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Se non c’è opinione pubblica

Giancarlo Bosetti


Giancarlo BosettiQuesto editoriale appare sul numero 58 di Reset ,attualmente in edicola e in libreria

Ci sono vie per aggirare il blocco del sistema politico italiano? Esistono uscite dalla condizione di incompiutezza del bipolarismo che portano ogni tentativo di modificare la macchina guasta, che ci provino dal centrodestra o che ci provino dal centrosinistra, verso una tendenziale paralisi? E’ inutile raccontare un’altra volta il cammino frustrante degli ultimi dieci anni, durante i quali l’ipotesi di due limpide alternative che si confrontino e si offrano agli elettori, in forma di coalizioni contrapposte, è finito in un naufragio. Possiamo mettere nel conto anche gli ultimi conati di sopravvivenza del vecchio sistema pentapartito (con Craxi che predicava una improbabile "alternativa" avendo contro la maggioranza della sinistra), poi, a seguire, dopo i provvidenziali ma precari governi "tecnici" di Amato e Ciampi, quelli di Berlusconi, di Dini, di Prodi e di D’Alema. I giudizi saranno diversi dal punto di vista dei risultati e della qualità, ma tutti hanno inciampato nella debolezza strutturale del sistema politico-elettorale.

Tentiamo di cambiare il consueto punto di vista, quello delle accuse incrociate che attribuiscono alla parte avversa maligne capacità di organizzare "ribaltoni", di comprare voti in Parlamento, di ricattare le istituzioni con l’enorme potere di veto che un sistema a pezzi conferisce anche a piccole formazioni in cerca di visibilità. E guardiamo questo decennio che si chiude come quello in cui una classe politica, che bene o male esiste, avrebbe dovuto produrre una soluzione istituzionale al maggiore e più urgente problema politico del paese, quello di una nuova efficace legge elettorale. Non ne sono stati capaci. Questa è la verità. Ciascun gruppo o sottogruppo di questa classe politica può bene invocare, e con tante ragioni, la cecità e i vizi della parte avversa: l’attaccamento esistenziale di molti gruppi, di sinistra, di destra e di centro, a un sistema che non funziona e dal cui non funzionamento essi traggono linfa vitale per sé medesimi; il conflitto di interesse di Berlusconi ed il suo mettersi di traverso a soluzioni possibili, che pure si sono affacciate strada facendo; i ritardi evolutivi prima del Pci e poi del Pds e cosi’ via. Potete continuare la lista mettendoci dentro Bertinotti, la crisi dei Popolari e tutto il resto. Non è altro, comunque, che l’elenco di quella classe politica che ha fallito.

Il diverso punto di vista che voglio tentare è quello che guarda non solo alla gelosa e tenace perseveranza di tanti attori nell’impedire una soluzione, ma alla immaturità della opinione pubblica italiana, alla mancanza di una vera "grande conversazione" attraverso la quale la società italiana si dimostri capace di giudicare gli attori in campo, di valutare le soluzioni possibili, di prendere in considerazione criticamente la materia radunandosi intorno a punti di vista condivisi, premiando con il proprio consenso le posizioni piu’ solide e ragionevoli e punendo con il proprio rigetto quelle meno convincenti e insensate. Attraverso i sondaggi sappiamo che anche l’ultima crisi di governo ha prodotto reazioni di profondo disgusto verso la classe politica. Ma a questo disgusto non corrisponde l’aggregarsi di posizioni razionali, se pur diverse, intorno alla individuazione di vie di uscita.

Ora la domanda è: perché questo non accade? E se si tenta di rispondere, viene ancora da chiedersi: chi dovrebbe e potrebbe aggregare questi consensi? In altre parole, come mai puo’ succedere, in una società sviluppata, ricca e moderna come quella italiana, che una discussione sulle pagine dei giornali tra valenti costituzionalisti, che pure non mancano e che sono in grado di discutere con solidi argomenti i vantaggi e gli svantaggi dell’uninominale, del turno unico o del doppio turno, i mezzi per garantire stabilità e governabilità, non diventi una "grande conversazione" pubblica? Come è possibile che gli argomenti cadano nel vuoto e che invece di una vera discussione, con argomenti vincitori e argomenti vinti, noi abbiamo un perenne scagliare tesi l’una contro l’altra, come se tutte avessero lo stesso valore? Quello che vediamo è un esercizio che potremmo definire "lancio di argomenti nel vuoto". Là dove dovrebbe esserci una specie di tribunale dell’opinione pubblica, invece non c’è niente. Anche nel momento del voto il confronto si fa confuso, gli argomenti "lanciati nel vuoto" vengono dimenticati, il giudizio delle urne si sfrangia, si disarticola per interessi, appartenenze, simpatie, suggestioni propagandistiche. Viene da chiedersi: ma esiste veramente una opinione pubblica italiana?

