amato, nella speranza che sappia diffondere la
sua modernità in una sinistra che ai liberali
di via Solferino pare schiacciata dal conservatorismo
del sindacato, col sospetto che, come scrive Panebianco
il 26 aprile, nella maggioranza che sostiene il nuovo
premier Amato ci sia «un estraneo», e cioè
il premier stesso.
Le antenne della principale stampa italiana captano
che una fase si sta chiudendo, che l’opinione
pubblica è delusa da una coalizione che aveva
saputo farla sognare, che il paese reale non si sente
più rappresentato da questa maggioranza. Corriere,
Repubblica e Stampa sanno cogliere lo Zeitgeist di questo
momento. Sanno che ormai l’«armata brancaleone»
del centrosinistra può solo rimandare l’inevitabile.
Berlusconi è tornato.
(continua…)
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