È
in libreria Giornali e tv negli anni di Berlusconi
(a cura di G. Bosetti e M. Buonocore, con interventi
di Luca Cordero di Montezemolo, Dario Di Vico, Ezio
Mauro, Daniele Castellani Perelli, Marsilio –
i libri di Reset, 2005).
Tutto quello che c’è da sapere, con dati
e confronti europei e mondiali, sulla anomalia italiana
televisiva, sullo sbilanciamento economico, politico,
culturale tra stampa e video e sulle conseguenze che
tutto questa ha sulla opinione pubblica, costretta a
una dieta catodica unica al mondo.
Tra Mediaset e Rai un duopolio-monopolio che drena denaro
e ha portato la quota della pubblicità televisiva
a una inaudita percentuale record del 57%. Come si sono
difesi i maggiori giornali nel decennio berlusconiano?
Proponiamo, a puntate, su Caffè Europa l’analisi,
svolta da Daniele Castellani Perelli, su come i tre
maggiori quotidiani italiani hanno parlato di Silvio
Berlusconi negli ultimi dieci anni, un confronto delle
prime pagine attraverso undici episodi emblematici della
recente vita politica italiana.
Le puntate precedenti
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la prima parte
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la seconda parte
23 novembre 1994
L’avviso di garanzia a Napoli
(«Il Corriere della Sera
fa letteralmente schifo».
Parola di Fede)
La sera di lunedì 21 novembre 1994 Silvio Berlusconi
riceve la comunicazione dell’invito a comparire
per le tangenti alla Guardia di Finanza. La vicenda
è l’ennesima prova dell’indipendenza
sostanziale della stampa italiana dalla politica. E’
il Corriere della Sera a produrre lo scoop:
il giornale che aveva fino ad allora mostrato maggiore
cautela nel giudicare l’operato del Presidente
del Consiglio non si tira affatto indietro quando riesce
ad ottenere la clamorosa notizia. Gli altri due quotidiani
riprendono il fatto il 23 novembre, con il grande rilievo
che merita.
Su La Stampa Ezio Mauro assume una posizione
istituzionale, piuttosto garantista ma allo stesso tempo
molto critica nei confronti del premier, che la domenica
precedente era stato bacchettato sulle stesse pagine
da Norberto Bobbio, che aveva parlato delle «mosse
sbagliate» del Presidente del Consiglio e di una
democrazia resa sempre più «gracile»
dalla logica dello «scontro frontale» attuata
dall’esecutivo. La posizione de La Stampa
è ben espressa da una prima pagina molto anglosassone
(diversissima da quella di oggi): austera, con una foto
neutra di Berlusconi e con una titolazione il più
oggettivo possibile («Berlusconi inquisito: “Non
mi dimetto”», e il sommario e l’occhiello
sono altrettanto cronachistici). Sono poi i commenti
a definire un giudizio molto chiaro, per nulla pilatesco,
sulla vicenda. Quella aperta dal premier è «una
crisi istituzionale pericolosissima», secondo
il direttore del quotidiano torinese, che scrive fermo:
«Un simile duello senza via d’uscita tra
la politica e la magistratura non ci piace per niente».
«Il premier – continua Mauro – sembra
volersi rapportare solo al popolo che lo ha votato»,
come se «fosse sciolto da ogni obbligo istituzionale»,
mentre le accuse della magistratura dovrebbero preoccupare,
visto che «sembra improbabile che dopo mesi di
accertamenti i giudici si muovano soltanto sulla base
di un teorema». La posizione filo-giudici è
rafforzata dall’intervista al sostituto procuratore
D’Ambrosio e dall’auspicio di Mauro che
le opposizioni sappiano trovare una «via d’uscita»
per Berlusconi, perché questi possa «passare
la mano». A riequilibrare la posizione sono però
le perplessità di Sergio Romano, il 24, sull’iniziativa
della Procura milanese, e soprattutto l’atteggiamento
garantista dello stesso Mauro, che precisa: «Berlusconi,
colpito da un avviso di garanzia, ha secondo noi il
diritto di difendersi senza l’obbligo d’immediate
dimissioni».
Repubblica esprime tutta la sua disapprovazione
per il coinvolgimento del premier nella vicenda giudiziaria.
