Ci sono vie per aggirare il blocco
del sistema politico italiano? Esistono uscite dalla condizione di incompiutezza del
bipolarismo che portano ogni tentativo di modificare la macchina guasta, che ci provino
dal centrodestra o che ci provino dal centrosinistra, verso una tendenziale paralisi?
E inutile raccontare unaltra volta il cammino frustrante degli ultimi dieci
anni, durante i quali lipotesi di due limpide alternative che si confrontino e si
offrano agli elettori, in forma di coalizioni contrapposte, è finito in un naufragio.
Possiamo mettere nel conto anche gli ultimi conati di sopravvivenza del vecchio sistema
pentapartito (con Craxi che predicava una improbabile "alternativa" avendo
contro la maggioranza della sinistra), poi, a seguire, dopo i provvidenziali ma precari
governi "tecnici" di Amato e Ciampi, quelli di Berlusconi, di Dini, di Prodi e
di DAlema. I giudizi saranno diversi dal punto di vista dei risultati e della
qualità, ma tutti hanno inciampato nella debolezza strutturale del sistema
politico-elettorale.
Tentiamo di cambiare il consueto punto di vista, quello delle accuse incrociate che
attribuiscono alla parte avversa maligne capacità di organizzare "ribaltoni",
di comprare voti in Parlamento, di ricattare le istituzioni con lenorme potere di
veto che un sistema a pezzi conferisce anche a piccole formazioni in cerca di visibilità.
E guardiamo questo decennio che si chiude come quello in cui una classe politica, che bene
o male esiste, avrebbe dovuto produrre una soluzione istituzionale al maggiore e più
urgente problema politico del paese, quello di una nuova efficace legge elettorale. Non ne
sono stati capaci. Questa è la verità. Ciascun gruppo o sottogruppo di questa classe
politica può bene invocare, e con tante ragioni, la cecità e i vizi della parte avversa:
lattaccamento esistenziale di molti gruppi, di sinistra, di destra e di centro, a un
sistema che non funziona e dal cui non funzionamento essi traggono linfa vitale per sé
medesimi; il conflitto di interesse di Berlusconi ed il suo mettersi di traverso a
soluzioni possibili, che pure si sono affacciate strada facendo; i ritardi evolutivi prima
del Pci e poi del Pds e cosi via. Potete continuare la lista mettendoci dentro
Bertinotti, la crisi dei Popolari e tutto il resto. Non è altro, comunque, che
lelenco di quella classe politica che ha fallito.
Il diverso punto di vista che voglio tentare è quello che guarda non solo alla gelosa
e tenace perseveranza di tanti attori nellimpedire una soluzione, ma alla
immaturità della opinione pubblica italiana, alla mancanza di una vera "grande
conversazione" attraverso la quale la società italiana si dimostri capace di
giudicare gli attori in campo, di valutare le soluzioni possibili, di prendere in
considerazione criticamente la materia radunandosi intorno a punti di vista condivisi,
premiando con il proprio consenso le posizioni piu solide e ragionevoli e punendo
con il proprio rigetto quelle meno convincenti e insensate. Attraverso i sondaggi sappiamo
che anche lultima crisi di governo ha prodotto reazioni di profondo disgusto verso
la classe politica. Ma a questo disgusto non corrisponde laggregarsi di posizioni
razionali, se pur diverse, intorno alla individuazione di vie di uscita.
Ora la domanda è: perché questo non accade? E se si tenta di rispondere, viene ancora
da chiedersi: chi dovrebbe e potrebbe aggregare questi consensi? In altre parole, come mai
puo succedere, in una società sviluppata, ricca e moderna come quella italiana, che
una discussione sulle pagine dei giornali tra valenti costituzionalisti, che pure non
mancano e che sono in grado di discutere con solidi argomenti i vantaggi e gli svantaggi
delluninominale, del turno unico o del doppio turno, i mezzi per garantire
stabilità e governabilità, non diventi una "grande conversazione" pubblica?
Come è possibile che gli argomenti cadano nel vuoto e che invece di una vera discussione,
con argomenti vincitori e argomenti vinti, noi abbiamo un perenne scagliare tesi
luna contro laltra, come se tutte avessero lo stesso valore? Quello che
vediamo è un esercizio che potremmo definire "lancio di argomenti nel vuoto".
Là dove dovrebbe esserci una specie di tribunale dellopinione pubblica, invece non
cè niente. Anche nel momento del voto il confronto si fa confuso, gli argomenti
"lanciati nel vuoto" vengono dimenticati, il giudizio delle urne si sfrangia, si
disarticola per interessi, appartenenze, simpatie, suggestioni propagandistiche. Viene da
chiedersi: ma esiste veramente una opinione pubblica italiana?
