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Bagarre europea per la riforma del "tre + due"

Giancarlo Bosetti


Giancarlo BosettiI professori universitari sono, come tutti i corpi professionali, depositari del loro proprio know-how, di tutti i segreti del mestiere, di quella sapienza pratica e di quei sistemi di relazioni con i colleghi e con il mondo attraverso i quali mandano avanti le loro vite, le loro ambizioni, i loro redditi e il loro prodotto, che è la formazione-ricerca. Come tutti i corpi professionali, sono anche tendenzialmente conservatori, nel senso che ogni progetto di riforma, ogni tentativo di cambiamento, ogni discussione sul loro prodotto tende ad apparire come un disturbo.

Fin qui sarebbe tutto normale: se vuoi fare la riforma del commercio te la devi vedere con i commercianti, se vuoi riformare le pensioni te la devi vedere con i pensionati e con i sindacati. Ma c’è una complicazione: i professori universitari sono anche istituzionalmente depositari del sapere. Questo fa si’ che la discussione su una riforma universitaria produca materiali di una difficolta’ senza pari. Gli accademici dominano tutti i discorsi e i metadiscorsi su se medesimi. La quantita’ di profonde riflessioni, sottigliezze, acudezas, sofisticherie messe in moto per sostenere o contrastare un argomento è incommensurabile con i comuni parametri di altre categorie sociali.

Provate a cimentarvi con la questione del "tre piu’ due", ovvero con la proposta di introdurre in Italia la cosiddetta "laurea breve" di tre anni, seguita da biennio, e vedrete che al confronto l’abolizione delle pensioni di anzianita’ è un gioco da ragazzi. Tutto l’apparato sapienziale entra in movimento e le difficolta’ di comprensione crescono al quadrato. Dopo di che, crescono ancora, al cubo, quando nella controversia ci si vuole mettere una contrapposizione politica tra professori di destra e di sinistra, come è avvenuto per iniziativa di Angelo Panebianco, che ha avuto comunque il merito di provocare una vasta discussione sulla riforma (su vari giornali, compreso questo, sono da ricordare gli interventi di Guido Martinotti, Alessandro Figa’ Talamanca, il ministro Ortensio Zecchino, Andrea Casalegno, Umberto Eco, Francesco Alberoni, Franco Rositi).

Ora, la lettura destra-sinistra, cosi’ spesso illuminante nelle grandi questioni pubbliche, da’ in questo caso un contributo uguale a zero. È vero che, a ben vedere, anche in questo campo si puo’ far valere una ispirazione piu’ o meno egualitaria, piu’ o meno inegualitaria, ma in verita’ sulla formazione a livello universitario nessuno difende, da una parte (e fortunatamente), il "diritto alla laurea" per tutti, cosi’ come nessuno sconfessa, dall’altra (e anche qui fortunatamente), la necessita’ di coltivare e valorizzare i talenti piu’ dotati. Per cui un professore come Eco, notoriamente sinistrorso, è piu’ sensibile alle sorti di quei ragazzi "il cui padre, per colpevole distrazione, non è diventato miliardario", mentre il professor Giuseppe Bedeschi, sul "Giornale" ritiene che per definizione se una proposta di riforma viene dal centrosinistra è inutile "chiedere serieta’".

Nonostante queste nuances, tuttavia, possiamo presumere una larga unanimita’ intorno ai fatti: l’Italia ha troppo pochi laureati (7% della popolazione, meno della Grecia e della Spagna, e si laurea solo il 30% degli iscritti), ha troppi studenti parcheggiati come fuori corso, tempi di adempimento degli studi fuori mercato, e ha uno scarto insopportabile fra le esigenze dell’economia e il tipo di formazione erogato dal sistema scolastico.

Da tutta la discussione seguita all’articolo di Panebianco sono venuti fuori molti punti focali di grande importanza – il rapporto tra laurea di primo e secondo livello, il numero chiuso, il burocratismo delle strutture, la complessita’ dei rapporti tra formazione di base in una disciplina e preparazione a uno sbocco professionale piu’ rapido dell’attuale laurea, l’attuazione dell’autonomia degli atenei e la sperimentazione delle novita’ –, ma per il momento credo che si debba far davvero tesoro della decisiva considerazione svolta da Casalegno sul "Sole-24Ore": "Un attacco generico alle riforme rischia oggi di tradursi in sostegno all’immobilismo e alla storica tara delle politiche educative in Italia: la prassi dei veti incrociati". Insomma, tanti deliziosi sofismi per non farne nulla.

Evitiamo dunque di spaventarci e procediamo a esaminare un aspetto cruciale della riforma che nessun governo, di destra o di sinistra, potrebbe evitare: quella che deve istituire un livello di formazione intermedio tra il diploma di media superiore e l'attuale laurea in quattro o cinque anni. Se seguiamo la via, suggerita dall’Istituto Universitario di Studi Superiori (diretto da Franco Rositi), e dall’Universita’ di Pavia (rettore Roberto Schmid), che hanno riunito, nel clima austero di una storica aula di anatomia, esperti e analisti europei dei sistemi accademici (Felicitas Pflichter, Austria; Heinz Thoma, Germania; Jon Gubbay, Inghilterra; Jean Dhombres, Francia; gli italiani Alessandro Cavalli, Guido Martinotti, Giorgio Cusatelli) scopriamo alcune cose e un principio guida per orientarci nella rissa.

