Recensione/Ratcatcher
Paola Casella
Ratcatcher, scritto e diretto da
Lynne Ramsay, con William Eadie, Tommy Flanagan, Mandy Matthews,Leanne
Mullen
Il cacciatore di topi del titolo è James (William Eadie), un
dodicenne che non sorride mai (anche se ce ne rendiamo conto solo alla
fine), perchè nella sua esistenza buia c'è ben poco da sorridere.
Tormentato dal senso di colpa per aver causato
(involontariamente, ma per James nulla è involontario, tutto è sua
precisa responsabilità) la morte di un coetaneo, annegato nel
magmatico e primordiale canale che scorre dietro un quartiere
poverissimo di Glasgow.
James vive solo come un cucciolo di lupo, qualche volta unendosi al
branco dei bulletti locali, più raramente concedendosi un briciolo di
tregua con un amico zoofilo che, nonostante le sue condizioni
disperate, si ostina a comportarsi da bambino, e con un'adolescente (Leanne
Mullen) che si dà a tutti i ragazzetti del quartiere un po' per
totale mancanza di senso di sé,
un po' perché la brutalità e il sopruso fanno parte
integrante della sua esperienza quotidiana.

In realtà James una famiglia ce l'avrebbe: un padre disoccupato (Tommy
Flanagan, che ha due solchi lungo il viso come due specie di sorrisi)
che quando non è ubriaco (cioé quasi mai) compie atti di eroismo che
lo innalzano agli occhi del figlio (rendendo ancora più pensoa la sua
inevitabile successiva discesa); una madre (Mandy Matthews) logorata
dall'ansia, costretta a nascondersi ai creditori. Con una famiglia così,
in un quartiere così, è inevitabile che i rapporti di James col
mondo siano improntati alla sfiducia e alla rassegnazione.
Forse il rapporto più controverso è quello col canale, il vero
coprotagonista della storia, una specie di mostro onnivoro che ingoia
uomini e oggetti, qualche volta come atto di clemenza: quando il
canale carpisce gli occhiali della lolita adolescente (se così
possiamo chiamarla), le impedisce di vedere con spietata nitidezza
tutto l'orrore che la circonda.
La normalità per James prende la forma del miraggio di una casa
nuova, in un quartiere decente, dove almeno i camion della nettezza
urbana si ricordano di passare (nel sobborgo dove abita al momento non
passano da nove settimane, di qui i ratti che diventano la preda del
piccolo cacciatore).

Non riveliamo la fine di questo film perfettamente circolare, scritto
con maestria da una regista e autrice al suo esordio (ma non una
principiante, dal punto di vista stilistico), se non per dire che la
penultima scena (quella felliniana in mezzo ai campi gialli) ricorda
il pre-finale di Brazil, tanto incongruente con ciò che l'ha
preceduto fino a quel momento che sappiamo, anche solo subliminalmente,
che non può essere.
Nella sua linearità narrativa, nella sua assenza di fronzoli e
sdolcinature, Ratcatcher è
totalmente straziante, implacabilmente vero, come un film del primo
Ken Loach, ma dotato di una capacità poetica anche superiore, che
ricorda quel Terence Davis al quale la Ramsay chiaramente si ispira,
senza però mai diventare meramente imitativa.
Il mondo che Ratcatcher racconta
è predestinato da condizioni economiche e sociali alle quali i
personaggi cercano disperatamente di resistere, valicando i limiti
imposti, e il loro sfozo titanico (o la loro fatica di Sisifo) è
tanto più struggente perché quei personaggi, malgrado il
comportamento da adulti, sono bambini che anche di fronte
all'impossibilità di sognare non rinunciano a farlo.
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