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Recensione/A walk on the moon

Paola Casella

 


A walk on the moon, diretto da Tony Goldwyn, scritto da Pamela Gray, prodotto da Dustin Hoffman, con Diane Lane, Viggo Mortensen, Liev Schreiber, Anna Paquin, Tovah Feldshuh

C'era bisogno di raccontare sul grande schermo, per l'ennesima volta, la storia di una casalinga frustrata che ritrova la propria identita' grazie all'avventura occasionale con uno sconosciuto? La risposta, nel caso di A walk on the moon, e': probabilmente no, perche' questo piccolo film non aggiunge nulla di rilevante o di innovativo sull'argomento. Tuttavia il regista, Tony Goldwyn, ex attore (era il cattivo di Ghost) alla prima esperienza dietro la cinepresa, e i suoi attori, soprattutto Diane Lane e Liev Schreiber, raccontano la storia meglio di tanti, lasciando intravvedere una genuina buona fede che rende A walk on the moon non solo guardabile, ma a tratti anche commovente.

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I dettagli della trama: Pearl (Diane Lane) e Marty (Liev Schreiber) sono una coppia sulla trentina, con due figli -- dei quali la prima, Alison (Anna Paquin, la bambina di Lezione di piano, ora quattordicenne) e' abbastanza grande da apparire immediatamente come un errore di gioventu' dei genitori. Nella prima scena del film ci infiliamo in macchina con Pearl, Marty, i due figli (oltre ad Alison c'e' un fratellino di dieci anni) e la nonna paterna, Lilian (Tovah Feldshuh): la famiglia al completo e' in partenza per le vacanze nei Catskills, una zona montuosa a nord dello Stato di New York. La localita' di vacanza e' quasi identica a quella nella quale era ambientato Dirty Dancing: un ritrovo turistico per famiglie ebree, pretesto cinematografico per una serie di gag sull'etnia giudaico-americana e sfondo ricorrente per parabole yankee sulla fatica femminile di conservare la propria identita' all'interno di una struttura etnico-sociale soffocante.

Le micce per garantire l'esplosione del conflitto sono disseminate dappertutto: Pearl e Marty si sono sposati troppo presto (causa l'errore di gioventu' di cui sopra), la loro routine domestica e' stressante e ripetitiva ("andiamo sempre in vacanza nello stesso posto, tutti gli anni"), il budget familiare e' ristretto (di qui la scelta della squallida localita' di villeggiatura), la prossimita' (ergo carenza di spazi vitali) fra i componenti della famiglia e' incessante, la suocera (classico archetipo di mamma ebraica) e' sempre nell'inquadratura (ergo i due coniugi non hanno un momento di privacy). Pearl e' bella e sciupata, Marty e' distratto e irrequieto: lui allunga l'occhio (se non le mani) sulla splendida del campeggio, lei si guarda allo specchio senza riconoscersi.

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Quando nel villaggio turistico arriva un venditore di camicette che sembra uscito dalla copertina di un romanzetto Harmony, sappiamo gia' come andra' a finire. Il casting di Viggo Mortensen, surfer biondo con mani da attrezzista, nel ruolo di Walker, il venditore di camicette/sogno erotico di casalinghe represse, e' contemporaneamente azzeccatissimo e banalizzante: basta visualizzare nello stesso ruolo Sam Shepard da giovane e la storia prende tutto uno sturm und drang diverso, assumendo una pretenziosita' intellettuale alla quale A walk on the moon - volutamente? - si sottrae. Mortensen e' esattamente il tipo fisico che, nel 1969, anno in cui e' ambientata la vicenda, rappresentava la nuova sessualita' maschile: atletico ma in modo naturale (passeggiate nei boschi, non fitness club), grezzo ma gentile, primitivo ma spiritualmente illuminato. Uno col quale Pearl puo' fare sesso sotto una cascata col beneplacito di Betty Friedan.

