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Recensione/Bowfinger

Paola Casella

 


Bowfinger, scritto da Steve Martin, diretto da Frank Oz, con Steve Martin, Eddie Murphy, Terence Stamp, Robert Downey Jr., Heather Graham, Christine Baranski

Tanto vale che lo dica subito: ho un debole per Steve Martin, fin da quando faceva il comico nel cabaret televisivo americano Saturday Night Live, ddurante gli anni d'oro di Dan Ackroyd e John Belushi. Mi piacciono la sua maschera di uomo comune, cioè di americano medio, e allo stesso tempo l'intelligenza libera che gli consente di guardare all'America con un distacco e una capacita' critica quasi europei (non a caso uno dei suoi personaggi comici più riusciti era quello del polacco emigrato negli States).

Ho seguito Martin lungo tutto il corso della sua carriera cinematografica, dalle commedie bittersweet degli esordi (Lo straccione, che ha segnato il suo debutto come cosceneggiatore, e Pennies from Heaven) alle farse demenziali (I tre amigos, Il testimone piu' pazzo del mondo, Vendesi miracolo) alle parodie di genere (Il mistero del cadavere scomparso, Ho perso la testa per un cervello, dei quali e' stato anche cosceneggiatore, La piccola bottega degli orrori).

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Trovo spassoso il cinismo nichilista di certe sue commedie, come Due figli di..., e di alcuni suoi personaggi, come il produttore senza scrupoli, ritagliato su misura su Joel Silver, di Grand Canyon; mi commuove la sua tenerezza (ai limiti della melensaggine, d'accordo) nella serie del Padre della sposa. Ma sono soprattutto le sue commedie amare a mettere in luce il suo particolare tipo di comicità, basato sull'imbarazzo fisico ed esistenziale, sul disagio, sul senso di inadeguatezza che appartengono tanto all'uomo quanto all'attore. Se c'è una caratteristica del sense of humor made in Martin è il cuore spezzato che sta dietro ogni sua battuta, la malinconia dietro ogni gag. E' il segreto di tanti grandi comici del passato, uno per tutti Buster Keaton, ma fra i contemporanei americani non riesco a individuarne un altro che sposi così felicemente divertimento e dispiacere, ironia e dolore.

Potrei vedere cento volte la scena di Parenti, amici e tanti guai nella quale Martin, con quella sua irresistibile fisicità comica, percorre il campo di baseball a balzelloni dopo che il figlio (atleticamente negato) segna per la sua squadra, così come la sequenza di Roxanne nella quale Martin-Cyrano prova a immaginarsi con una serie di nasi alla francese - e non è un caso che Roxanne sia stato sceneggiato dall'attore.

Così come non è un caso che Steve Martin abbia firmato anche le sceneggiature di LA Story e di quest'ultimo suo film da interprete, Bowfinger, per la regia di Frank Oz, che aveva già diretto l'attore in Due figli di...e La piccola bottega degli orrori. Sia LA Story che Bowfinger sono dichiarazioni d'amore (o "valentini", come direbbero gli americani) a Los Angeles, la città di adozione di Martin, ed entrambe raccontano la città nello stile caratteristico dell'attore-autore, ovvero con un misto di emozione (gratitudine, quasi) e sarcasmo, tratteggiandone un ritratto conemporaneamente impietoso e ricco di pietas.

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Se LA Story parlava di Los Angeles in generale, Bowfinger si concentra sulla Los Angeles del cinema: non quello glamorous e opulento di Hollywood, ma quello di serie B (o zeta, in questo caso) che vivacchia ai confini della mecca del cinema senza mai riuscire a entrare dall'ingresso principale (i cancelli della Paramount, per intenderci). Già per questo il film fa simpatia: i suoi protagonisti sono tutti illusi falliti o in procinto di fallire, dal contabile che si improvvisa sceneggiatore (Adam Alexi-Malle) all'attrice (Christine Baranski) in declino (declino si fa per dire, visto che, come Rocky, non ha mai raggiunto l'apice), dall'attor giovane belloccio ma negato (Jamie Kennedy) all'assistente alla regia tuttofare (Kohl Sudduth).

Il più sfigato di tutti è proprio il produttore Bobby Bowfinger interpretato da Steve Martin, un incrocio fra un sognatore e un trafficone (quale figura più poetica, e più caratteristica della comicità europea, vedi Totò?), genuinamente innamorato del cinema (e delle luci della ribalta) e disposto a qualunque sotterfugio, come quello che costituisce il filo portante del film: il team raccogliticcio assemblato da Bowfinger dietro promesse di fama e fortuna filma di nascosto (così di nascosto che neppure i membri del cast ne sono al corrente) una superstar di Hollywood (interpretata dalla vera superstar Eddie Murphy, insospettabilmente autoironico) per poi fingere che lui abbia recitato volontariamente nel film.

Gli unici personaggi a mostrare qualche promessa di successo, e che infatti finiscono per mangiare la foglia prima degli altri, sono la ragazza dell'Ohio (Heather Graham, strepitosa) sbarcata da un Greyhound con il sogno di diventare una stella, e che probabilmente lo diventerà perchè si rivela ricca di iniziativa e priva di scrupoli, e la troupe di cineoperatori messicani reclutati alla frontiera californiana, cioè sottratti alle grinfie del dipartimento immigrazione, i quali rivelano un'insospettabile cultura cinematografica (ecco il tocco sofisticato dello Steve Martin sceneggiatore) e un innato talento per la regia.

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La farsa, perchè di farsa si tratta, con tanto di escalation frenetica e di sviluppi demenziali, compie il peccato mortale: non è abbastanza divertente. Probabilmente è anche un problema di traduzione e di doppiaggio: sospetto che le battute siano molto più riuscite in lingua originale, anche perchè la comicità di Martin è così radicata nell'ambiente e la mentalità americana che qualunque filtro etnico le fa danno (e infatti i critici italiani che hanno visto Bowfinger in lingua originale durante l'anteprima al Festival di Locarno l'hanno definito spassoso).

Eddie Murphy, impegnato nel doppio ruolo della superstar di cui sopra e del suo cugino scemo, risuta più imbarazzante che comico, come in tutti i suoi film più recenti (e la sua comicità, al contrario di quella di Martin, non dovrebbe contemplare l'imbarazzo). Lo stesso Martin si perde nel mare delle gag verbali, come già detto penalizzate dalla trasposizione, e fisiche, più infantili del necessario.

Ma c'è ancora abbastanza Steve Martin da farmi restare fino alla fine: decine di riferimenti socioculturali sofisticati che chunque abbia familiarità con gli Stati Uniti saprà apprezzare, innumerevoli dettagli di costume, come il braccialetto buddista del produttore o la rivista specializzata di cinema nelle mani della manovalanza messicana. E poi la scelta oculata degli attori, dalla caratterista Christine Baranski, più nota a Broadway che sul grande schermo, a Robert Downey Junior nella parodia di un produttore di successo: una scelta saggia, visti il talento dell'attore e il suo occhio critico nei confronti di Hollywood, ma anche coraggiosa e solidale, considerato che l'attore trascorre gran parte del suo tempo fra cliniche di riabilitazione e celle di prigione - losangeline, naturalmente.

 

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