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Alla ricerca della società decente


Alessandro Ferrara

 

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Solo ogni tanto, fra le migliaia di volumi che annualmente si pubblicano intorno a temi di filosofia politica e sociale, ne appare uno che realmente sposta i termini della discussione. E' il caso di "The Decent Society", opera matura di Avishai Margalit, filosofo della politica israeliano che ha insegnato a Oxford, Harvard e Princeton, di recente tradotta in italiano (per la cura di Andrea Villani) con il titolo "La società decente", per i tipi di Guerini & Associati.

Come spesso accade in filosofia, il valore di una nuova posizione si manifesta come messa in questione dell'ovvio. In questo caso, il libro di Margalit sarebbe scivolato via, tanto nelle recensioni come nel ricordo comune, come una delle tante variazioni sul tema – riportato in auge da Rawls più di un quarto di secolo fa – della società giusta e dei suoi requisiti istituzionali, se non fosse che Margalit coniuga il suo termine chiave, appunto la società decente, come non coincidente e in qualche caso in tensione con quello di società giusta.

Laddove la società giusta è la società che distribuisce equamente i suoi beni primari – libertà, reddito, ricchezza, autorità, rispetto di sé, ecc. – la società decente è la società che non umilia, attraverso le sue istituzioni, quanti si trovano a viverci.

In linea di principio, osserva Margalit, la società giusta è anche una società decente – certamente lo è nelle intenzioni di Rawls e di larga parte della filosofia politica liberale di stampo progressive. In pratica però non è difficile ipotizzare casi in cui l'equazione non funziona più – e sono casi in cui riconosceremo l'immagine delle società complesse in cui viviamo.

In primo luogo, l'equa distribuzione dei beni primari (Rawls) o dei diritti (Dworkin) o del potere di decidere sull'assetto istituzionale della società (Habermas) – che costituisce il perno attorno a cui ruota l'idea di società giusta – è sempre una distribuzione i cui destinatari sono i "membri certificati", i cittadini della società stessa.

Ai suoi cittadini la società giusta garantisce anche un equa distribuzione del rispetto di sé, ovvero l'esenzione da esperienze di umiliaizone. Ma la condizione che da qualche decennio è tipica delle società complesse è quella di contenere al proprio interno ampi strati di popolazione costituiti da non-cittadini – immigranti legali e illegali, rifugiati politici, esiliati, ecc. – i quali vivono stabilmente e operano nella società, ma godono di diritti limitati. Una società può essere giusta nei confronti dei suoi cittadini e tuttavia infliggere umiliazioni a coloro che vi abitano senza esserne a pieno titolo cittadini.

 

In secondo luogo, l'idea di equa distribuzione di qualcosa, osserva Margalit, non esclude di per sé che l'umiliazione si annidi nel modo in cui la distribuzione avviene. Si possono distribuire generi di prima necessità in quantità equa a una popolazione stremata dalla carestia e tuttavia gettarli da un camion senza maggior riguardo al rispetto di sé dei destinatari di quello che si userebbe nel gettare del cibo a una muta di cani affamati e costringendo chi dipende da questi beni per la propria sopravvivenza a una lotta gomito a gomito lesiva della dignità di esseri umani.

Inoltre, in uno spirito di genuino pluralismo, Margalit fa notare come possano esistere società decenti, le cui istituzioni non umiliano chi entra in contatto con esse, le quali però non soddisfano i nostri criteri di giustizia. Per esempio, anche società senza un forte concetto di diritti – per esempio le società asiatiche – possono peraltro sviluppare dei concetti di onore e di umiliazione, nonché dei codici di comportamento applicabili a coloro che godono delle prerogative della ricchezza e dell'autorità, che ce le fanno percepire come società decenti.

 

In questa riflessione di Margalit vengono a maturazione e trovano una sistemazione organica diversi motivi già da tempo presenti nella discussione in ambito di filosofia politica e sociale. Uno di questi motivi è costituito dall'accrescersi dell'importanza del tema del riconoscimento e di quanto ne costituisce il presupposto: costituzione intersoggettiva dei soggetti, centralità dell'identità, nesso di identità e rispetto, l'umiliazione come male primario speculare ai beni primari distribuiti da istituzioni giuste.

Nota distintiva del lavoro di Margalit è, da questo punto di vista, una saggia impostazione "fallibilistica", in negativo: come è più facile identificare la malattia che la salute, così è più agevole costruire una concezione della società decente intorno al concetto di "assenza di umiliazione" che non in base a un qualche ideale positivo di "rispetto della dignità".

Non si dimentichi però che umiliazione è qui un termine preciso, non coincidente con l'uso comune. Laddove nell'uso comune ogni "retrocessione" nella scala dello status sociale è umiliazione, oppure una grave sconfitta in un gioco competitivo può costituire umiliazione, nel significato proposto da Margalit umiliazione è qualcosa di più grave: è essenzialmente estromissione simbolica dall'apparteneza al genere umano, ovvero non essere trattati come esseri umani a pieno titolo.

 

Margalit, infine, è assai parsimonioso con la parola "teoria". Dopo avere ampiamente analizzato il concetto di umiliazione, i suoi concetti limitrofi e la sua struttura paradossale, in modo assai "modesto", ma in realtà prudente, nega al suo discorso lo statuto di una teoria,tanto nel senso rawlsiano di una spiegazione dei presupposti su cui si basano i giudizi corretti in materia di giustizia, quanto nel senso di una teoria critica volta a rimettere in questione la parzialità dei giudizi correnti.

La società decente vuole essere piuttosto, nelle intenzioni dell'autore, una "storia della società decente – una storia i cui eroi sono concetti" (p. 291), concetti raggruppati in un unico campo di cui fanno parte "onore", "rispetto", "dignità", "riconoscimento" e, appunto, "umiliazione".

"La società decente" è un libro che farà discutere moltissimo anche da noi e che sicuramente contribuirà a ridisegnare il profilo di quell'area culturale che si riconosce nel progetto di un liberalismo progressista.

 

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