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Si disapprova: La censura e il cinema

Fabrizio Natalini

 


Nello spazio dell'ex-Mattatoio di Testaccio, a Roma, si svolge fino al 23 gennaio 2000 la XII edizione di Promo Immagine Cinema. Oltre al consueto concorso legato alle campagne pubblicitarie cinematografiche dell'anno, che premia il miglior trailer, il migliore manifesto e la migliore pubblicità radiofonica, quest'edizione ospita Si disapprova, mostra sulla censura cinematografica, in particolar modo quella operata nei confronti dei manifesti e delle locandine cinematografiche.

La maggior parte di noi, pensando alla censura (cinematografica o meno), percepisce la sensazione forte di una sottrazione, di una mancanza: la censura, politica o di mercato, è qualcosa che toglie, che trasforma in altro, che tratta il pubblico, la gente, noi, come altro da sé, privandoci della possibilità di vedere o di capire coi nostri strumenti critici.

Il cinema censurato ci provoca un ulteriore senso di frustrazione, d'impotenza coatta, poiché la pellicola che noi vediamo nelle sale è necessariamente, ai nostri occhi, l'unicum, il prodotto finale e definitivo, la successione d'immagini e dialoghi e inquadrature scelti da un autore per raccontarci un qualcosa.

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Nello spettatore informato c'è la consapevolezza dell'agire della censura, e, per questo, il lettore attento sa, e lo sa come DNA acquisito, che ciò che vede è la massima mediazione fra l'opera d'arte in senso stretto e il comune senso del pudore. Al cinema lo spettatore, quando vede un film che sa censurato, ha chiaro che gli è già stato sottratto - in ogni caso - qualcosa, che nulla e nessuno, se non la visione dell'opera originale con occhio vergine, ormai impossibile quando già si conosce la versione "censurata", potrà restituire alla sua fantasia. Quindi la violenza è in ogni caso già subita, irrimediabile, anche quando il film venisse poi reintegrato nella sua originaria formula.

E a poco vale l'odierno fiorire di "final cut" approvati dagli autori originali oppure rimontati con faticose operazioni di ricostruzione a posteriori, operazioni in cui grande è la frustrazione a fronte di filologici riassemblaggi, ricostruzioni dove manca la voce degli attori, o dove i colori non sono più quelli, o le pellicole si offrono a noi piene di graffi, di segni, di ferite dolorose, in cui forte si sente la presenza di un qualche Torquemada, di uno Scarpia da operetta è intervenuto sui nostri sogni prima ancora che noi potessimo sognarli.

Tuttavia, considerando che in una pellicola di durata media (ottanta-novanta minuti) i tagli assommano a uno, due minuti (una scena oscurata, una battuta alterata) è quasi impossibile riuscire a percepire in maniera netta l'umiliazione subita, se non quale pura mozione d'ordine idealista contro la censura in sé per sé.

Ma nella mostra Si disapprova l'intervento della censura è lampante: l'ANICA e la Cineteca Comunale di Bologna, in collaborazione con il Dipartimento dello Spettacolo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, hanno ricostruito quarant'anni di pruderie attraverso i manifesti e il materiale pubblicitario di 150 film.

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Si disapprova ci mostra le cosiddette buste, i materiali pubblicitari inediti e le immagini provenienti dagli archivi della censura cinematografica, e quindi il pubblico può vedere - con i suoi tempi e non con i tempi imposti dalla pellicola - le operazioni subite dai manifesti: le gonne allungate, le mani sovrapposte a coprire, le foto oscurate, le richieste scritte dei censori di "togliere il sangue dal manichino", e percepire meglio quali dietrologie si celino all'interno dell'opera del censore.

Per prassi, la società produttrice o la distribuzione devono richiedere il nulla osta preventivo per il materiale pubblicitario, consegnando in alcuni casi una copia del bozzetto originale e/o una fotografia del medesimo. Sul retro della singola fotografia viene apposta l'autorizzazione o la non autorizzazione. Le diciture utilizzate sono "si approva", "si approva ad eccezione di..", "si approva a condizione che... ", "contrario alla richiesta", "disposto il sequestro", "non si approva". In molti casi si è rintracciata la singolare dicitura "si disapprova" (da questo il titolo della Mostra, naturalmente).

