Recensione/La
lettera
Paola Casella
La lettera, diretto da Manoel de
Oliveira, con Chiara Mastroianni, Pedro Abrunhosa, Antoine Chappey,
Leonor Silveira
La lettera è un film letterario, se perdonate il gioco di parole:
non solo perché è la trasposizione cinematografica di un'opera del
1678, La principessa di Clèves,
scritta da Madame de La Fayette, ma anche perché letterario è il suo
svolgimento narrativo, con tanto di intertitoli che riassumono e
anticipano, più ancora che contestualizzarlo, quasi tutto quel che di
significativo accade nel film. E
nel film accade in realtà pochissimo, perché La
lettera resta programmaticamente immobile, un susseguirsi di
tableaux vivantes (o morentes?) popolati da statue, più che da
personaggi, messi in posa e rigidamente incorniciati da gabbie
costruite dall'uomo: stipiti, infissi, vani di scale, archi e
quant'altro possa suggerire geometrica limitazione dello spazio.

Al centro della scarna vicenda c'è la principessa di Clèves,
interpretata da una Chiara Mastroianni la cui staticità espressiva è,
per una volta, messa a buon uso.
Dopo una delusione d'amore, la principessa acconsente a un
matrimonio di convenienza (con un uomo che sembra il sosia di Pino
Quartullo), su consiglio di una madre che perpetua una tradizione di
conservatorismo sociale il cui inizio si perde nella notte dei tempi
"La luna di miele fu breve", commenta laconico un
intertitolo, e a giudicare dall'espressione vuota della principessa,
fu anche poco memorabile. Naturale
che la principessa si innamori in seguito di uno che è l'esatto
contrario del marito: un cantante rock focoso ed esuberante (almeno
così ci viene mostrato in concerto, perchè fuori dal palcoscenico
diventa una statua come le altre), interpretato dalla vera star della
musica portoghese Pedro Abrunhosa. Ma poiché la naturalezza non fa parte della personalità
della principessa di Clèves, lei decide di passare il resto della sua
vita a resistere alla tentazione.
Ciò che rende lo sforzo della principessa antistorico, per non dire
parossistico, è il fatto che La
lettera sia ambientato non a fine '600, quando effettivamente per
una nobildonna sposata cedere alla passione per un comune mortale
sarebbe stato letale, almeno socialmente, bensì ai giorni nostri,
quando una rock star è probabilmente altrettanto papabile di un
principe, e la passione d'amore è considerata una pulsione alla quale
è normale soccombere con gioioso abbandono. Al contrario di
adattamenti cinematografici recenti, come Le
relazioni pericolose o L'età
dell'innocenza, il dilemma della protagonista non è sanzionato (o
determinato) dalle costrizioni sociali di un'epoca a noi remota, ma
diventa una questione di pura volontà, di quella "forza di
carattere che", dice la madre della principessa, "la
protegge da leggerezze che la farebbero soffrire".
Lo spirito di abnegazione della principessa è così estremo da
apparire non già come una manifestazione di statura morale ma come
un'arma di difesa, e anche come un peccato di superbia (la priorità
della donna virtuosa è quella di non "cadere come le altre
donne"), che finisce per causare sofferenza a tutti quelli che la
circondano, senza paraltro risparmiare se stessa. Il risultato di
tanta abnegazione è la morte di chi, come una falena dalla fiamma,
viene attratta dal suo fascino represso e raggelato. "E' il mio
calvario", dice lei, ma in realtà sono i suoi amanti (o
aspiranti tali) a percorrere le stazioni della Via Crucis. In questo
senso, La lettera può quasi essere interpretato come un noir di quelli che
hanno al loro centro una femme fatale con l'animo della mantide
religiosa (o lo spirito di rivalsa di un cuore profondamente ferito: e
la predilizione della principessa per i toni scurissimi ricorda La
sposa era in nero di
Truffaut). O un film sui
vampiri, perchè la bella Chiara Mastroianni succhia il sangue a tutti
gli uomini che la circondano, riducendoli al fantasma di se stessi.
O addirittura un thriller con protagonista un'insolita serial
killer la cui forma di perversione mentale (e letale) consiste nel
negarsi in modo sistematico.

La freddezza esteriore della principessa, la sua immobilità
decisionale, la sua maschera rigida (che si scoglie in un sorriso solo
al cospetto della musica di Abrunhosa e che trova riflessa la sua
interiorità negli "occhi affamati" dei bambini africani del
finale) sono archetipali nella cinematografia di de Oliveira, 90enne
con la passione e la lucidità di un artista al massimo della forma.
Lo stesso dicasi per la narrazione essenziale, l'atmosfera
rarefatta, gli scenari senza ombre (dunque senza spazio per sfumature
interpretative), le inquadrature maniacalmente composte, i dettagli
evocativi (la bambola sulla sedia, eco della compostezza esteriore
della protagonista, il fazzoletto che spunta dalla manica della
principessa, presagio di lacrime), la crudeltà elegante della vicenda
(indimenticabile lo snap snap delle cesoie che pareggiano la siepe,
adeguato commento acustico alla scena in cui la principessa tagliuzza
l'amor proprio del marito con la sua sincerità efferata), l'ironia
leggera (uno degli intertitoli esordisce con "la coincidenza
volle che...", quando in un film costruito come questo le
coincidenze non esistono), il ritmo dilatato (memorabile la scena del
recital, in cui siamo costretti a sorbirci in tempo reale l'intera
perfomance di una pianista - condividendo il masochismo dell'alta
società davanti a certi rituali punitivi).
De Oliveira ci dimostra che lentezza non equivale necessariamente a
noia, così come la quasi totale assenza di azione non rende
necessariamente un film poco avvincente.
Al contrario: il braccio di ferro fra la virtù ostinata della
principessa di Clèves e la determinazione dei suoi spasimanti afferra
il pubblico e lo tiene stretto in una morsa micidiale.
Le scene interminabili danno agli spettatori il tempo di
riflettere, le inquadrature fisse consentono di proiettare sul grande
schermo intime inquietudini e paure. E l'intensità che scaturisce da
questa storia semplice basta a tenerci incollati alla poltrona, e a
farci apprezzare l'autorità stilistica di una visione originale e
inconfondibile, la capacità di un maestro di costruire un linguaggio
filmico e insegnarci a capirlo.
Vi
e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di
vista cliccando qui