Il giudizio di ripugnanza per la inconcludenza della classe politica italiana in materia di legge elettorale è comprensibile, in un certo senso è una reazione giusta, ma non basta, non è un giudizio compiuto. Lasciamo da parte qui una valutazione generale, che pure avrebbe la sua importanza, sulle debolezze storiche della sfera pubblica italiana, sulle dimensioni asfittiche del circuito culturale, sulla modesta influenza della stampa italiana rispetto a paesi consimili, sul fatto ovvio che il giudizio dei giornali pesa di più in un paese dove quasi tutti li leggono rispetto a un paese dove li legge solo un terzo, scarso, della popolazione (come da noi). Il circuito delle "opinioni informate" sulle questioni pubbliche in Italia è troppo piccolo per formare quella massa critica necessaria a costituire una vera opinione pubblica. Questo è e resterà un problema di lungo periodo.

Ma almeno un aspetto del problema lo possiamo circoscrivere in modo il più possibile preciso e concreto. Questa lacuna della sfera pubblica italiana era compensata, fino agli anni Ottanta compresi, dalla presenza di forti partiti organizzati e di massa, insieme ad altri forti corpi sociali come i sindacati e varie associazioni con prevalente impronta politica. In Italia come in altri paesi europei il tribunale dell’opinione pubblica funzionava attraverso le organizzazioni politiche che facevano da mediatori tra le grandi questioni pubbliche e la massa diffusa, multiforme e contraddittoria degli interessi e delle preferenze dei cittadini.

I partiti europei occupavano, e in buona misura ancora occupano sia pure in forme diverse, lo spazio sociale dove si fanno le politiche, le cosiddette policies, i programmi, le soluzioni complesse e concertate ai problemi della società. Attraverso le grandi organizzazioni politiche questi vecchi attori della scena europea surrogavano quella funzione – il policy making, la escogitazione delle soluzioni di governo ai problemi –, che negli Stati Uniti e’ stata affidata in grandissima parte ad altre organizzazioni, i cosiddetti think-tank. Anzi, per dire meglio, sono gli americani che hanno surrogato la mancanza di grandi partiti di massa (dotati di loro strutture per il policy making) con quelle grandi organizzazioni non profit che nel corso di questo secolo hanno avuto una funzione crescente.

Ora che gli Europei si sono molto indeboliti in questa loro originale forma politica, è venuto il momento di guardare all’attrezzatura americana, o comunque a strumenti alternativi ai partiti, con maggiore attenzione. E se questa esigenza è vera per tutta l’Europa, lo è in modo drammatico in Italia dove i partiti di massa hanno subito un tracollo. Pci, Dc, Psi sono spariti e lo scenario delle coalizioni che si candidano a costituire i due poli del promesso sistema dell’alternanza non hanno affatto la fisionomia certa e definita che, nel bene e nel male, quei vecchi partiti avevano. Tanto meno poi è possibile accettare oggi che ad ingombrare il terreno del policy making siano tante schegge residue di quel vecchio sistema. Quelli almeno si occupavano di formazione e selezione dei quadri dirigenti, di organizzazione dell’opinione pubblica, di aggregazione degli interessi e producevano con il loro sistema di setacci una qualche forma di praticabile sintesi. Quelli rimasti sulla scena oggi sono sempre a caccia di visibilità, sono assetati di ragioni per continuare a esserci. Si danno da fare in ordine sparso, e con crescente affanno, ma non si occupano più di quelle vecchie attività che, in cambio della loro florida esistenza, alimentavano la sfera pubblica italiana e le davano una fisionomia. E, quel che è peggio, oggi le "schegge" sembrano ostacolare altre forme di aggregazione delle opinioni sugli affari pubblici.

