Giulio
Sapelli è professore ordinario di Storia Economica
presso l'Università degli Studi di Milano,
dove insegna anche Analisi Culturale dei Processi
Organizzativi, e dove è stato anche direttore
del corso post laurea in Economia, impresa e discipline
umanistiche tra oriente e occidente della Facoltà
di Lettere e Filosofia. Gli abbiamo chiesto di inquadrare
il discorso della responsabilità sociale delle
imprese all'interno del quadro internazionale e alla
luce del caso Parmalat.
Professor Sapelli, in che cosa consiste la
responsabilità sociale di un'impresa?
Consiste in due movimenti transitivi: il rapporto
con la comunità in cui l'impresa vive e opera,
secondo cui l'impresa vede nell'aiutare lo sviluppo
autonomo ed endogeno di quella comunità uno
dei fattori della sua stessa crescita, e la scelta
di concepire l'impresa oltre che come un attore economico
anche come un attore istituzionale, un soggetto storico.
L'impresa ha anche fini extraeconomici: il fatto stesso
che essa esista crea ceti, classi sociali e culture.
Porre questa nozione all'interno di un processo di
tipo trascendentale, cioè farla passare da
una semplice empiria ad una concezione consapevole,
vuol dire considerare l'impresa un'istituzione della
divisione sociale del lavoro di tipo durkheimiano,
alla quale sono affidati dalla società non
solo compiti economici ma anche compiti che per ora
possiamo chiamare istituzionali.
In che modo si articola il comportamento
etico delle imprese?
Esistono
due tipi di responsabilità: quella interna
verso i propri people, che io chiamo "etica
nell'impresa", e quella verso la comunità,
che io chiamo "etica dell'impresa".
Questi concetti partono filosoficamente dalla distinzione
fra etica e morale, laddove la morale appartiene all'integrità
personale, alla sfera della coscienza, mentre l'etica
è la scelta consapevole di un gruppo di persone
di condividere, in vista di un determinato fine, alcune
sfere dell'azione morale.
Qual è il fondamento etico che dovrebbe
sottendere all'operato di un'azienda?
Il rispetto della persona in tutte le sue forme e
della comunità. Oggi, con l'avvento di un capitalismo
a mercato dispiegato, si è aggiunto il rispetto
di coloro che investono nell'impresa. Mentre le altre
due dimensioni interessavano i cosiddetti stakeholder,
quest'ultima riguarda gli shareholder, cioè
gli azionisti. Oggi anche governance, transparency,
discolsure e accountability fanno parte dell'etica
dell'impresa.
Come mai questi concetti sono espressi, anche
in Italia, quasi esclusivamente in lingua inglese?
E' vero che la Germania è stata la terra di
origine della responsabilità sociale delle
imprese in un'economia a mercati chiusi, che ha riguardato
il rapporto con la comunità in primis e poi
il rapporto con i people - mediato anche
da un certo paternalismo. Ma la responsabilità
sociale dell'impresa inizia dal grande filantropismo
del capitalismo anglosassone, che - ne sono profondamente
convinto - è una forma superiore di civiltà
rispetto al capitalismo eurasiatico, molto più
barbarico. Su questi temi ci si esprime dunque in
termini anglosassoni perché combinano le due
grandi correnti storiche della corporate social
responsibility, cioè quella verso gli
stakeholder, di origine più europea,
e quella verso gli sharelholder, di origine più
anglosassone.
Quali probabilità ha una concezione
della responsabilità delle imprese che ha origini
anglosassoni di attecchire in Italia?
L'esperienza di Transparency
International, della quale sono stato rappresentante
in Italia anni or sono, insegna che la credenza nella
legalità e nell'etica da noi è molto
bassa: come diceva Leopardi nello Zibaldone, l'Italia
ha solo usanze, non virtù. In Italia abbiamo
sentito senatori della Repubblica che erano anche
capi di grandi imprese osannare i loro dirigenti perché
avevano rubato non per loro ma per l'azienda: qui
non vale la responsabilità personale ma quella
verso l'organizzazione.