Il giudizio di ripugnanza per la inconcludenza della classe politica italiana in
materia di legge elettorale è comprensibile, in un certo senso è una reazione giusta, ma
non basta, non è un giudizio compiuto. Lasciamo da parte qui una valutazione generale,
che pure avrebbe la sua importanza, sulle debolezze storiche della sfera pubblica
italiana, sulle dimensioni asfittiche del circuito culturale, sulla modesta influenza
della stampa italiana rispetto a paesi consimili, sul fatto ovvio che il giudizio dei
giornali pesa di più in un paese dove quasi tutti li leggono rispetto a un paese dove li
legge solo un terzo, scarso, della popolazione (come da noi). Il circuito delle
"opinioni informate" sulle questioni pubbliche in Italia è troppo piccolo per
formare quella massa critica necessaria a costituire una vera opinione pubblica. Questo è
e resterà un problema di lungo periodo.
Ma almeno un aspetto del problema lo possiamo circoscrivere in modo il più possibile
preciso e concreto. Questa lacuna della sfera pubblica italiana era compensata, fino agli
anni Ottanta compresi, dalla presenza di forti partiti organizzati e di massa, insieme ad
altri forti corpi sociali come i sindacati e varie associazioni con prevalente impronta
politica. In Italia come in altri paesi europei il tribunale dellopinione pubblica
funzionava attraverso le organizzazioni politiche che facevano da mediatori tra le grandi
questioni pubbliche e la massa diffusa, multiforme e contraddittoria degli interessi e
delle preferenze dei cittadini.
I partiti europei occupavano, e in buona misura ancora occupano sia pure in forme
diverse, lo spazio sociale dove si fanno le politiche, le cosiddette policies, i
programmi, le soluzioni complesse e concertate ai problemi della società. Attraverso le
grandi organizzazioni politiche questi vecchi attori della scena europea surrogavano
quella funzione il policy making, la escogitazione delle soluzioni di
governo ai problemi , che negli Stati Uniti e stata affidata in grandissima
parte ad altre organizzazioni, i cosiddetti think-tank. Anzi, per dire meglio, sono
gli americani che hanno surrogato la mancanza di grandi partiti di massa (dotati di loro
strutture per il policy making) con quelle grandi organizzazioni non profit
che nel corso di questo secolo hanno avuto una funzione crescente.
Ora che gli Europei si sono molto indeboliti in questa loro originale forma politica,
è venuto il momento di guardare allattrezzatura americana, o comunque a strumenti
alternativi ai partiti, con maggiore attenzione. E se questa esigenza è vera per tutta
lEuropa, lo è in modo drammatico in Italia dove i partiti di massa hanno subito un
tracollo. Pci, Dc, Psi sono spariti e lo scenario delle coalizioni che si candidano a
costituire i due poli del promesso sistema dellalternanza non hanno affatto la
fisionomia certa e definita che, nel bene e nel male, quei vecchi partiti avevano. Tanto
meno poi è possibile accettare oggi che ad ingombrare il terreno del policy making
siano tante schegge residue di quel vecchio sistema. Quelli almeno si occupavano di
formazione e selezione dei quadri dirigenti, di organizzazione dellopinione
pubblica, di aggregazione degli interessi e producevano con il loro sistema di setacci una
qualche forma di praticabile sintesi. Quelli rimasti sulla scena oggi sono sempre a caccia
di visibilità, sono assetati di ragioni per continuare a esserci. Si danno da fare in
ordine sparso, e con crescente affanno, ma non si occupano più di quelle vecchie
attività che, in cambio della loro florida esistenza, alimentavano la sfera pubblica
italiana e le davano una fisionomia. E, quel che è peggio, oggi le "schegge"
sembrano ostacolare altre forme di aggregazione delle opinioni sugli affari pubblici.
Credo che invece sia venuto il momento di mettere mano alla creazione di strutture che
surroghino la crisi delle vecchie forme della vita politica, soprattutto in due fasi del
fare politica che sono rimaste orfane: a) quella dellanalisi dei problemi e delle
previsioni, b) quella della elaborazione delle strategie e dellargomentazione delle
politiche. Se i partiti, o quel che resta di loro, non sono più capaci di organizzare il
dirscorso pubblico degli italiani (e in Italia, ormai è chiaro, non ne sono più capaci),
è giunto il momento in cui inevitabilmente dovremo incoraggiare nuove forme di
organizzazione della cultura e dellopinione. Tanto piu che è ormai assodato
che non ci saranno due o tre (e neppure quattro) partiti in grado da soli di ridisegnare
il paesaggio politico italiano. Non e alle viste nessuna forma di egemonia di
qualche soggetto, o organizzazione, o leader, capace di aggregare intorno a sé le forze
necessarie per creare luno e laltro dei due poli.