Credo che invece sia venuto il momento di mettere mano alla creazione di strutture che surroghino la crisi delle vecchie forme della vita politica, soprattutto in due fasi del fare politica che sono rimaste orfane: a) quella dell’analisi dei problemi e delle previsioni, b) quella della elaborazione delle strategie e dell’argomentazione delle politiche. Se i partiti, o quel che resta di loro, non sono più capaci di organizzare il dirscorso pubblico degli italiani (e in Italia, ormai è chiaro, non ne sono più capaci), è giunto il momento in cui inevitabilmente dovremo incoraggiare nuove forme di organizzazione della cultura e dell’opinione. Tanto piu’ che è ormai assodato che non ci saranno due o tre (e neppure quattro) partiti in grado da soli di ridisegnare il paesaggio politico italiano. Non e’ alle viste nessuna forma di egemonia di qualche soggetto, o organizzazione, o leader, capace di aggregare intorno a sé le forze necessarie per creare l’uno e l’altro dei due poli.

Nel migliore dei casi saranno due coalizioni discretamente ricche di diversi colori a tenere la scena. E perché una coalizione abbia vita occorre prima di tutto un patrimonio di convinzioni condivise, di visioni compatibili dello sviluppo italiano, di pacchetti programmatici elaborati nelle loro linee essenziali. Da dove mai potranno arrivare queste cose, se le energie intellettuali della società non cominciano ad attrezzarsi senza attendere gli ordini di una segreteria di partito?

So bene che è difficile immaginare nella storia italiana vicende come quelle della Brookings Institution, nata nel 1916, dalla convinzione di un imprenditore di Saint Louis. Come racconta Giuseppe Zampaglione (Pensare per governare. Storia e ruolo dei think tanks americani, pubblicato dal Cespi nel 1998), Robert Brookings fece una intensissima campagna per raccogliere fondi e realizzare il progetto di una struttura culturale che si dedicasse alla riforma dello Stato, a rendere la macchina pubblica più efficiente, a modificare il sistema di elaborazione e approvazione delle leggi federali. Ne è nata una delle piu’ forti fondazioni di policy making del mondo. Ma siamo sicuri che questa storia non abbia niente di utile da raccontarci?

In uno dei pochi studi disponibili sui think tanks italiani (Claudio Radaelli, Alberto Martini, Think Tanks, Advocacy Coalitions and Public Policy: a First Look at the Italian Case. Working Papers Series, N.16/97, ICER) si sintetizza la situazione in questo modo: un chiaro progetto e’ quasi completamente assente dalla politica italiana. Il che è particolarmente per gli anni Ottanta, ma anche negli anni venuti dopo; gli attori coinvolti nella vicenda italiana, sia per ragioni ideologiche, sia perche’ troppo ostili tra loro (Pizzorno) sono stati incapaci di produrre un cambiamento politico. Ma alle insufficienze della classe politica non ha saputo sopperire alcuna altra iniziativa del genere dei think tanks. Queste organizzazioni hanno un peso molto scarso nella discussione pubblica.

Il confronto con gli Stati Uniti (ancora Radaelli e Martini) dice che il piu’ visibile tra i think tanks italiani, nell’anno da loro analizzato, il 1995, e’ stato citato 101 volte nel "Corriere della Sera", 85 volte da "La Stampa", il CER 66 volte e 7, Nomisma 43 e 12, mentre nello stesso anno la Heritage Foundation compariva 2.268 volte sui maggiori quotidiani, la Brookings Institution 2.192 volte. Per dimensioni di bilancio il confronto (ancora Zampaglione) è altrettanto duro: la taglia media delle fondazioni italiane e’ intorno al mezzo miliardo di lire. Le maggiori, Censis, Nomisma, Cer, Fondazione Agnelli, superano i due miliardi, mentre la Brookings e la Heritage sono intorno ai 35 miliardi. Per non parlare del caso estremo, quello della Rand Corporation, con un budget intorno a 180 miliardi. Si tratta di organizzazioni capaci di sfornare strategie e programmi di governo per un intero mandato, come fece la Heritage Foundation quando, una settimana dopo l’elezione di Reagan, stampò un celebre volume di mille pagine, Mandate for Leadership. Questo per la destra.

Sul versante progressista, fu invece l’Urban Institute a elaborare i programmi sociali dell’amministrazione Johnson e nella fase più recente è stato l’Economic Policy Institute, fondato nel 1986 da Jeffrey Faux, Lester Thurow, Ray Marshall, Robert Reich, Barry Bluestone e Robert Kuttner ad alimentare la prima fase dell’amministrazione Clinton.

