"Il capitalismo, in assoluto, ² un sistema giusto o sbagliato? Se vogliamo trovare una risposta definitiva a questa domanda, non ² nell'etica degli affari che la troveremo.
Quando chiamiamo in causa parole come responsabilitö sociale dell'impresa, sostenibiltà e stakeholder analisys,
lo facciamo per capire che un capitalismo che si attenga
a delle regole è migliore di un capitalismo
selvaggio, e che noi stessi, come cittadini, consumatori
o imprenditori, preferiamo investire su un’idea
del mondo che sia la migliore possibile”.
Autore di Etica Pubblica (Il Saggiatore),
docente di Filosofia Politica alla Luiss dove dirige
il Centro di Ricerche e Studi sui Diritti Umani, Sebastiano
Maffettone affronta il discorso sull’etica degli
affari e la responsabilità sociale dell’impresa
aggirando gli apparati teorici e avvicinandosi alla
cronaca dei nostri giorni:
“Invece di cominciare dalla definizione dei
concetti principali e dalla presentazione di una teoria,
forse conviene fermarsi un po’ su quello che
accade ai nostri giorni, e in particolare sul caso
Parmalat.
Secondo me è metodologicamente interessante
guardare un caso specifico perché può
essere indicativo della mentalità che si ha
verso la responsabilità sociale dell’impresa”.
E allora quali indicazioni ci vengono dalla
vicenda Parmalat?
Nel caso Parmalat, da quello che siamo in grado di
sapere e fatte le debite riserve, sembra che ci sia
stata una mancanza non solo di etica, ma di diritto,
di accuratezza; in sostanza sembra che sia un imbroglio
bell’e buono. Come reagire? Ci sono diversi
atteggiamenti possibili, ma due in particolare sono
significativi. Possiamo chiamarli uno l’atteggiamento
massimalista e l’altro atteggiamento riformista.
Seguendo
il primo si sostiene che il capitalismo ha una natura
costitutiva malefica, per cui il capitale presenta
all’esterno una faccia pulita ma la verità
è nascosta dietro i fatti, ed è fatta
di imbroglioni e truffatori, tutti, nessuno escluso,
con la sola differenza che qualcuno si fa scoprire
e altri no. Secondo questa visione il capitalismo
è una realtà enorme dominata da “spiriti
animali”, dalle forze imprenditoriali schumpeteriane
che prevalgono su ogni altro aspetto della vita. L’interesse
che muove queste forze è unicamente quello
di accrescere i profitti, a volte questo scopo si
accompagna alla realizzazione di innovazione tecnologica,
altre volte si limita al semplice accrescimento degli
introiti. Questo è uno dei modi con cui si
può guardare alla realtà delle cose,
è un aproccio che possiamo definire massimalista,
ma allo stesso tempo è una lettura apocalittica:
che ci piaccia o no il capitalismo globalizzato ci
si presenta con la faccia di un’enorme truffa
internazionale contro la quale non c’è
soluzione, non c’è salvezza salvo la
scelta di adattarsi.
Ma esiste un modo diverso di guardare alle dinamiche
del capitalismo, un modo che io chiamo riformista.
E’, quest’ultimo, il punto di osservazione
di chi non si accontenta di un giudizio sommario e
si sforza di entrare nel merito della faccenda, ed
è in questo modo di guardare alla realtà
che entrano in gioco i discorsi sulla responsabilità
sociale dell’impresa.
Cosa intende quando dice di guardare al capitalismo
con occhio riformista?
Ho detto riformista, possiamo anche dire socialdemocratico,
ma non sto utilizzando definizioni politiche o partitiche,
sto semplicemente mettendo in gioco una questione
culturale. Quello a cui mi riferisco è l’atteggiamento
di chi, di fronte al capitalismo, non si ferma a un
discorso generalizzato ma fa delle distinzioni fino
ad arrivare a vedere che ci sono diversi modi per
essere imprenditori, e che quindi esiste un tipo di
capitalismo responsabile.
Eppure il caso Parmalat ci farebbe pensare
a un capitalismo che non guarda in faccia a nessuno
e ad imprenditori che pensano solo alle proprie tasche…
In realtà mi pare proprio il contrario. Io
credo che la vicenda di Tanzi e della sua azienda
sia uno di quei casi emblematici che ci fanno capire
quanto sia pericoloso accettare il capitalismo selvaggio,
senza vincoli. Lungi dall’essere una messa in
crisi dell’approccio etico al capitalismo, casi
come quello della Parmalat sono una conferma di quanto
siano indispensabili delle regole.