Il che e' importante, visto che il clima che la circonda fa di tutto per stimolare il suo desiderio di emancipazione femminile: quella del 1969 e' infatti la Summer of love, l'estate durante la quale l'America giovane scopriva l'amore libero e l'autoaffermazione. Le ragazze bruciavano i reggiseni come i ragazzi le cartoline di chiamata in Vietnam, i Doors cantavano Light my fire, e a pochi passi dai ritrovi per famiglie ebraiche (cioe' dai baluardi della tradizione perpetuata persino nel tempo libero) c'erano i prati di Woodstock: impossibile evitare la contaminazione fra i mondi, e infatti la scena clou di A walk on the moon vede alcuni componenti della famiglia protagonista coinvolti nel contesto del concerto rock che ha segnato una generazione. Neppure il cielo era piu' il limite: proprio quell'estate infatti l'uomo metteva il piede sulla luna, producendosi nella passeggiata galattica che da' il titolo al film. E naturalmente e' proprio durante l'allunaggio (cioe' il contatto con un pianeta sconosciuto) che Pearl comincia a esplorare il territorio ignoto di se stessa, con Walker nel ruolo del comandante di base.

La parabola di Pearl sarebbe assolutamente prevedibile (e lo e', comprese le sequenze erotiche filmate con buon gusto e compiacimento) se a dare versatilita' espressiva alla casalinga insoddisfatta non ci fosse un'attrice complessa (e sottovalutata) come Diane Lane. Fin dai tempi dei Ragazzi della 56esima strada e Rusty il selvaggio, quando faceva la fidanzatina di Matt Dillon, si capiva che c'era in lei la stoffa dell'attrice di talento. Una serie di scelte cinematografiche scadenti (esempio: il disastroso Cotton Club di Coppola) e il matrimonio con Christopher Lambert le sono pero' costati la latitanza dal grande schermo, fino al recente ritorno (lasciato Lambert a Parietti & Co.) in una serie di piccoli film dove con tigna e umilta' Lane ha ricoperto ruoli di vario rilievo, segnalandosi sempre per onesta' professionale e credibilita' emotiva. Il suo viso appena un po' segnato lascia passare una varieta' infinita di sfumature interpretative; il suo fisico puo' apparire contemporaneamente maturo e adolescenziale, il che fa il gioco di un ruolo nel quale le incongruenze fanno parte della caratterizzazione.

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Appare invece curiosamente monocorde il ritratto della suocera tratteggiato dalla sceneggiatrice, Pamela Gray, e interpretato da Tovah Feldshuh, veterana del teatro yiddish e non, nota al pubblico cinematografico per alcuni ruoli "etnici" come quello della figlia piu' bella del lattaio ebreo Tevye ne Il violinista sul tetto. C'e' qualcosa di poco credibile, al limite dello stereotipo etnico, nella saggezza atavica di Lilian, meta' buon senso e meta' superstizione, cosi' come c'e' qualcosa di inquietantemente morboso nel suo attaccamento al figlio, dichiaratamente sostitutivo del marito. Eppure il film non evidenzia mai apertamente l'invadenza di Lilian, gettando invece uno sguardo benevolo su questa ubersuocera condannata alla perfezione, che tutto sa e tutto capisce, come se fosse irrelevante che non si tratta di fatti suoi.

Il vero personaggio originale rimane quello di Marty, un marito tradito che si rifiuta di apparire come vittima o come carnefice, o meglio, che in assoluto rifiuta di essere catalogato sulla base delle circostanze. Marty e' spiritoso, sexy, intelligente. Reagisce al tradimento con la giusta proporzione di dignita' e comprensione, riuscendo alla fine nell'intento di far apparire Walker come un cartone animato, se paragonato alla sua complessita' umana. Leiv Schreiber, gia' visto in varie produzioni indipendenti (ad esempio Parlando e sparlando di Nicole Holofaner e The Daytrippers di Greg Mottola) ha le carte in regola per diventare uno dei protagonisti del nuovo cinema americano - sempre che la sua autoironia riesca ad avere la meglio sulla sua tendenza all'autocompiacimento.

 

 

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