È corrente in Italia il richiamo polemico alla società civile contrapposta alla classe politica. In sé il richiamo è concettualmente apprezzabile, ma il guaio è che da noi non è quasi mai più che uno stratagemma propagandistico di una parte politica contro l’altra. Infatti il cammino delle iniziative di cultura politico-sociale, che non siano alle dirette dipendenze dei partiti, è assai stentato. E le condizioni legislative – a cominciare dalla detraibilita’ fiscale delle donazioni e dei fondi che consentono a queste organizzazioni di nascere e di vivere – non ci sono e neppure si annunciano. Negli Stati Uniti la vitalità delle fondazioni corrisponde corrisponde a precise ragioni storiche: la debolezza dell’organizzazione dei due grandi partiti politici, la esilità della macchina burocratica pubblica, la mancanza di una tradizione (come in Europa) di alta dirigenza statale, la forza del mecenatismo privato, la legislazione fiscale.

Sono oggi più di mille i think tanks, un centinaio soltanto a Washington. La capitale americana può essere considerata una tecnostruttura della politica e del governo, dove le decisioni si confrontano continuamente con i temi propri delle democrazie mature, della gestione della complessità, dell’equilibrio tra i poteri, delle nuove tecnologie dell’informazione, del conflitto tra centro e periferia (Zampaglione), della politica estera, delle imprese spaziali e così via. E il corpo di questa struttura non è formato soltanto dagli apparati statali, ma soprattutto dalle organizzazioni non profit che interagiscono fortemente con lo Stato federale (pensiamo al Center for Strategic and International Studies, da cui sono passati i vari Kissinger, Schlesinger, Brzezinsky). In certa misura queste fondazioni sono lo stato americano, nel senso che gli forniscono le conoscenze necessarie a governare (o a fare opposizione al governo), le politiche, i dirigenti, le squadre intere di uomini da mettere al governo.

Negli altri grandi paesi europei la sostituzione, o l’integrazione, di funzioni dei vecchi partiti con le fondazioni è molto più avanti che in Italia: l’opinione pubblica ha una dotazione di informazioni e mezzi di straordinaria potenza, se paragonata alla nostra. Lo sviluppo di un confronto più intenso tra le organizzazioni culturali che lavorano alle politiche dei governi europei in questa fase mostra una situazione variegata, che va esaminata caso per caso (come facciamo in questo numero di "Reset"). La forma di coalizione che necessariamente dovrà organizzare i due poli dello schieramento italiano ci fa nettamente escludere che da noi si possa assumere il modello della Fondazione fiancheggiatrice del partito (anche perche’ non si sa bene quale partito dovrebbe fiancheggiare).

Nell’area di centrodestra non sembra vi sia un particolare interesse per dar vita a think tanks di sorta: le politiche si confezionano secondo schemi più caserecci, nella cucina del leader o tra i fedeli del segretario, e si ricorre poi marginalmente al mondo accademico. Nell’area di centrosinistra c’è l’eredità delle vecchie organizzazioni culturali di partito, che custodiscono gli archivi e promuovono studi storici; c’è soprattutto l’eredità piu’ forte, quella degli organismi di studi sulla politica economica e sulla politica estera (Cespe e Cespi) creati dal Pci e poi rinnovati fino ai giorni nostri; quella dei centri di ricerca sociale come il Censis o Nomisma fioriti nell’orbita della Dc e dell’Iri. Una nuova Fondazione è in gestazione da tempo nell’area dei Ds, ma ancora non e’ entrata nella sua fase vitale. Sulla strada del consolidamento di una coalizione di centrosinistra solo una pluralità di apporti potrà comunque condurre a quel lavoro necessario per produrre sintesi politiche significative e convincenti.

Finora i think tanks italiani hanno dato qualche frutto nel cambiamento delle politiche economiche e sociali. E hanno contribuito alla gestione della politica estera. Dove non hanno battuto chiodo è nel cambiamento del sistema elettorale. Dobbiamo pensare al loro sviluppo, incoraggiando anche la necessaria legislazione fiscale, ricordando non solo che essi forniscono soluzioni politiche e pacchetti di programmi al personale di governo in carica, ma soprattutto il ragionamento da cui siamo partiti: la debolezza fino ai limiti della nullità dell’opinione pubblica italiana. Forti strutture non profit che lavorino alla cultura degli affari generali di un paese non solo solo un servizio al governo ma l’ossatura di un discorso pubblico competente, informato, interattivo; sono un mezzo per rafforzare la circolazione delle idee sulla stampa; e sono una delle condizioni perché fiorisca una vera e forte opinione pubblica. E finisca quel "lancio nel vuoto" degli argomenti che non porta da nessuna parte. Sono convinto che il fallimento dei tentativi di riforma del sistema elettorale italiano dipende anche da questa grande assenza: quella dell’opinione pubblica.

 

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