Proprio da quest’assunto inizia e si sviluppa
l’etica degli affari: esiste un capitalismo
selvaggio ed uno che invece si pone dei limiti, delle
condizioni al proprio sviluppo, l’etica serve
a scoraggiare il primo e a favorire il secondo. Il
concetto di responsabilità sociale, infatti,
contiene in sé l’idea che l’impresa
non risponde solo all’imperativo della massimizzazione
del profitto, ma ha interessi più vasti e ampi
che sono genericamente di natura sociale.
Una visione, mi sembra di capire, che si pone
al centro tra un’interpretazione che possiamo
attribuire alla sinistra radicale e la visione tipica
del liberismo più intransigente.
Esattamente in mezzo a questi due modi di vedere
le cose. Per quanto siano opposte, le due visioni
estreme della sinistra (che intende il capitalismo
come il male assoluto) e del liberismo (che rifiuta
ogni regola) hanno in comune il fatto di considerare
il profitto come il motore unico del sistema: per
una è una maledizione che porta alla costruzione
di un mondo orrendo, per l’altra è una
benedizione. Ma per entrambe il profitto è
il protagonista indiscusso.
Nella visione riformista, invece, esistono degli altri
valori che si affiancano al profitto.
Ci spieghi meglio. Questo come influisce sulla
gestione delle aziende?
L’idea che gli imprenditori debbano occuparsi
non solo degli utili, ma si debbano confrontare con
la responsabilità sociale, ha fatto sì
che il modello teorico con cui accostarsi al mondo
dell’impresa sia radicalmente cambiato, passando
così da quello che si chiama modello degli
shareholder, al modello degli stakeholder.
Gli shareholder sono gli azionisti, per
cui il quadro teorico che riguarda loro è interessato
a soddisfare gli interessi della proprietà,
in sostanza la priorità per l’azienda
è fare soldi e distribuirli agli azionisti.
Mentre invece un’impresa che guarda
con attenzione alla responsabilità sociale
si pone altri obiettivi.
Sì, ma intendiamoci: guadagnare denaro ed
accrescere il profitto rimane non solo tra gli obiettivi
di ogni azienda, ma è anche una condizione
necessaria all’esistenza stessa dell’impresa.
Il fatto è che l’etica degli affari sostiene
che esiste la necessità di dedicare attenzione,
risorse ed energie non solo agli azionisti, ma anche
ad un insieme composito di persone che hanno rilevanza
nella realtà delle aziende, e questi sono gli
stakeholders, e cioè la direzione
dell’impresa, gli operai, gli impiegati, la
comunità di riferimento, l’ambiente,
la pubblica amministrazione. Da qui nasce un modo
di intendere la gestione dell’impresa che invece
di essere verticistico, come tradizionalmente era,
diventa diffuso, secondo uno schema di funzionamento
pluralistico, che deve tener conto di esigenze di
persone diverse, non solo dei proprietari.
In termini concreti come si traduce la teoria
degli stakeholder?
In effetti si tratta di una teoria su cui si fonda
tutto il pensiero che fa riferimento alla responsabilità
sociale dell’impresa, però è solo
un modello, un approccio formale che per tradursi
in pratica ha bisogno che si definisca esattamente
che cosa debbano fare i manager per gestire un’azienda
in maniera etica.
In altre parole la teoria degli stakeholder
ci dice solo che a un modello gerarchico bisogna sostituire
un modello più democratico di tipo contrattualistico
più coerente con le teorie riformiste, e che
quindi porti alla democratizzazione degli ambiti del
lavoro aziendale, ma stiamo ancora parlando di una
struttura formale, che non ci dice ancora su cosa
deve impegnarsi l’azienda. Una proposta interessante
in questa direzione è stata fatta dalle teorie
della sostenibilità.