Nel migliore dei casi saranno due coalizioni discretamente ricche di diversi colori a
tenere la scena. E perché una coalizione abbia vita occorre prima di tutto un patrimonio
di convinzioni condivise, di visioni compatibili dello sviluppo italiano, di pacchetti
programmatici elaborati nelle loro linee essenziali. Da dove mai potranno arrivare queste
cose, se le energie intellettuali della società non cominciano ad attrezzarsi senza
attendere gli ordini di una segreteria di partito?
So bene che è difficile immaginare nella storia italiana vicende come quelle della
Brookings Institution, nata nel 1916, dalla convinzione di un imprenditore di Saint Louis.
Come racconta Giuseppe Zampaglione (Pensare per governare. Storia e ruolo dei think
tanks americani, pubblicato dal Cespi nel 1998), Robert Brookings fece una
intensissima campagna per raccogliere fondi e realizzare il progetto di una struttura
culturale che si dedicasse alla riforma dello Stato, a rendere la macchina pubblica più
efficiente, a modificare il sistema di elaborazione e approvazione delle leggi federali.
Ne è nata una delle piu forti fondazioni di policy making del mondo. Ma
siamo sicuri che questa storia non abbia niente di utile da raccontarci?
In uno dei pochi studi disponibili sui think tanks italiani (Claudio Radaelli,
Alberto Martini, Think Tanks, Advocacy Coalitions and Public Policy: a First Look at
the Italian Case. Working Papers Series, N.16/97, ICER) si sintetizza la situazione in
questo modo: un chiaro progetto e quasi completamente assente dalla politica
italiana. Il che è particolarmente per gli anni Ottanta, ma anche negli anni venuti dopo;
gli attori coinvolti nella vicenda italiana, sia per ragioni ideologiche, sia perche
troppo ostili tra loro (Pizzorno) sono stati incapaci di produrre un cambiamento politico.
Ma alle insufficienze della classe politica non ha saputo sopperire alcuna altra
iniziativa del genere dei think tanks. Queste organizzazioni hanno un peso molto
scarso nella discussione pubblica.
Il confronto con gli Stati Uniti (ancora Radaelli e Martini) dice che il piu
visibile tra i think tanks italiani, nellanno da loro analizzato, il 1995, e
stato citato 101 volte nel "Corriere della Sera", 85 volte da "La
Stampa", il CER 66 volte e 7, Nomisma 43 e 12, mentre nello stesso anno la Heritage
Foundation compariva 2.268 volte sui maggiori quotidiani, la Brookings Institution 2.192
volte. Per dimensioni di bilancio il confronto (ancora Zampaglione) è altrettanto duro:
la taglia media delle fondazioni italiane e intorno al mezzo miliardo di lire. Le
maggiori, Censis, Nomisma, Cer, Fondazione Agnelli, superano i due miliardi, mentre la
Brookings e la Heritage sono intorno ai 35 miliardi. Per non parlare del caso estremo,
quello della Rand Corporation, con un budget intorno a 180 miliardi. Si tratta di
organizzazioni capaci di sfornare strategie e programmi di governo per un intero mandato,
come fece la Heritage Foundation quando, una settimana dopo lelezione di Reagan,
stampò un celebre volume di mille pagine, Mandate for Leadership. Questo per la
destra.
Sul versante progressista, fu invece lUrban Institute a elaborare i programmi
sociali dellamministrazione Johnson e nella fase più recente è stato
lEconomic Policy Institute, fondato nel 1986 da Jeffrey Faux, Lester Thurow, Ray
Marshall, Robert Reich, Barry Bluestone e Robert Kuttner ad alimentare la prima fase
dellamministrazione Clinton.
