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Recensione/Magnolia


Paola Casella



Magnolia, scritto e diretto da Paul Thomas Anderson, con Tom Cruise, Julianne Moore, Jason Robards, Philip Seymour Hoffman

Lo dico subito: malgrado l'Orso d'Oro a Berlino e le critiche osannanti al di qua e al di là dell'oceano, Magnolia non mi è piaciuto. O meglio: l'ho trovato estremamente divertente, cioè entertaining, per usare il termine che gli americani legano indissolubilmente al concetto di cinema. La regia è fluida e accattivante, la narrazione coinvolgente e mai noiosa, la recitazione di alto livello, persino quella di Tom Cruise. Ciò nonostante, Magnolia è poco più che un esercizio di stile, uno stile raffinato e molto trendy, che però lascia poco o nulla in dote agli spettatori - e questo, per un film che scomoda la Bibbia e l'apocalisse (o anche solo Nathanael West) nella famosa scena della pioggia di rane, è troppo poco.

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Mi spiego. Qualche settimana fa ho recensito positivamente, in questa stessa rubrica, il thriller Colpevole di innocenza, dicendo che si poneva obbiettivi modesti (quell'entertainment, appunto, sacro a Hollywood e caro alle platee internazionali) e li raggiungeva in modo soddisfacente. Viceversa Magnolia sembra voler parlare della Natura dell'uomo, del Caso, della Vita, e invece mira prevalentemente a farci commentare quant'è bravo e originale il regista. E già questa sarebbe di per sè una considerazione inquietante: ogni volta che, uscendo da una sala cinematografica, si parla più del genio del regista che del film, c'è qualcosa che non va. Ma se andiamo poi a guardare ciò che il regista fa in Magnolia, forse finiamo per ricrederci anche sulla sua originalità e sul suo genio.

Il fatto che Paul Thomas Anderson, già autore di Boogie Nights, citi il Robert Altman di Nashville e soprattutto di America Oggi, sa più di plagio che di homage. Da America Oggi, Magnolia prende a prestito non solo l'ambientazione losangelina e la struttura corale, ma anche il mood angoscioso e claustrofobico, e l'incidenza random del destino sugli incontri (veri, possibili, mancati) fra i protagonisti. Un'aderenza così totale fa sorgere spontanea una domanda: non bastava il film di Altman? C'era davvero bisogno di una seconda puntata?

Proviamo a raccontare la trama, così complessa da richiedere la dotazione di un bigino insieme al biglietto di ingresso (o perlomeno di una mappa artigianale delle relazioni fra i numerosi personaggi, del tipo che chiunque abbia letto Guerra e pace si è disegnato sul frontespizio del libro per non perdersi all'interno del romanzo): nel corso di una giornata qualsiasi (qualsiasi almeno fino a che dal cielo non cominciano a piovere ranocchi) all'interno di un quartiere residenziale della San Fernando Valley (una suburbia degna di Beautiful) si muovono una ventina di persone, collegate fra loro nei modi più disparati (stavo per dire disperati, che sarebbe andato bene lo stesso).

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C'è un anziano magnate della televisione (Jason Robards) che sta per morire e vuole chiedere perdono al figlio abbandonato anni prima; il figlio (Tom Cruise) è diventato un guru del piccolo schermo che insegna agli uomini americani (quelli totalmente emasculati dal femminismo, pare) come "sedurre e distruggere" le donne. La giovane seconda moglie del magnate morente (Julianne Moore), che l'aveva sposato solo per soldi, si accorge in extremis di amarlo davvero. Al contrario la moglie (Melinda Dillon) di un celebre divo tv (Philip Baker Hall), anche lui moribondo, scopre di averlo amato fino alla completa cecità, mentre la figlia (Melora Walters), che vedeva il padre fin troppo chiaramente, lo odia e si dibatte nell'inferno della droga. In un plot parallelo, due bambini prodigio, uno cresciuto (W.H.Macy) e uno ancora prepubescente (Jeremy Blackman), attraversano il loro inferno personale, mentre il divo tv di cui sopra fa da presentatore a uno show che li ha visti entrambi concorrenti (e che è prodotto dal magnate dell'inizio).