La sostenibilità è un concetto di matrice
ambientalista affermatosi a metà degli anni
Ottanta e poi diffuso da quelle discutibili ma importanti
assemblee che si sono svolte a Kyoto (1997) e Johannesburg
(2002). In generale con questa parola si indica la
ricerca di una mediazione nei processi di sviluppo
fra le opposte posizioni di chi si dice a favore della
cosiddetta “crescita zero”, come alcuni
ambientalisti radicali a partire dagli anni Settanta
che vedevano in ogni innovazione un pericolo per l’ambiente,
e di chi invece sostiene la massimizzazione della
crescita come la destra economica. In altre parole,
la teoria della sostenibilità guarda allo sviluppo
con la cautela di chi vive la preoccupazione per le
generazioni future, l’attenzione di chi non
vuole perdere di vista l’equilibrio tra il presente,
il passato e il mondo che lasceremo ai chi verrà
dopo di noi.
Nel corso degli anni la teoria della sostenibilità
ha vissuto un’espansione che dalle tematiche
ambientali l’ha arricchita di aspetti sociali
ed economici, portandola ad applicazioni nella gestione
d’impresa dove le sue caratteristiche principali
sono equità ed efficienza.
Dunque, se ho ben capito, la teoria della
sotenibilità nasce in ambito ecologista per
poi trasferirsi alla gestione delle aziende. In questo
passaggio diventa una teoria più complessa
di quanto non fosse alle sue origini e prende in considerazione
non solo sviluppo e progresso in termini generali,
ma segue dei parametri nuovi che sono l’equità
e l’efficienza. In che modo si manifestano queste
nuove misure?
Un’azienda sostenibile è efficiente
quando è capace di affrontare una sfida del
mercato in modo tale da rispondere in maniera innovativa.
Forse aiuterà a capire meglio il concetto sottolineare
che i francesi traducono la parola sostenibilità
(che in inglese è sustainability)
con durabilité, un termine che rende
bene l’idea di quello di cui stiamo parlando:
un’impresa durevole è un’impresa
che è capace di rinnovarsi, di rispettare le
persone e, avendo successo, di rispettare anche l’ambiente.
Abbiamo fin’ora parlato di un modello teorico
(la stakeholder analysis) e di un modello
sostantivo (quello basato sulla sostenibilità),
ma non abbiamo ancora incontrato il modo in cui la
responsabilità sociale dell’impresa,
quella sorta di scommessa riformista con cui abbiamo
iniziato la nostra conversazione, incontra il modo
concreto in cui lavorano le imprese, cioè abbiamo
bisogno di indicatori che ci permettano di passare
dai principi teorici alla misurazione effettiva delle
condizioni che collegano la performance etica a quella
imprenditoriale in senso stretto.
Perché è di questo che si tratta: verificare
se un comportamento coerente con la responsabilità
sociale dell’impresa ci porta anche al profitto.
Humanity, la onlus nata nell’ambito del Centro
di Ricerche e Studi sui Diritti Umani della Luiss,
ha contatti con Sam, una società di Zurigo,
e con Dow Jones allo scopo di stilare una classifica
delle imprese italiane quotate in borsa secondo degli
indicatori di sostenibilità. Il progetto si
sviluppa attraverso un benchmarking, cioè
una valutazione comparativa che ci permette di stilare
una graduatoria delle aziende prese in considerazione.
Quali sono gli indicatori di sostenibilità?
Sono tanti, circa trecento, alcuni riguardano l’efficienza,
alcuni l’equità, altri ancora il rispetto
dell’ambiente. Attraverso dei questioniari cerchiamo
di verificare atteggiamenti e valori diversi, come
l’equilibrio tra costi e ricavi, il rapporto
tra dirigenti e personale, in che modo i dipendenti
percepiscono l’atteggiamento dell’azienda
verso di loro. Il risultato è una serie di
dati dai quali scaturisce un punteggio; dai punteggi
totalizzati arriviamo a formulare una scala comparativa
delle aziende, che è utile a verificare la
sostenibilità dell’azienda in senso relativo,
ma non ha alcun valore assoluto. In altre parole,
dal punto di vista dell’etica degli affari si
può dire se un’azienda funziona meglio
o peggio di un’altra, ma non se in assoluto
è buona o cattiva.
Non ci sono parametri che tengano conto del
successo o della posizione dell’azienda all’interno
del mercato? Insomma, lo ha detto anche lei, un’azienda
funziona se guadagna.
Naturalmente tutto ciò sarebbe un esercizio
lodevole ma sterile se non ci fosse un riscontro finanziario.