È corrente in Italia il richiamo polemico alla società civile contrapposta alla
classe politica. In sé il richiamo è concettualmente apprezzabile, ma il guaio è che da
noi non è quasi mai più che uno stratagemma propagandistico di una parte politica contro
laltra. Infatti il cammino delle iniziative di cultura politico-sociale, che non
siano alle dirette dipendenze dei partiti, è assai stentato. E le condizioni legislative
a cominciare dalla detraibilita fiscale delle donazioni e dei fondi che
consentono a queste organizzazioni di nascere e di vivere non ci sono e neppure si
annunciano. Negli Stati Uniti la vitalità delle fondazioni corrisponde corrisponde a
precise ragioni storiche: la debolezza dellorganizzazione dei due grandi partiti
politici, la esilità della macchina burocratica pubblica, la mancanza di una tradizione
(come in Europa) di alta dirigenza statale, la forza del mecenatismo privato, la
legislazione fiscale.
Sono oggi più di mille i think tanks, un centinaio soltanto a Washington. La capitale
americana può essere considerata una tecnostruttura della politica e del governo, dove le
decisioni si confrontano continuamente con i temi propri delle democrazie mature, della
gestione della complessità, dellequilibrio tra i poteri, delle nuove tecnologie
dellinformazione, del conflitto tra centro e periferia (Zampaglione), della politica
estera, delle imprese spaziali e così via. E il corpo di questa struttura non è formato
soltanto dagli apparati statali, ma soprattutto dalle organizzazioni non profit che
interagiscono fortemente con lo Stato federale (pensiamo al Center for Strategic and
International Studies, da cui sono passati i vari Kissinger, Schlesinger, Brzezinsky). In
certa misura queste fondazioni sono lo stato americano, nel senso che gli
forniscono le conoscenze necessarie a governare (o a fare opposizione al governo), le
politiche, i dirigenti, le squadre intere di uomini da mettere al governo.
Negli altri grandi paesi europei la sostituzione, o lintegrazione, di funzioni
dei vecchi partiti con le fondazioni è molto più avanti che in Italia: lopinione
pubblica ha una dotazione di informazioni e mezzi di straordinaria potenza, se paragonata
alla nostra. Lo sviluppo di un confronto più intenso tra le organizzazioni culturali che
lavorano alle politiche dei governi europei in questa fase mostra una situazione
variegata, che va esaminata caso per caso (come facciamo in questo numero di
"Reset"). La forma di coalizione che necessariamente dovrà organizzare i due
poli dello schieramento italiano ci fa nettamente escludere che da noi si possa assumere
il modello della Fondazione fiancheggiatrice del partito (anche perche non si sa
bene quale partito dovrebbe fiancheggiare).
Nellarea di centrodestra non sembra vi sia un particolare interesse per dar vita
a think tanks di sorta: le politiche si confezionano secondo schemi più caserecci, nella
cucina del leader o tra i fedeli del segretario, e si ricorre poi marginalmente al mondo
accademico. Nellarea di centrosinistra cè leredità delle vecchie
organizzazioni culturali di partito, che custodiscono gli archivi e promuovono studi
storici; cè soprattutto leredità piu forte, quella degli organismi di
studi sulla politica economica e sulla politica estera (Cespe e Cespi) creati dal Pci e
poi rinnovati fino ai giorni nostri; quella dei centri di ricerca sociale come il Censis o
Nomisma fioriti nellorbita della Dc e dellIri. Una nuova Fondazione è in
gestazione da tempo nellarea dei Ds, ma ancora non e entrata nella sua fase
vitale. Sulla strada del consolidamento di una coalizione di centrosinistra solo una
pluralità di apporti potrà comunque condurre a quel lavoro necessario per produrre
sintesi politiche significative e convincenti.
Finora i think tanks italiani hanno dato qualche frutto nel cambiamento delle politiche
economiche e sociali. E hanno contribuito alla gestione della politica estera. Dove non
hanno battuto chiodo è nel cambiamento del sistema elettorale. Dobbiamo pensare al loro
sviluppo, incoraggiando anche la necessaria legislazione fiscale, ricordando non solo che
essi forniscono soluzioni politiche e pacchetti di programmi al personale di governo in
carica, ma soprattutto il ragionamento da cui siamo partiti: la debolezza fino ai limiti
della nullità dellopinione pubblica italiana. Forti strutture non profit che
lavorino alla cultura degli affari generali di un paese non solo solo un servizio al
governo ma lossatura di un discorso pubblico competente, informato, interattivo;
sono un mezzo per rafforzare la circolazione delle idee sulla stampa; e sono una delle
condizioni perché fiorisca una vera e forte opinione pubblica. E finisca quel
"lancio nel vuoto" degli argomenti che non porta da nessuna parte. Sono convinto
che il fallimento dei tentativi di riforma del sistema elettorale italiano dipende anche
da questa grande assenza: quella dellopinione pubblica.