Quello che segue è il resoconto dell'intervento
di apertura al convegno "Classe dirigente. E'
tempo di volpi o tempo di leoni? che si è tenuto
a Milano lo scorso 26 gennaio. Obiettivo del convegno,
organizzato da Società
Libera , era "stimolare considerazioni sulla
formazione della classe dirigente, nella convinzione
che alle competenze e alle conoscenze specifiche occorra
affiancare la cultura della responsabilità
individuale, intesa come vocazione all'interesse comune".
Quando
progettammo questo convegno avvertivamo l'esigenza
di creare un'occasione di riflessione sulle componenti
più significative di quella che percepiamo
come classe dirigente. Da qui la presenza di relatori
di varia estrazione professionale, a testimonianza
di un primo assunto: e cioè che per classe
dirigente intendiamo una realtà vasta ed articolata
e crediamo che non vi possa essere nessuna dicotomica
valutazione tra dirigenza politica e quella che, con
un'enfatica espressione, viene indicata come società
civile. Certo, vi sono responsabilità, livelli
e funzioni che in grado diverso condizionano la nostra
quotidianità, ma crediamo che la nostra analisi
non debba e non possa presupporre compartimenti stagni,
né frontali contrapposizioni.
Solo un paio di mesi fa eravamo ben lontani dall'immaginare
quale livello avrebbe raggiunto la crisi di credibilità
della dirigenza del mondo bancario ed imprenditoriale,
di quel mondo che comunemente indichiamo come capitalismo
finanziario. Non senza una buona dose di demagogia
si indicano, genericamente, i risparmiatori come le
principali vittime di una situazione e di uno scenario
che desta molte inquietudini. Questo è certamente
vero, ma oggi a noi preme sottolineare che altrettanto
vittima è chi, come noi di Società Libera,
fortemente crede che il liberalismo abbia innanzitutto
un fondamento etico che scaturisce dalla valorizzazione
dellla persona in quanto tale, dalla sua capacità
di iniziativa, dall'esaltazione del principio di responsabilità
individuale, in un quadro di riferimento verso l'interesse
comune.
La
nostra concezione del liberalismo ci porta ad essere
le vittime culturali di una crisi che non è
contingente, non è legata al mancato rimborso
di bond argentini, Cirio o Parmalat o all'azzeramento
del valore di titoli azionari. Se così fosse,
saremmo solo nell'ambito di una crisi finanziaria
e a soffrirne sarebbe solo il capitale di rischio
coinvolto. La criticità della situazione riferita
alle democrazie occidentali trova nelle turbolenze
economico-finanziarie solo l'iceberg più evidente
in quanto tocca interessi e prospettive economiche
di tutti, e quindi più drastico e vasto risulta
essere il giudizio sulla dirigenza imprenditoriale
e finanziaria.
Partendo dalla riflessione paretiana e dall'intuizione
di Machiavelli, da cui abbiamo coscientemente voluto
mutuare il titolo stesso del nostro convegno, non
credo che si possano attribuire alla sfera dei "leoni"
l'azione, le prospettive, la visione strategica, il
grado di responsabilità individuale, la stessa
formazione dell'intera classe dirigente. La formazione,
appunto, è uno snodo essenziale nel processo
di costituzione di una dirigenza, e sarà interessante
comprendere per alcuni settori - si pensi alla Chiesa,
per esempio - quali siano i percorsi e gli obiettivi
alla base dell'iter formativo; per altri, si pensi
alla politica, l'interesse è su come si immagina
di supplire alla totale assenza di selezione, di processi
e occasioni formativi, una volta sgombrato il campo
da convincimenti quali quelli che la selezione, in
politica, è effettuata dall'elettorato. Quest'ultimo,
infatti, sceglie ciò che in altra sede è
stato già individuato.
Formare élite dovrebbe significare formare
soggetti sociali, capaci di perseguire il proprio
legittimo utile coniugandolo a processi di miglioramento
collettivo. Crediamo che sbaglierebbe chi pensasse
di affrontare il momento di criticità che l'Occidente
attraversa e che incide reciprocamente sulle nostre
classi dirigenti solo attraverso riforme e correttivi
tecnicistici.
Certo, bisogna dispiegare tutta la nostra capacità
ingegneristica e riformatrice. Attenti, però,
a non compiere passi indietro strutturali e culturali
rispetto alla necessità di mantenere bassa
la presenza della mano pubblica. La nostra concezione
del liberalismo ci porta a diffidare della moltiplicazione
dei controlli di processo: una maggiore qualità
nei risultati si ottiene con pochi, ma chiari ed efficaci
controlli. Il liberalismo ha bisogno sì di
regole, ma che siano poche, chiare e condivise.