Ci siete ancora? Bene, perché dovete fare spazio anche a un infermiere caritatevole (Philip Seymour Hoffman), un poliziotto zelante (John C. Reilly), un bambino nero che la sa lunga (Emmanuel Johnson), il padre del bambino prodigio (Michael Bowen), un'intervistatrice invadente, un barista muscoloso e il cliente gay che cerca di conquistarlo. Una girandola di tipi umani che si rincorrono e qualche volta si incontrano, in una confusione esistenziale generalizzata che prende quasi sempre i toni dell'angoscia.

La confusione però non è solo fra i personaggi, o dei personaggi: è anche nella testa di P. T. Anderson, che oltre ad essere il regista di Magnolia ne è l'autore. La sceneggiatura, che pure è candidata all'Oscar, commette un errore madornale, che potrebbe anche essere un colpo di genio, se l'errore fosse intenzionale. Invece, ne sono quasi certa, è la cantonata di uno sceneggiatore ancora alle prime armi (Anderson ha solo 29 anni, e Magnolia è solo il suo secondo film): quasi tutti i personaggi sono cloni l'uno dell'altro, emanazioni ibridate di uno scrittore che ha trascurato di mettere ciascuna bene a fuoco. In questo senso la moltitudine umana di Magnolia cerca affannosamente (ed è un affanno che si sente) di sopprimere all'assenza di pochi caratteri ben delineati.

Pensateci: il magnate morente è un doppione del divo tv - entrambi morenti, entrambi odiati dai figli, entrambi alla disperata ricerca del loro perdono - e il padre del bambino prodigio è la loro versione giovane; i due bambini prodigio (quello cresciuto e quello che ancora deve crescere) sono la stessa persona con la stessa storia, anche se non lo stesso epilogo; l'infermiere e il poliziotto hanno l'identica vocazione ad addossarsi i problemi del mondo e la stessa ostinata (quasi ottusa) tenacia nell'aiutare la vecchietta ad attraversare la strada.

Se vogliamo, Magnolia racconta una sola storia, rifratta in varie storie minori: i danni che la maggior parte dei genitori arrecano ai propri figli. Così come ha un solo motore immobile: la ricerca della redenzione (ricerca del perdono da parte dei genitori, con il corollario del rimpianto, ricerca del riscatto da parte dei figli, con il corollario della rabbia). Persino i due personaggi più isolati della storia, l'infermiere e il poliziotto, che per quanto ne sappiamo non hanno alle spalle complicate vicende familiari, si improvvisano genitori l'uno del magnate morente, l'altro della ragazza drogata, e cercano la redenzione, quella universale (e in questo senso il poliziotto ricorda - forse troppo - da vicino quello di Pulp Fiction).

P.T. Anderson ha dichiarato orgoglioso di aver scritto la sceneggiatura di Magnolia in pochissimo tempo. Forse avrebbe dovuto mettercene di più, così il film non avrebbe quell'aspetto di semilavorato che trapela dietro il look rileccato e la struttura complessa. "I personaggi hanno continuato a moltiplicarsi, l'uno nasceva da quello precedente", ha detto ancora l'autore. Come le spore, come gli ultracorpi. E' vero, la creazione narrativa è sempre una forma di partengoenesi, perché il creatore non può che creare sulla base della propria esperienza, del proprio mondo interiore. Ma se lascia i suoi personaggi al livello di pura rifrazione di sè, come echi, come cerchi nell'acqua, non ha svolto fino in fondo il suo compito, dimostrandosi uno scolaro intelligente ma svogliato, o un bambino prodigio che crede di poter mandare a mente solo parte della lezione, tanto tutti sanno che lui è un genio, e lo applaudiranno lo stesso (e i fatti, ahimé, gli stanno dando ragione).

 

 

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