In Si disapprova c’è moltissimo da vedere: il quadratino bianco apposto alle immagini "provocatorie", uno stratagemma che nell’ambiente venne definito "mettere le mutande" (dirette discendenti dell’oscuro "braghettone" che imperversò sul michelangiolesco Giudizio universale), le immagini sequestrate (si veda una splendida Anita Ekberg discintamente sdraiata, nel Zarak Khan di Terence Young del 1957), oppure aerografate (una Gina Lollobrigida in costume, di schiena, ne Le bambole, del 1965: nella locandina l’aerografo ha debitamente velato i nobili lombi della diva).

Ci sono immagini cancellate con un colpo di penna, come a scuola (si pensi ai film del ventennio con Osvaldo Valenti, grande attore del cinema del fascismo, che aderì alla Repubblica di Salò e fu condannato a morte e giustiziato nel ‘45, il cui nome, nelle riedizioni delle pellicole subito dopo la guerra - Harlem, di Carmine Gallone, 1943 e La cena delle beffe, di Alessandro Blasetti, 1942 - venne depennato dai credits).

Ci sono i poster rinviati al mittente per le opportune modifiche, come l’ingenuo bozzetto de La bisarca, film varietà di Giorgio Simonelli con Peppino de Filippo e Silvana Pampanini, nella cui versione modificata e approvata si allungano i vestiti mentre, naturalmente, i seni divengono meno pronunciati. Enormi ventagli vengono piazzati a coprire i particolari impudichi (Paradiso dell’uomo, di Giuliano Tomei, 1963) e persino il titolo del film, opportunamente ingrandito, viene utilizzato allo stesso scopo (Poveri ma belli, di Dino Risi, 1956).

E a proposito di titoli: il manifesto de L’Anticristo (Alberto de Martino, 1974), che prevedeva appunto il solo titolo, in grande, con le due T in stampatello a riprodurre due croci, una dritta e una rovesciata, naturalmente venne sequestrato.

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Da un punto di vista squisitamente estetico, il trionfo della pruderie è l'enorme mano bianca aggiunta a coprire una giovane Brigitte Bardot in Miss Spogliarello (En effeiullant la marguerite, Marc Allegret, 1956) che ovviamente serve solo a rendere l’immagine molto più morbosa.

La politica agisce in vario modo, basta pensare al manifesto de La battaglia d’Algeri (Gillo Pontecorvo, 1966), dove il prima e il dopo (l’intervento dell’Ambasciata francese) sono separati dall’apposizione di alcune fotografie per nascondere la bandiera della Francia fra le mani dell’indipendentista algerino.

Dal 1969 alla metà degli anni settanta, parallelamente alle questure, agì un comitato preventivo composto da ANICA e AGIS (qualcosa di analogo al tristemente noto Codice Hays americano): sono gli anni dell’autocensura dei produttori e dei distributori. E, per non incorrere nelle ire e nelle denuncie dei volontari del buoncostume, anche il prudente esercente poteva apporre le adeguate "PROSSIMAMENTE" e "SOLO PER OGGI" nei punti giusti, oppure ci pensava il parroco volonteroso - ricordate Leopoldo Trieste il Nuovo Cinema Paradiso? - tagliando dai film tutti i baci e le scene di sesso.

Non che il cinema non sia a sua volta vendicato dei censori: basta ricordare Le tentazioni del dottor Antonio, l’episodio di Boccaccio’70 (1962) diretto da Federico Fellini, in cui Peppino de Filippo disegna una ridicola figura di ipocrita benpensante che misura le gambe delle sedie (ispirato, si dice, a Oscar Luigi Scalfaro, prima dei fasti presidenziali) o Il moralista di Giorgio Bianchi, (1959), dove Rodolfo Sonego e Alberto Sordi tratteggiano una figura di censore ispirata al più che noto Agostino Greggi, onorevole democristiano e animatore dell’Associazione dei genitori cattolici.

L'operazione di cui è frutto Si disapprova è il progetto d'informatizzazione del materiale cartaceo contenuto nelle oltre 93.000 pratiche depositate presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Dipartimento dello Spettacolo, dove sono custoditi i documenti relativi alle richieste di autorizzazione alla diffusione di tutti i film distribuiti in Italia dalla fine del 1944 ad oggi.

Alla mostra si accompagna una pubblicazione che ricostruisce la lunga storia della censura italiana (la Revisione Cinematografica, l'organismo che provvede in Italia ad autorizzare le proiezioni in pubblico delle opere cinematografiche, fu istituita sin dal 1913) e vanta gli interventi di alcuni dei maggiori cartellonisti del cinema italiano incorsi nelle ire della censura.

 

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