Quanto austero e british è il titolo
de La Stampa, tanto enfatico e da tabloid è
quello di Repubblica: «Mani pulite su
Berlusconi». In occhiello dominano immagini catastrofiche
(«Bufera politica, tremano i mercati, tonfo della
lira»), il doppio catenaccio è a grandi
caratteri, e la foto è un capolavoro di malizia:
si infierisce sarcasticamente sul premier mostrandolo
mentre a Napoli si asciuga il sudore della fronte con
la mano, in un atteggiamento facilmente equivocabile
con quello di un uomo disperato. Anche nei commenti
scompaiono le sfumature che abbiamo notato su La
Stampa. Gianni Rocca, nell’editoriale «Emergenza
istituzionale», ricorda senza sconti «l’irrisolto
conflitto di interessi che Silvio Berlusconi portava
con sé sin dal momento in cui decise di entrare
direttamente nella battaglia politica», e sostiene
che il presidente del Consiglio «deve restare
al suo posto per consentire l’approvazione della
Finanziaria», ma «poi rassegnare le doverose
dimissioni». E’ la stessa identica posizione
de La Stampa: rispetto delle Istituzioni e
ricerca di una «via d’uscita» per
Silvio Berlusconi. Anche l’editoriale di Mario
Pirani, il 24 novembre, sostiene argomenti identici
a quelli del quotidiano torinese: come Romano, per garantismo
si associa al coro delle «giustificatissime critiche
per la grave violazione del segreto istruttorio»,
e ricorda come l’inchiesta sia ben lontana «da
una proclamazione di colpevolezza». Tuttavia,
per senso delle Istituzioni, censura il «gravissimo
scontro costituzionale» aperto dal premier: «L’attacco
senza mezzi termini alla magistratura […] è
qualcosa che non trova riscontro in tutta la storia
d’Italia, neppure in epoca fascista». Gli
editoriali di Stampa e Repubblica
vanno al di là della semplice attualità,
si interrogano sulla democrazia, non indulgono ad una
facile e vana requisitoria, evitano di infierire nei
confronti di un protagonista politico che non apprezzano
affatto e che giudicano severamente. Riconoscono soprattutto,
come fa Pirani, che c’è un problema di
«valori» divergenti tra Berlusconi e il
comune sentire della classe dirigente del Paese. Valori
come quello «permanente della separazione dei
poteri come fonte indispensabile dello Stato di diritto».
Valori che, per Pirani, sono messi preoccupantemente
in pericolo dal «consenso che su questa base,
anche in questa circostanza, tanti italiani seguitano
a dare a Berlusconi».
Il Corriere della Sera, come detto, produce
lo scoop, ma questo non lo porta tuttavia a enfatizzare
l’avvenimento. Si rifugge dal sensazionalismo
e non si infierisce in alcun modo sul premier, dando
prova di sobrio garantismo, identico a quello di Stampa
e Repubblica. Ecco che le aperture del 22 e
del 23 novembre sono le più oggettive possibili
(«Milano, indagato Berlusconi», «Avviso
a Berlusconi: “Non mi dimetto”»).
Il 22, in prima pagina, viene segnalata anche un’intervista
a Ignazio La Russa, in cui l’esponente della maggioranza
difende l’immagine e la buona fede dei giudici
milanesi («La Russa: Mani pulite non coprì
il Pds»): anche in questo modo il giornale di
Paolo Mieli prende le parti del pool. Nell’editoriale
del 23 («Ma la giustizia non è un’arma»)
lo stesso direttore si esibisce tuttavia in una prova
di terzismo, cioè quella forma di equidistanza
che i suoi sostenitori elogiano come «equilibrio»
e gli avversari bocciano come «cerchiobottismo»,
criticando allo stesso modo gli attacchi di Berlusconi
ai giudici e alle Istituzioni, le speranze dell’opposizione
di rovesciare il governo per via giudiziaria, e persino
il pool, nel momento in cui Mieli prevede che prima
o poi si farà coinvolgere nelle polemiche. Insomma,
sebbene inviti tutti a «lasciare i giudici liberi
di fare il loro lavoro», il direttore del Corriere
cerca di riequilibrare una linea che ad alcuni era apparsa
troppo favorevole alla sinistra. Così sulla prima
pagina del 27 Ernesto Galli della Loggia spiega che
«se lo stato di salute della maggioranza è
cattivo, quello dell’opposizione, bisogna aggiungere,
appare pessimo». Nonostante una volta si colpisca
il cerchio e una volta colpisca la botte, il Corriere
della Sera questa volta sta attaccando Silvio Berlusconi.