Ben vengano quindi i correttivi, ben vengano le necessarie
incompatibilità, la separazione tra controllati
e controllori, ben venga l'operare di una classe dirigente
nitida nelle sue funzioni e nella sua missione. Ma,
anche in assenza di avvenimenti eclatanti e traumatici,
non ci sentiremmo di sostenere che l'equilibrio tra
volpi e leoni sia comunque a favore dei secondi. L'inadeguatezza
della classe dirigente la si avverte e la si percepisce
tanto più quando è costretta ad operare
in modo difensivo, quando è costretta a correggere
più che a progettare, quando guarda al passato
più che al futuro, quando è tesa alla
ricerca di equilibri rassicuranti più che all'interpretazione
in senso popperiano del futuro.
L'Occidente avverte il bisogno di una leadership
che sappia salvaguardare l'esistenza di uno stato
di diritto coniugandolo con il massimo della partecipazione
e della libertà. Il liberalismo politico, pur
vincente, ha subito seri contraccolpi, causa il terrorismo,
le contrapposizioni religiose, la distorsione dei
mercati, finanziari e non (si pensi al devastante
fenomeno della mucca pazza), la globalizzazione con
la relativa riformulazione del mercato del lavoro
- tutti elementi di criticità che massicciamente
impattano sulla stessa tenuta dei meccanismi istituzionali
e della classe dirigente.
A seguito di questi veloci, traumatici cambiamenti,
compito e dovere di una classe dirigente sarebbe il
chiedersi, ad esempio, quale sia il ruolo delle assemblee
legislative, se esiste ancora una centralità
del Parlamento. Compito e dovere sarebbe il chiedersi
come immaginiamo in futuro la formazione del consenso
politico e se ha ancora un qualche significato, rispetto
ad una concezione liberale del diritto di cittadinanza,
l'essere chiamati ogni cinque anni ad esprimere il
gradimento per una persona. E ancora: come immaginiamo
i rapporti, gli equilibri internazionali tra Stati
Uniti ed Europa, dei quali coltiviamo un'idea al tempo
stesso retorica e bizzarra, e come immaginiamo i rapporti
con la futura superpotenza cinese?
Rispetto a questi doveri, rispetto a questi compiti
c'è da sorridere al pensiero del caso Parmalat
e alla disputa, tutta in politichese, sui mancati
controlli. Qui non siamo neppure più sul terreno
delle volpi. Globalizzazione, società neo-industriale,
postdemocrazia sono sì manierismi semantici,
ma indicano profondi mutamenti sociali e culturali,
concetti che la classe dirigente utilizza ma non metabolizza,
come fa anche il mondo del giornalismo, lontano quanto
mai da inchieste, fatti, dati, denuncie, vicino sempre
e comunque alla politica politicante, al chiacchiericcio
domestico, al resoconto. Forse, il giornalismo offre
un modello tra i più modesti di classe dirigente.
E allora come uscirne, come innalzare il livello?
Forse in alcuni casi è sperabile un processo
di autoresponsabilizzazione, di autocoscienza, ma
non generalizzerei. Il Paese ha bisogno di uno scatto
di reni, di un sussulto etico, di una profonda trasformazione
culturale che, investendo tutti noi, coinvolga anche
la classe dirigente. Una classe dirigente che per
essere tale deve affiancare alla sua specifica professionalità
la capacità e la voglia di essere soggetto
di cambiamento.. Deve affiancare cioè al sapere
specifico, alle competenze particolari la vocazione
ad essere comunità, non corporativa ma culturale,
tesa alla modernizzazione, al futuro, alla progettualità
per la salvaguardia dell'interesse comune.
Questo non vuole essere un appello ai nobili sentimenti,
non avremmo molto materiale su cui lavorare. E' un'esortazione
a noi tutti: il Paese ha bisogno di una mobilitazione
delle coscienze che, al di là di obsolete divisioni
tra destra e sinistra, sia capace di risvegliare il
nostro sentimento di appartenenza ad una comunità,
la nostra voglia di cittadinanza. Non ci aspettiamo
molto dalle forze politiche, né dalla cultura
dell'ufficialità.
Del resto, il senso e la ragione di esistere di movimenti
culturali come Società Libera consiste proprio
in una funzione di supplenza e di stimolo. Siamo nati
per approfondire e promuovere una certa idea del liberalismo.
Vogliamo essere un'opportunità di collegamento
per coloro che condividono la necessità di
riflettere su cosa una società liberale richieda,
per essere sostanzialmente tale. Un'opportunità
per soffermarsi, oltre che sulle affermazioni, anche
sulle difficoltà e gli insuccessi che la cultura
del liberalismo incontra. Vogliamo contribuire alla
realizzazione di una società aperta, convinti
che questo modello sappia favorire un incremento di
opportunità per tutti. Il nostro impegno è
di far crescere una comunità culturale, di
persone intellettualmente libere, disposte a partecipare
ad un progetto che vada al di là di convenienze
e conformismi e di cui questo convegno vuole essere
un esempio.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it