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Recensione/Tutto su mia madre

Paola Casella

 


Tutto su mia madre, scritto e diretto da Pedro Almodovar, con Cecilia Roth, Marisa Paredes, Penelope Cruz, Antonia San Juan, Eloy Azonin, Candela Pena, Toni Canto

Ancora una volta Pedro Almodovar punta la cinepresa sull'universo femminile, e l'ammirazione, il rispetto, l'affetto profondo con i quali il regista spagnolo racconta le donne fanno di loro delle icone dell'immaginario piuttosto che degli esseri umani a tutto tondo.

Trovo infatti impossibile identificarmi con qualsiasi personaggio femminile tratteggiato da Almodovar in Tutto su mia madre non solo perche' sono per lo pił grotteschi e sopra le righe, ma anche perche' la loro identita' e' filtrata attraverso lo sguardo di uomo che ha delle donne una visione agiografica. Ci sono, occasionalmente, reazioni e battute che riconosco o condivido, ma non riesco a vedere in una delle protagoniste di Tutto su mia madre me stessa, o una mia amica, o una mia parente.

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Tutto sommato, va benissimo cosi': le donne (ma anche gli uomini) di Almodovar sono quasi sempre simboli, e le protagoniste di Tutto su mia madre in particolare incarnano ognuna un aspetto della femminilita' in modo estremo e archetipale. Piu' che un gruppo di personaggi, sono una collezione di maschere, di ritratti dipinti con tratti essenziali e a colori primari, come se il grande schermo fosse un gigantesco murale (non a caso il poster promozionale del film e' disegnato da Marine nel suo tipico stile "graffiti").

Manuela (Cecilia Roth) e' la figura centrale, la personificazione stessa della maternitą, nella sua ostinata volonta' di accudire il prossimo: Manuela e' sempre intenta a sistemare un colletto storto, o a difendere un'amica in pericolo, con eguale dedizione, perche' la capacita' femminile di prodigarsi non conosce impegni troppo piccoli o troppo onerosi. Allo stesso modo Rosa (Penelope Cruz), la suora laica che "crede di vivere in un altro mondo", ha fatto dell'altruismo una ragione di vita, non tanto per istinto materno (come Manuela) ma per un bisogno (tutto femminile) di annullamento, simile all'istinto autodistruttivo (di nuovo, molto femminile) di Nina (Candela Pena), l'attrice drogata. Al contrario Huma (Marisa Paredes), la diva di teatro, ha accentrato tutte le attenzioni su di se (quintessenza dell'esibizionismo e della vanita' femminile), per scoprire che "il successo non ha odore ne' sapore".

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Poi ci sono i transessuali, figure intermedie piu' o meno riuscite: Lola (Toni Canto) ha "tutto il peggio dell'uomo e tutto il peggio della donna"; Agrado (Antonia San Juan, donna vera nella vita) somma invece il meglio dei due mondi, incarnado l'unica qualita' che serve a entrambi i generi per sopravvivere: l'ironia, soprattutto rivolta a se stessi. I maschi (rimasti tali) sono pochi, e unidimensionali -- l'attore macho un po' cerebroleso, il padre di Rosa avulso dalla realta' -- con l'unica eccezione del figlio di Manuela, Esteban (Eloy Azonin), alter ego di Almodovar e rappresentante di una nuova generazione (o meglio, un nuovo genere), capace di amare veramente le donne. Peccato che Esteban muoia in una delle prime scene del film, una scena di tale impatto emotivo, visivo, fisico da lasciare senza fiato.

Una volta delineate le maschere, ognuna delle quali e' descritta sinteticamente da una battuta del film (Un esempio? Quella pronunciata da Agrado: "L'unica cosa che ho di vero sono i sentimenti"), parte la messa in scena, a meta' fra il melodramma e la pantomima, condita da imprevedibili accenti di autenticita' da parte di Cecilia Roth, cui Almodovar ha chiesto espressamente di recitare in modo naturalistico in mezzo ai toni estremi delle altre attrici -- si noti anche che il viso di Manuela e' l'unico senza un filo di trucco, mentre gli altri sono veri e propri mascheroni di cerone e belletto.

Il confine fra realta' e finzione, fra vita e teatro e' volutamente labile: Tutto su mia madre apre con un film nel film (Eva contro Eva, che in inglese si chiama All about Eve, cioe' Tutto su Eva -- capito il riferimento del titolo?) ed e' inframmezzato, a scadenze quasi regolari, da scene di Un tram che si chiama desiderio, recitato su un palcoscenico dove prima o poi si esibiscono quasi tutte le protagoniste della storia.

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I numerosi riferimenti a trapianti, trasfusioni e travestimenti sono continue allusioni alla confusione dei ruoli sessuali che caratterizza questa fine millennio, e della quale Almodovar e' diventato il portavoce ufficiale. Da questa confusione le donne, secondo il regista spagnolo, escono a testa alta (pur se con grande dolore e sacrifici) proprio per la loro capacitą di adattamento, la loro sconfinata apertura mentale, la loro "abitudine a improvvisare", come dice Manuela.

L'omaggio di Almodovar, in questa sua dichiarazione d'amore (da uomo, e da omosessuale), va soprattutto alla generosita' delle donne e alla loro determinazione ad esternare i sentimenti senza autocensure. In questo Almodovar supera persino le sue protagoniste, costruendo un film spudoratamente sentimentale, nella convinzione che il pudore non stia nel contenimento ma nella genuinita' dello slancio emotivo.

Tanta franchezza espressiva, tanta elementarieta' di contenuti e' il risultato diretto, apparentemente senza sforzo, di una grande attenzione al dettaglio e di un'acquisita maturita' professionale: la regia, per la quale Almodovar ha conquistato il palmares allo scorso Festival di Cannes, e' ricca di virtuosisimi, dalle soggettive, (fra cui il "punto di vista" della punta di una matita), alle transizioni fra una scena e l'altra (fluide quando serve, brusche quando la trama lo richiede). I fondali contro i quali si stagliano le interpreti (o dai quali emergono come figurine di un bassorilievo) sembrano usciti dai quadri di Matisse; la recitazione delle protagoniste e' orchestrata con sapiente dosaggio di toni e di timbri; la colonna sonora, composta da Alberto Iglesias ed eseguita dalla Filarmonica di Praga, mescola in modo geniale opera e avant garde, jazz e folk latino.

 

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