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        Recensione/28 giorni   
         
         
        Paola Casella  
         
        28 giorni, diretto da Betty Thomas, scritto da
        Susannah Grant, con Sandra Bullock, Viggo Mortensen, Diane Ladd, Elizabeth Perkins, Steve
        Buscemi, Azura Skye 
         
        28 giorni sembra realizzato con laiuto di un manuale di cinematografia
        hollywoodiana, a cominciare dalla sceneggiatura, scritta da quella Susannah Grant che ha
        firmato anche Erin Brockovich, e che sembra essersi specializzata in filmoni di
        cassetta con eroine irresistibilmente grintose. Non cè un solo passaggio della
        trama di 28 giorni che non sia rigidamente funzionale, il che rende la narrazione
        perfettamente efficente e circolare, piena di richiami interni, di echi, di semi gettati
        nel primo tempo per raccoglierne i frutti nel secondo, ma anche pedestre, così priva di
        spontaneità da risultare terribilmente finta, come se fosse stata concepita da uno di
        quei programmi computerizzati che fanno la fortuna degli sceneggiatori doltreoceano
        (e la sfortuna degli spettatori). 
         
        Quel che è peggio, 28 giorni fa continuamente riferimento non alla realtà, ma
        alla finzione cinematografica e televisiva, complice anche il fatto che la regista, Betty
        Thomas, è unex attrice del piccolo schermo (proviene dalle file del serial Hill
        Street Blues, dove recitava il ruolo di Lucy Bates) e come regista ha alle spalle
        trasposizioni cinematografiche di sitcom quali La famiglia Brady. Così 28
        giorni, che racconta il mese di riabilitazione di una giornalista, Gwen (Sandra
        Bullock) allinterno di una clinica per tossico-alcol-sesso dipendenti, si rifà a
        tutta una serie di film e telefilm sullo stesso argomento, da Clean and sober a When a man
        loves a woman, senza tralasciare homage a Qualcuno volò sul nido del cuculo e Gente
        comune. 
          
         
        Aggiungete la confezione glamour e linterpretazione "da Oscar" della
        protagonista, ragazza della porta accanto in cerca di legittimazione come attrice
        drammatica, e avrete il classico prodotto da Fabbrica dei sogni. Che oltretutto, nello
        spasmodico desiderio di accontentare tutti, mescola toni narrativi (comico, drammatico,
        melodrammatico, parodistico) e alterna freneticamente tecniche cinematografiche (cinepresa
        a mano, primissimi piani, pseudointerviste dai contorni sfocati, inquadrature alla Target
        per simulare lo stato di ebbrezza della protagonista), aggiungendo anche commenti fuori
        campo (il refrain musicale di un paziente della clinica che ricorda il Tom Waits di The
        piano has been drinking), flashback, fast forward e chi più ne ha più ne metta. Il
        risultato è unaccozzaglia che sa più di insicurezza registica che di
        sperimentalismo funzionale alla storia.  
         
        La trama è semplice, quasi scontata: Gwen, dopo aver rovinato il matrimonio della sorella
        Lily (Elizabeth Perkins) e aver sfondato con la macchina una villetta (con palizzata
        bianca e nano in giardino), viene condannata a disintossicarsi per 28 giorni nella
        suddetta clinica, e si ritrova a decidere se farsi aiutare o meno a risolvere i propri
        problemi esistenziali, oltre che di salute. In clinica Gwen incontra la tipica galleria di
        spostati: la teenager con manie suicide (Azura Skye), il gay piagnone (Alan Tudyk), la
        mamma single nera (Marianne Jean Baptiste, già straordinaria interprete di Segreti e
        bugie), e così via.  
          
         
        Al gruppo si aggiunge anche un campione di baseball (Viggo Mortensen) assuefatto a cocaina
        e sesso, messo lì solo per risvegliare gli ormoni di Gwen, cosa che tutto sommato non gli
        riesce, e non solo per coerenza narrativa (leroina nel suo percorso di riscatto non
        può buttarsi subito fra le braccia dellultimo venuto) ma anche perché luomo
        è un terrificante bisteccone, per di più sosia di quell'altro bisteccone di Jake del
        serial Melrose Place. Ognuno esce dritto dritto da una sitcom (particolarmente offensiva
        la caricatura del gay) e non si eleva mai al di sopra del livello televisivo, così come
        lintero film non riesce mai a sollevarsi al di sopra della mediocrità. 
         
        Più interessanti le caratterizzazioni di Jasper, il fidanzato "negativo" di
        Gwen, interpretato con onore dallinglese Dominic West, almeno fino a quando la
        sceneggiatura non lo costringe a trasformarsi nel lupo cattivo, e quella di Cornell (Steve
        Buscemi), il tutore cui è affidato il caso di Gwen, e che affronta le paranoie della
        ragazza con la stanchezza di chi non solo ha già sentito infinite volte la stessa storia,
        ma l'ha anche vissuta in prima persona. Se volete vedere un film vero, commovente e ben
        scritto sullalcolismo, fatevi un regalo e andate a noleggiare Mosche da bar,
        diretto e interpretato proprio da Steve Buscemi: altra classe, e non a caso una produzione
        non hollywoodiana. 
         
        Una nota di biasimo per i microfoni che compaiono talmente spesso in cima alle
        inquadrature da guadagnarsi una citazione nei titoli di coda, fra i nomi degli attori
        protagonisti. Comè possibile che nessuno, fra le decine di executive che esaminano
        i giornalieri di un film commerciale di grosso budget come questo, abbia fatto notare alla
        regista la presenza costante delle gru? 
         
        Sito ufficiale di 28 giorni 
        http://www.soapcity.com/28days  
         
        Webring dedicato al film 
        http://www.bomis.com/rings/28days/  
         
         
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