Ed Emilio Fede infatti, in una intervista citata da
Repubblica, reagisce così: «C’è
un grande vecchio dietro la strategia della tensione.
Un grande vecchio che vorrebbe utilizzare anche una
vicenda giudiziaria per buttare giù questo governo
e sostituirsi a Berlusconi». Via Solferino, per
il direttore del Tg4, «batte da tempo la strada
della vergogna»: «Povero Mieli, per certi
aspetti mi fa pena. Il Corriere della Sera
è sempre stato un grande giornale – spiega
Fede – Oggi si è ridotto a far campagna
di partito, e tutti sappiamo di quale partito. Devo
dire che fa letteralmente schifo».
22 aprile 1996
Fiducia all’Ulivo
(E Mieli dixit: «Berlusconi
non può fare il premier»)
Il modo in cui i tre quotidiani affrontano la campagna
elettorale del 1996 non è che la logica conseguenza
di quanto abbiamo detto finora. Nonostante le solite
differenze (dovute a ragioni di tradizione e di mercato)
tutti e tre si augurano che dalle urne esca un bipolarismo
chiaro e di stampo europeo, e tutti e tre non nascondono
una coerente scarsa simpatia verso Silvio Berlusconi.
Il Corriere della Sera mantiene il suo profilo
di giornale «istituzionale», e quindi il
più possibile, per tradizione, al di sopra delle
parti. Tuttavia, sotto la superficie del terzismo mielista,
a un’analisi più attenta non può
sfuggire come, discretamente e razionalmente, il Corriere
della Sera si schieri decisamente contro Berlusconi.
Lo dice esplicitamente Paolo Mieli il 17 febbraio, nell’editoriale
dal titolo «L’ultima occasione». Lo
citiamo quasi interamente perché ha una rilevanza
speciale. Il primo quotidiano d’Italia, per mano
di quello che è stato il suo simbolo nello scorso
decennio e che tuttora lo rappresenta, invita a non
votare Silvio Berlusconi, contestandolo attraverso due
accuse che a ben vedere sarebbero valide ancora oggi,
il conflitto d’interessi e i suoi guai giudiziari:
«Noi non ci auguriamo la vittoria del Polo se,
come sembra, sarà guidato da Silvio Berlusconi
e questi si candiderà a tornare a Palazzo Chigi.
Con l’aggravante di veder prevalere, nella campagna
del centrodestra, su quelli liberalmoderati, i toni
di Gianfranco Fini». Mieli sostanzia la sua posizione
ricordando come sia coerente con la linea tenuta dal
giornale negli ultimi anni: «Inutile far giri
di parole: come questo giornale non si è stancato
di ripetere dall’inizio del 1994, Berlusconi non
può fare il presidente del Consiglio. Perché
non ha risolto il conflitto di interessi e perché
è coinvolto in vicende giudiziarie che lo costringerebbero
a fare un’umiliante (per lui e per il Paese) spola
tra i Palazzi delle Istituzioni e quelli di giustizia».
«Questa volta le promesse non bastano: Berlusconi
ha avuto tutto il tempo per risolvere la questione sollevata
dall’esser lui proprietario della Fininvest e
di alcune altre aziende; o, quantomeno, ha avuto il
tempo che occorreva per individuare qualcun altro che
lo sostituisse alla guida dell’armata polista.
Se non lo ha fatto – conclude inesorabile il direttore
del Corriere – vuol dire che non lo ha voluto
fare». Sintetizziamo: la presenza del «postfascista»
Fini e il persistere del conflitto d’interessi
di Berlusconi non possono coincidere con quella destra
liberaldemocratica di cui il Corriere (e La
Stampa e la Repubblica) si erano augurati
la nascita tre anni prima. In più Mieli, coerente
con il suo sostanziale appoggio all’inchiesta
di Mani Pulite (dimostrata anche nell’episodio
dell’avviso di garanzia «napoletano»),
inserisce i problemi giudiziari di Berlusconi tra i
motivi che dovrebbero indurre quest’ultimo a non
candidarsi al ruolo di premier. E’ dunque ancora
presente, al vertice di via Solferino, quella difesa
dell’operato del pool di Milano che poi spesso
verrà meno. Questa clamorosa e chiara presa di
posizione politica non può essere affatto attenuata
dall’ovvia promessa di obiettività ai lettori.