E’ qui che la responsabilità sociale
dell’impresa, vista come istituzionalizzazione
attraverso codici etici, documenti, bilancio sociale
e bilancio ambientale, si congiunge con la finanza
etica.
Queste misurazioni sono significative non solo per
sapere come si comporta un’impresa, ma anche
per fare, per investire. Infatti esiste una certa
corrispondenza tra imprese classificate in posizioni
alte nella classifica della sostenibilità e
rendimento azionario. E non è affatto sbagliato
pensare di poter costruire portafogli di azioni di
imprese sostenibili. Esiste un pubblico che preferisce
investire su un’azienda che soddisfa alti valori
di sostenibilità anche al di là del
profitto inteso in senso stretto, esistono persone
a cui piace pensare che l’impresa si comporti
in maniera decente verso l’ambiente, verso il
personale, verso la comunità.
Vista in questo modo l’etica degli affari non
cerca affatto una giustificazione del capitalismo,
non è qualcosa che possiamo considerare indipendente
dal mercato; quello che invece si ricerca è
la legittimazione di un modo accettabile per fare
affari, un modo che ci tenga lontani dai disastri
come quello della Parmalat.
La sostenibilità quindi è anche
un veicolo per incrementare il profitto, non solo
un comportamento etico.
Sì, credo che la finanza etica ci dia delle
risposte sulle imprese su cui ci piace investire i
nostri soldi. Noi non parliamo di responsabilità
sociale per capire se, in ultima analisi, il capitalismo
è giusto o sbagliato. La mia tesi è
che quando avviciniamo l’etica al mondo degli
affari facciamo qualcosa di utile che ci aiuta a capire
che un capitalismo selvaggio non è uguale a
un capitalismo regolato, che il secondo è meglio
del primo.
Concludendo, possiamo dire che l’etica
degli affari è la ricerca di un capitalismo
migliore, di un modo di generare profitto senza però
dimenticare che viviamo in una società complessa
che ci chiama a prendere atto delle nostre responsabilità
di fronte a chi lavora con noi, di fronte all’ambiente,
di fronte alle generazioni future?
Quando parlo di una visione riformista del mercato
intendo che il profitto ha una importanza fondamentale
all’interno del sistema capitalistico, ma è
affiancato da altre esigenze, da altri valori che
all’importanza del profitto aggiungono un’immagine
migliore del mondo. Un antropologo direbbe che investire
consapevolmente sulla responsabilità sociale
dell’impresa è un rito di passaggio perché
ci aiuta a identificarci come persone che lavorano
e vivono in un mondo più decente.
Secondo Max Weber tra i modi in cui ci procuriamo
da vivere e i modi con cui diamo senso alla vita è
necessario un minimo di coerenza, altrimenti la società
si spaccherebbe, non reggerebbe l’urto della
realtà, non sarebbe sostenibile. Se questo
è vero, allora tra il modo in cui noi produciamo,
cioè il sistema capitalistico, e il modo con
cui noi riflettiamo su noi stessi e ci concepiamo
come esseri umani decenti, ci deve essere un rapporto.
Tutto quanto concerne la responsabilità sociale
dell’impresa e la business ethic, ha
esattamente di mira questa coerenza.
Gli esseri umani sono esseri complicati che hanno
esigenze produttive e riproduttive, bisogni materiali,
ma allo stesso tempo coltiviamo esigenze spirituali
che ci portano a giustificare noi stessi di fronte
al senso della vita e della morte.
Se queste due dimensioni vanno in direzioni completamente
opposte è molto difficile per ciascun individuo
riconciliarle nell’unità della propria
esistenza e si verificherebbe una versione schizzofrenica
dell’essere umano.
Credo che una visione riformista, che sappia mediare
tra due estremi, possa aiutarci ad evitare questo
pericolo. Tanto il radicalismo di sinistra quanto
quello liberista immaginano che l’uomo sia percorso
da una doppia identità, da una parte dovrebbe
comportarsi come una macchina razionalista puramente
tesa alla razionalità economica, dall’altra
dovrebbe trovare spazio per la sua sfera affettiva.
Se così fosse non ci sarebbe così nessun
rapporto tra le due dimensioni del vivere e credo
che questo sia profondamente sbagliato. Io, personalmente,
non mi vedo così, mi vedo invece più
o meno continuo e coerente tra la persona che dimostro
di essere quando lavoro e la persona che sono a casa
e nella mia vita privata.
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