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Lo sguardo di Angelopoulos

Simona Ambrosio

 


Questo è il resoconto dell'incontro avvenuto il 28 gennaio fra Theo Angelopoulos e gli studenti dell'università La Sapienza per discutere il film Lo sguardo di Ulisse.

Il regista greco Theo Angelopoulos si è trattenuto a lungo nell’Aula Magna della Sapienza per soddisfare le curiosità dei tanti accorsi a conoscerlo. Il dibattito ha seguito la proiezione del suo penultimo film, "Lo sguardo di Ulisse", premio speciale della giuria a Cannes nel 1995, che vede cosceneggiatore Tonino Guerra.

Il film narra la storia di A. (interpretato da Harvey Keitel), un regista greco, che torna in patria per presentare il suo ultimo film. Da lì comincia il suo viaggio nella propria coscienza e nel passato, un viaggio attraverso l'ex Jugoslavia devastata dalla guerra, con il pretesto di ritrovare tre rulli di pellicola non sviluppata dei fratelli Maniakas, due cineasti che nel 1905 portarono nei Balcani la prodigiosa macchina che riprendeva i movimenti degli esseri umani.

"Lo sguardo di Ulisse" è un racconto ciclico che narra e, allo stesso tempo, discute la possibilità del narrare per immagini. Angelopoulos parla tramite il protagonista, in un film in cui la realtà si mescola alla leggenda.

Durante il suo viaggio, che termina nella Sarajevo della guerra (dove i giorni migliori sono quelli di nebbia, perchè la nebbia non ci consente di vedere), A. incontra tre donne, interpretate tutte da Maia Morgenstern, assumendo ora l’identità di uno, ora l’identità di un altro fratello cineasta per poi ritornare se stesso.

Angelopoulos si è presentato agli studenti con umiltà e disponibilità. Nell’introduzione il Preside Emanuele Paratore e la prof. Paola Minucci hanno dato particolare rilevanza all’impronta poetico-esistenziale del cinema di Angelopoulos: l’emozione, gli stati d’animo, la commozione. Nel cinema del grande regista le parole utilizzate nei dialoghi sono sia logos che vocabolo. Il suo metodo creativo è lo stesso della Poesia: ne "Lo sguardo di Ulisse" vi è la ricerca dell’identità e della radice del linguaggio proprio come in Leopardi.

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Angelopoulos ha iniziato raccontando di sé. Terminata l’Università, si trasferì a Parigi per frequentare la scuola di cinema Femis. Saltava le lezioni per andare al cinema e quando un professore gli chiese di disegnare il decoupage di un film si alzò e fece un cerchio sulla lavagna: una panoramica a 360°. Il cinema non si impara a scuola, ha detto il regista, l’importante e discutere i film con gli altri. Anche il suo cinema, ha continuato, non può essere insegnato: come in ogni linguaggio, nel cinema ci sono regole grammaticali che si imparano in tre mesi, poi però bisogna discostarsi da queste per trovare la propria voce. La voce è dentro di noi prima di giungere alla nostra coscienza, ha ricordato il regista, Orson Welles ha diretto un capolavoro come Quarto Potere a 25 anni.

Angelopoulos venne espulso dalla scuola; gli fu detto di tornare in Grecia a vendere la sua genialità. Così ha fatto, e da 30 anni ci regala il suo talento.

Il regista ha invitato la platea a porgergli domande su "Lo sguardo di Ulisse" ribadendo che per la crescita di un cineasta il confronto con gli spettatori è fondamentale. Ecco alcune delle domande che in molti (professori, studenti greci in Italia, giornalisti) gli abbiamo rivolto

 

Come nasce "Lo sguardo di Ulisse"?

Per quanto mi riguarda, sono i film che vengono a me. Ho un’idea e lentamente ricevo segnali esterni che mi impongono di perseguirla. Mi trovavo in Italia e andai a trovare Tonino Guerra. Mi domandò quali fossero i miei progetti. Gli dissi che volevo fare l’Odissea, e he avevo il testo in borsa. Tonino prese l’Odissea e iniziò a leggere. Bussarono alla porta. Era una ragazza con un regalo per me dalla Fondazione Manzù. Nel pacchetto c’era anche una lettera della figlia di Manzù; mi raccontava che il padre prima di morire avrebbe voluto scolpire "lo sguardo di Ulisse". Quando tornai in Grecia, la cineteca di Atene mi chiese di realizzare un documentario sui fratelli Manakias, e fu allora che scoprii l’esistenza dei tre rulli di pellicola scomparsi. Così partii alla ricerca del materiale: il viaggio di A. ne "Lo sguardo di Ulisse" l’ho fatto anch’io. La ricerca degli oggetti perduti è un tema che mi ha sempre incuriosito.