Questa «obiettività», come ha notato
Alberto Papuzzi in una sua analisi, si traduce, nei
giorni precedenti il voto, in uno studiato alternarsi
di editoriali che cercano di porsi sopra le parti, o
tra i quali, quando sono schierati, il numero di quelli
favorevoli all’uno sia uguale a quello dei favorevoli
all’altro. Un’equidistanza che però
è «viziata», ab ovo, da
quella iniziale presa di posizione di Mieli.
La differenza tra il Corriere e gli altri
giornali possono renderla bene gli editoriali dei due
giorni precedenti il voto. Se sul quotidiano milanese,
la domenica, Enzo Biagi invita ad andare al voto, ironizza
sulle due parti con un esercizio di terzismo, ma tutti
sanno che poi voterà Ulivo, su La Stampa
l’atteggiamento non è poi così diverso:
anche qui non ci sono chiare indicazioni di voto, ed
anche qui si capisce che il favore va, pur senza troppo
entusiasmo, verso il centrosinistra. Ezio Mauro esprime
infatti un giudizio decisamente negativo sulla destra,
definita «molto italiana», «nel populismo,
nel leaderismo esasperato, nel nazionalismo-statalista
che contraddice il liberismo su cui era nata Forza Italia»
(sono le stesse accuse, coerenti, che Mauro aveva avanzato,
come visto, all’indomani delle elezioni del 1994).
D’altra parte però, il direttore del quotidiano
torinese non è indulgente verso i ritardi e le
divisioni del centrosinistra, e assicura che «la
democrazia non corre alcun pericolo con la vittoria
dell’uno o dell’altro polo».
Alla vigilia immediata delle elezioni, la Repubblica
è l’unico giornale a dichiarare esplicitamente
le proprie «indicazioni di voto». Lo fa
Eugenio Scalfari, il sabato precedente la consultazione
elettorale: «La ragione e il buonsenso secondo
me consigliano un voto in direzione dell’Ulivo».
I titoli dei tre quotidiani, dopo l’esito elettorale,
tradiscono, con notevole uniformità, un certo
ottimismo. Se infatti, nel marzo del 1994, due giorni
dopo la vittoria i titoli avvertivano delle possibili
difficoltà che il governo Berlusconi avrebbe
incontrato nel rapporto con la Lega Nord, stavolta,
nell’immediato, la minaccia di Rifondazione è
ignorata. Il quotidiano romano è il più
festoso. Il lunedì apre, a caratteri cubitali,
con «Ha vinto l’Ulivo», e nel grande
taglio centrale riporta una dichiarazione trionfalistica
del futuro premier: «Prodi: al governo per unire
il paese». Il martedì stessi toni, con
un celebrativo «Il governo di Prodi» nel
titolo, e con un catenaccio enorme che porta nell’anima
il proverbiale ottimismo del leader dell’Ulivo:
«E ora volano lira e Borsa». Il problema-Rifondazione
è dribblato, per il momento, anche da Corriere
e Stampa. Il quotidiano milanese, nella cui proprietà
figura Giovanni Bazoli, banchiere amico del professore
bolognese, titola più neutro: «Vince il
centrosinistra, Ulivo al governo». Le parole fiduciose
(e illusorie) di Prodi dominano anche qui l’apertura
del martedì: «Prodi: “Un governo
per cinque anni”». Identico l’atteggiamento
del quotidiano torinese, che prima titola «Vince
l’Ulivo: “Pronti a governare”»,
e poi, martedì 23, dà anch’esso
voce all’entusiasmo del premier, «Prodi:
‘Nasce il governo dell’Ulivo”».
Il meglio della stampa italiana non mostra scetticismo
verso l’entusiasmo che circonda il progetto prodiano,
anzi sembra quasi fargli da accompagnamento. Ma l’attività
del centrosinistra pian piano eroderà questa
fiducia, e dall’altra parte la stampa stessa,
dopo aver appoggiato indirettamente la coalizione, democraticamente
inizierà un’opera di critica serrata. Il
primo segnale viene al livello delle direzioni. A Roma
Scalfari lascia la poltrona a Ezio Mauro, direttore
de La Stampa e ex corrispondente da Mosca di
la Repubblica. A Torino si accomoda un uomo
vicino al centrodestra, Carlo Rossella: serve dinamismo
e un pizzico di cattiveria per rompere il fronte di
una stampa un po’ troppo filoulivista. E’
il maggio del 1996, e il centrosinistra deve dimostrare
di essere all’altezza delle aspettative.
(continua…)
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