Tuttavia ci sono segnali molto positivi, che non
sono le varie forme di certificazione etica delle
aziende, alle quali sono contrario. L'Italia è
la terra delle piccole e medie aziende, dove l'impresa
collima con l'imprenditore, e se l'imprenditore è
una persona integralmente morale l'impresa può
avere un comportamento etico. Tante piccole e medie
aziende italiane cercano di fare stare bene i loro
dipendenti, ne rispettano l'integrità e fanno
molto anche per la comunità.
E' possibile che dietro questo atteggiamento
ci sia la convinzione che un comportamento etico dell’impresa
possa generare un maggiore profitto?
No, queste sono le stupidaggini di chi interpreta
il magistero universitario come un modo per arricchirsi.
Non c'è nessuna prova che un comportamento
etico conduca al successo economico. Ci sono imprese
eticamente mal dirette che fanno grandi profitti e
imprese eticamente ben dirette che invece falliscono.
L'altra nozione ingannevole che certi accademici diffondono
è quella della sovrapposizione fra reputazione
ed etica. Il valore reputazionale, cioè l'immagine
esterna di eticità, non è il valore
etico. Si può farne uso attraverso una buona
politica di marketing e di pubbliche relazioni, ma
spesso ad altissimi valori reputazionali non corrisponde
un comportamento morale. Enron aveva un codice etico
strepitoso, passava per l'impresa che trattava meglio
i suoi dipendenti, perché aveva costruito un
marketing della propria immagine, ma di fatto il suo
comportamento era tutt'altro che etico.
Anche Bruxelles sta meditando di istituire
un codice etico per le imprese...
Bruxelles si occupi della corruzione della sua burocrazia
e ci lasci in pace. Io sono per l'autoregolazione
delle imprese. Meno legge c'è, meglio è.
E' possibile almeno contemplare un'educazione
etica per la dirigenza?
Certo! Ma bisogna rifarsi al concetto tedesco di
formazione. Si può insegnare alla gente a rispondere
a dilemmi etici, ci deve essere all'interno dell'impresa
un clima che renda possibile dire di no davanti a
cose alle quali la propria coscienza morale impone
di dire di no, senza correre il rischio di essere
licenziati. Ma non si può fare attraverso le
leggi e le certificazioni. Temo l'insorgenza di professionisti
dell'etica, che vanno a venderla in giro con la valigetta
alla mano. Per carità!
Il caso Parmalat ha fatto più danno
dal punto di vista etico o economico?
Quello Parmalat è un caso di corruzione, non
di bad governance: è un fallimento
dei controlli interni. Il problema morale di Parmalat,
quello che interessa gli scienziati sociali, è
come abbia fatto una cinquantina di persone a comportarsi
così per dieci anni e a conservare il segreto.
E' un interrogativo che finora apparteneva all'antropologia
mafiosa, e adesso comincia ad appartenere all'antropologia
manageriale.
Che cosa manca al dibattito sull'etica delle
imprese?
L'elemento che sfugge è che l'etica di impresa
incorpora in sè la problematica del dono, della
gratuità dell'atto. Senza carità la
giustizia è crudele, senza giustizia la carità
è pelosa. Dobbiamo imparare a coltivare nella
nostra vita uno spazio in cui donare senza ricevere
nulla in cambio. Le imprese più etiche secondo
me sono quelle che agiscono anche in quei settori
dove non sono presenti imprenditorialmente: se do
dei soldi per i bambini di un Paese dove non ho neanche
una filiale o una banca compio un atto etico, che
servirà a rafforzare il valore morale dei miei
dipendenti e dei miei manager. Se poi alcuni miei
dipendenti fanno anche del volontariato, allora ho
fatto del bene alla mia società.
Quello del dono a fondo perduto non è solo
un messaggio cristiano, proviene anche dall'Islam:
le due religioni del Libro sono unite su questo tema.
Il concetto di fratellanza musulmana non va visto
solo nell'ottica del terrorismo. L'Islam è
fondato sul dono: basti pensare che le banche islamiche
fanno prestiti senza interesse. Perché quello
dell'etica delle imprese è un valore universale.
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