 

Il suo Ulisse, più che riprendere Omero, sembra rifarsi direttamente alla Mitologia. Come mai A. una volta tornato in patria decide di ripartire?

Omero è stato il primo sceneggiatore. Aveva già scritto tutto quello che è stato fatto in seguito, è stato lui a introdurre il montaggio alternato. Il mio, però, è un Ulisse dantesco che sceglie la guerra in Bosnia per intraprendere un viaggio all'interno di se stesso. C’è una scena verso la fine del film alla quale tengo molto: in un lungo monologo, A. annuncia la sua ulteriore partenza. " Quando tornerò", dice, "indosserò gli abiti di un altro per raccontare la vicenda umana." Il viaggio dunque non è terminato e noi abbiamo il diritto di scrivere la parola "fine". La storia che ho raccontato è come un cerchio che si conclude per iniziare ancora.

 

Film come "Underground" e "La Polveriera" hanno raccontato in maniera più diretta la guerra in Bosnia. Come mai lei ha scelto di non mostrarla affatto?

Volevo che "Lo sguardo di Ulisse" narrasse il viaggio reale di qualcuno che viene da fuori.  Se avessi voluto fare un film di guerra avrei scelto l’Iliade e non l’Odissea. Non credo che sia necessario mostrare la guerra, ma riportarne l’atmosfera, il terrore, l’assenza. "La sottile linea rossa" di Terrence Malick è un film che racconta la guerra senza mostrarla.

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In che misura la sua vicenda personale entra nei personaggi del film?

Flaubert diceva: Madame Bovary sono io. In tutto i personaggi che raccontiamo ci sono parti di noi, non solo nel protagonista. Come ho già detto, in questo film c’è molto della mia vicenda personale: ho voluto riportare in immagini episodi che mi erano veramente capitati. Il tassista che accompagna A. al confine con l’Albania è sfiduciato circa le sorti del suo paese: "La Grecia sta morendo", afferma. Ho incontrato un tassista che mi ha detto la stessa cosa e mi sono trovato d’accordo con lui: la Grecia non è più la stessa, non ci sono più valori, nè alcun desiderio di collaborare per la crescita del paese.

 

Il film inizia con le immagini d’epoca di un film dei fratelli Manakias. Una voce fuori campo ci parla dell’innocenza del primo sguardo. Eppure in tutto il film non vi è un solo primo piano: un film sullo sguardo in cui non si vedono mai gli occhi.

Bergman diceva che non c’è nulla di più bello della geografia di un volto per raccontare l’uomo, ma io credo invece che l’uomo inteso come anima debba essere rappresentato attraverso i suoi movimenti. Nei miei film ci sono pochissimi primi piani e incontro grandi difficoltà a realizzarli; i piani sequenza, per complicati e articolati che siano, mi riescono più facilmente.

 

"Lo sguardo di Ulisse" è dedicato alla memoria di Gian Maria Volonté che è morto durante le riprese in Grecia. La tragedia dell’evento ha influito sulla storia?

Il personaggio del direttore della cineteca di Sarajevo era stato scritto pensando a Gian Maria. Il personaggio interpretato poi da Erland Josephson è cambiato completamente. Gian Maria era romantico come una figura di Stendhal. L'avevo voluto anche in "Alessandro il Grande" e nella parte che fu di Mastroianni ne "L'apicoltore", ma i suoi impegni non gliel'avevano permesso. Volontè non aveva bisogno di recitare, portava tutto dentro di sé. Keitel infatti era molto preoccupato, perché era evidente che Volonté avrebbe oscurato la sua recitazione. La morte di Gian Maria mi ha molto addolorato anche perchè è avvenuta lontano dalla sua patria.

 

Che cosa pensa del cinema europeo degli ultimi anni?

La situazione è malinconica. Ieri sera mi sono trovato con Francesco Rosi e i fratelli Taviani e abbiamo condiviso lo stesso senso di sconforto. L’ultimo film italiano che è arrivato in Grecia è "La vita è bella". E’ assurdo che in Europa i film non girino, mi auguro che sia solo un periodo di interregno e che le cose possano cambiare.

 

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