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Diario da Cannes



Leonardo Gandini




Fino a qualche anno fa era possibile, qui a Cannes, restringere la cerchia dei possibili vincitori della Palma d’oro a qualche nome, con ragionevoli probabilità di azzeccare il pronostico. Oggi invece quella delle previsioni è diventata un’autentica impresa, dato l’alto numero di cineasti di prima grandezza che hanno il loro ultimo film in concorso. Volendo solo fare un breve elenco, abbiamo due recenti vincitori della Palma d’oro come i fratelli belgi Luc e Jean-Pierre Dardenne (Rosetta), che in Le fils continuano il loro discorso sul mondo del lavoro, e l’inglese Mike Leigh (Segreti e bugie), che in All or nothing racconta la storia di una coppia in crisi; grandi maestri come il portoghese Manoel de Oliveira, che in O Principio da Incerteza si dedica agli intrecci sentimentali fra quattro personaggi, l’inglese Ken Loach, che in Sweet Sixteen narra le vicissitudini di un sedicenne con la madre in prigione, e il praticamente apolide (ha girato quasi ovunque) Roman Polanski, tornato dopo ben quarant’anni nella natia Polonia per girare Il pianista, protagonista un ebreo che sfugge alla deportazione.

E ancora, cineasti affermati come il canadese David Cronenberg, il cui Spider è tratto da un romanzo di Patrick McGrath, il russo Alexander Sokourov, che in Russian Ark mette in scena addirittura un cineasta capace di viaggiare nel tempo, e l’americano Paul Thomas Anderson, rivelatosi con Magnolia, che per il suo Punch-Drunk Love ha voluto come protagonista Adam Sandler, la cui solida fama hollywoodiana dipende, per ora, da una nutrita serie di risibili commedie per adolescenti.

Insomma, registi e film (almeno sulla carta) importanti, che prevedibilmente susciteranno, nei giorni a venire, discussioni serie e profonde. Forse per questo, al fine di relativizzare un po’ la portata dei dibattiti che ci attendono, il direttore del festival di Cannes ha voluto che la selezione ufficiale venisse inaugurata da Hollywood Ending di Woody Allen, dove quest’ultimo interpreta la parte di un cineasta in declino che, schiavo di malattie psicosomatiche, perde la vista proprio alla vigilia delle riprese del film che dovrebbe riportarlo in auge. Tra mille peripezie, e con la complice assistenza dell’agente e dell’ex-moglie, che hanno il compito di nascondere ai membri della troupe portare a termine il film che, come è prevedibile, suscita la reazione inorridita di pubblico e critica, fatto salvo per quella francese, che lo giudica un capolavoro...

Presa in giro doverosa e salutare, a mo’ di antidoto per chi volesse prendere, nei prossimi giorni, troppo sul serio l’esercizio critico; peccato che Allen stia, col tempo, perdendo smalto, e acquisendo il vizio di allungare il brodo (il film dura quasi mezz’ora in più del suo standard abituale) senza motivo, cosi’ che anche le sue proverbiali battute risultano diluite in un mare di dialoghi inutili e noiosi.

Ad aprire il concorso, Kedma di Amos Gitai, film che possiamo decisamente ricondurre all’ambito delle pellicole serie e importanti di cui si diceva sopra. Il cineasta israeliano vi tratta infatti un tema di stringente attualità, quello della difficile convivenza fra arabi ed ebrei in Palestina. Siamo nella primavera del 1948, su una nave, il cui nome dà il titolo al film, che porta i sopravvissuti all’Olocausto nella terra dove dovrebbe sorgere lo stato di Israele. Qui i nuovi arrivati devono pero’ fare i conti con gli ultimi battaglioni dell’esercito britannico, prossimo ad abbandonare la zona, e con la popolazione araba, che rivendica i propri diritti su quel territorio.

Calandosi in una prospettiva brechtiana, distaccata e didattica insieme, Gitai rinuncia alla ricostruzione d’epoca, e trasforma le alture della Palestina in una sorta di palcoscenico della Storia, dove i personaggi a turno rievocano le tragedie del passato - la deportazione, lo sterminio nei lager, le fughe rocambolesche per scampare alla Gestapo - e si lasciano andare a riflessioni sull’ineluttabilità di un futuro ancora costellato di violenza, questa volta prodotta oltre che subita, e sofferenza, quasi che il destino di un intero popolo risulti, in definitiva, scolpito nel dolore.

Film sul passato pensato e costruito a partire da una prospettiva attuale, nel tentativo di tracciare un filo rosso tra i drammi di ieri e di oggi, Kedma rappresenta un contributo importante alla comprensione del conflitto tra arabi e israeliani, poichè gli fornisce un retroterra profondamente umano, fatto di lacrime, sangue e rabbia, che non ha ancora trovato un luogo, un tempo e un’opportunità di pacificazione.

 

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