La prima è che i dolori di questa riforma riguardano tutti i paesi europei, non solo perche’ in 27 hanno assunto questo impegno, quello di istituire la laurea triennale, in una conferenza internazionale nel giugno del ’99 a Bologna, ma perche’ tutti sono alle prese con i problemi da cui nasce questa esigenza. E tutti cercano di muovere verso questo sbocco omogeneo partendo da situazioni molto diverse, chi avendo un vecchio e poderoso sistema di formazione professionale post-maturita’ ma fuori dell’Universita’, come la Germania, chi non avendocelo per niente o quasi come l’Italia. Le complicazioni per dare coerenza alla riforma su corpi cosi’ diversi sono infinite e coinvolgono tre lati di un triangolo molto difficile da tenere insieme: la formazione orientata alla professione, la formazione orientata alla ricerca, la convivenza di ricerca e insegnamento. Ad uso dei lettori, cerchiamo di spiegare come stanno e come dovrebbero cambiare le cose in Italia, Germania, Francia e Gran Bretagna, dal punto di vista dell’articolazione dei tre livelli di titolo universitario.

In Italia abbiamo attualmente la normale laurea, seguita dal dottorato (orientato tradizionalmente alla ricerca) o dal master (orientato tradizionalmente alla professione, ma attenzione: le due strade post-laurea si stanno in molti casi opportunamente contaminando). A questi due gradini si deve aggiungere nei prossimi diciotto mesi, secondo decreto ministeriale, la laurea di primo livello, o laurea breve, dopo tre anni.

In Germania, come da noi, non c’è ancora la laurea breve e sara’ probabilmente introdotta, anche se la discussione tedesca è complicata dal fatto che la formazione professionale è massicciamente garantita da una istituzione extra-universitaria, la Fachhochschule (vale a dire "scuola di specializzazione superiore") che garantisce il Fachhochschule-Abschluss (ovvero un diploma di specializzazione). I tedeschi hanno quindi attualmente il Magisterium (cioe’ la laurea), seguito dal dottorato o master. Ed il loro problema è quello di inserire un titolo accademico di primo livello che non sia il doppione del diploma di specializzazione (che hanno gia’).

Mentre in Italia la laurea breve, il triennio, avra’ anche la funzione essenziale di riempire il vuoto di professionalita’ nella fascia medio-alta (portando per esempio la preparazione di un chimico proveniente dagli istituti tecnici a livello di un triennio universitario di specializzazione), nella discussione tedesca si va cercando una intrinseca congruenza del triennio per studenti che hanno scelto il percorso universitario anziche’ quello della Fachhochschule (che è una specie di super-istituto tecnico).

In Francia i tre livelli ci sono gia’ ed hanno il loro nome: la licence (laurea breve), la maîtrise (laurea), il diplome en études approfondies (dottorato). Qui il paesaggio è arricchito, e complicato, dal percorso selettivo delle Grandes Ecoles, come l’Ena, destinato su base meritocratica agli studenti piu’ dotati in corsa per i ruoli dirigenti nello Stato e nelle imprese.

In Gran Bretagna, come negli Stati Uniti, lo schema dei tre livelli è da tempo in vigore con la sua nomenclatura: il "b.a." (bachelor of arts, che è la laurea breve), lo m.a. (master of arts, che è la laurea), il "ph.d." (philosophy doctor, che non sta per dottore in filosofia ma per dottorato in generale). Il modello inglese, affine a quello americano, a ben vedere è alla base di tutto quanto il sommovimento europeo per la riforma ed il triennio. È proprio lo schema base verso il quale dovrebbero convergere gli altri paesi, anche se probabilmente la fortuna dei titoli universitari piu’ "corti" deve la sua origine al fatto che le high-schools americane durano un anno meno di quelle europee. In altre parole, una scuola media superiore piu’ corta (e tanto criticata per la sua pochezza) ha imposto la creazione di un titolo di studio intermedio piu’ spiccio della nostra laurea (il "b.a.").

Il paradosso è che adesso i paesi europei dotati, come l’Italia, di licei piu’ lunghi e qualificati (e di solito tanto apprezzati a fronte delle bistrattate highs-chools, anche se servono una minoranza della popolazione, circa un terzo) devono tarare i loro percorsi formativi in modo piu’ compatibile con le esigenze dell’economia e del mercato del lavoro.

Il principio-guida che scopriamo, che pure non dovrebbe creare attriti politici, ma solo gli attriti legati alla obbiettiva difficolta’ della riforma, è quello che l’offerta di formazione universitaria va sempre piu’ necessariamente differenziandosi in livelli, ai quali corrispondono diverse quantita’ e qualita’ di formazione e specializzazione. Se l’uguaglianza e l’obbligo sono i principi della scuola di base, la diversita’, il merito e la libera scelta sono le bandiere della formazione universitaria.

Informazioni sul convegno internazionale organizzato il 21 gennaio a Pavia si trovano sul sito dell'Universita' e della Scuola universitaria superiore: http://www.unipv.it/iuss/sus/welcome.html

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