Parla con lei
Umberto Curi
“L’aspetto è quello di una fanciulla vera, e diresti che è viva,
che potrebbe muoversi…Egli ne è incantato, e in cuore brucia di
passione per quel corpo…La bacia e immagina che lei lo baci, le
parla, l’abbraccia…Ora la vezzeggia, ora le porge doni graditi
alle fanciulle…Le addobba poi il corpo di vesti, le infila brillanti
alle dita e al collo monili preziosi…Tutto le sta bene, ma nuda non
appare meno bella…La chiama sua compagna e delicatamente, quasi
sentisse, le fa posare il capo su morbidi cuscini” (OVIDIO, Metamorfosi,
libro X, vv..). Scritta due millenni fa, questa descrizione sembra
corrispondere perfettamente a ciò che vediamo in questa recente opera
di Almodovar. Come il protagonista del mito narrato da Ovidio, anche
Benigno “”viveva celibe, senza sposarsi, e senza una compagna che
dividesse il suo letto” (vv…). Anch’egli, come Pigmalione, “brucia
di passione per quel corpo”. Anch’egli si prende cura di un corpo
inerte, ma provvisto di tale bellezza, “che nessuna donna vivente è
in grado di vantare”(vv..). In entrambi i casi, un corpo privo di
vita (perché ancora non l’aveva, o perché l’ha perduta) si anima
(o si ri-anima) in conseguenza delle effusioni erotiche di
un amante appassionato.
Anche al di là dei numerosi e significativi punti di coincidenza
testuali, ciò che più intimamente accomuna i due personaggi è il
rapporto che essi instaurano con ciò che - ai loro occhi - soltanto appare
essere privo di vita autonoma. Contro ogni positivistica
evidenza, che dovrebbe ricordare loro la natura letteralmente in-animata
della donna amata (una statua per l’uno, un “sempreverde” in
coma profondo per l’altro), Pigmalione e Benigno si rivolgono a quel
“corpo” non solo come se fosse in vita, ma addirittura come l’espressione
più compiuta e in ogni senso perfetta dell’essenza muliebre.

Incomprensibili per chiunque
altro, apparentemente del tutto irrazionali, le attenzioni che essi
riservano all’oggetto del loro amore si spiegano non come effetto di
una presunta “devianza”, ovvero come indizio di una anomalia
patologica, quanto piuttosto come dedizione assoluta ad un “modello”,
come culto, in senso proprio, riservato a chi di gran lunga
ecceda, in bellezza e in ogni virtù, qualunque altra donna. Non
inspiegabile follia, dunque, ma esattamente all’opposto
massima coerenza nel perseguimento di un ideale. Non “malattia”
mentale, abiezione piscopatologica, delirio schizofrenico. Ma
inflessibile ricerca della perfezione, indisponibilità a rassegnarsi
alla mediocrità, massima coerenza nella tensione verso l’assoluto.
Ne è prova lampante, al di là di ogni possibile dubbio, la
situazione nella quale i due uomini si trovano, prima dell’incontro
fatale che deciderà la loro vita. Nonostante le differenze, il percorso
attraverso il quale essi giungono ad incontrare l’oggetto del loro
amore si presenta con i caratteri di un’esperienza iniziatica, di un
itinerarium mentis et corporis che presuppone o attraversa la
radicale svalutazione delle “donne”, allo scopo di cogliere la donna,
nella sua quintessenza, nel nocciolo misterico col quale essa si
presenta nell’esperienza umana.
Alla decisione di “costruirsi” da sé, con le proprie mani,
qualcosa che almeno assomigli ad un ideale compiuto di donna,
Pigmalione perviene spinto dall’aver visto “le Propetidi condurre
vita dissoluta”, e quindi dal disgusto per “i vizi illimitati che
natura ha dato alla donna” (vv….). Alla cura di Alicia, Benigno
giunge provenendo da un’analoga prova di dedizione totale, nei
confronti di un’altra donna, quale è quella che lo ha condotto ad
accudire per anni la vecchia madre inferma. In entrambi i casi, è il
celibato - inteso non come scelta di pura astinenza, come
automortificazione della carne, come rinuncia “penitenziale” alle
gioie del sesso e dell’amore, ma all’opposto come kenosis
propedeutica ad una esperienza erotica autentica, immune da ogni “vizio”,
al di là di ogni limite - il presupposto in base al quale essi
potranno disporsi a ricercare e infine trovare la donna.
Indipendentemente da ogni altra considerazione, il riferimento al
modello ovidiano, presente nel film con un scrupolo filologico per
certi aspetti stupefacente, consente se non altro di superare d’un
balzo ogni banalissima e inconcludente disputa sul presunto “realismo”
di questa opera cinematografica, tagliando corto con le oziose
disquisizioni di stampo “morale” suscitate dal comportamento del
protagonista. Attardarsi a discutere se, e fino a quel punto, Benigno
abbia o meno “abusato” del suo ruolo, per violare l’intimità di
una fanciulla indifesa, vuol dire attribuire al film intenti del tutto
estranei alla “poetica” del suo autore, precludendosi altresì la
possibilità di cogliere quale sia il nucleo problematico, intorno al
quale l’opera è costruita. Viceversa, riportando la figura di
Benigno a quella di Pigmalione, si può far emergere almeno uno
(probabilmente il principale) dei molti filoni in essa presenti, vale
a dire una radicale interrogazione sullo statuto dell’amore.
Una volta che si sia ricondotta questa importante opera
cinematografica a quello che ne è certamente il nucleo centrale, e
che essa sia fatta più coerentemente rientrare nella tematica
generale sulla quale l’autore “lavora” ormai da molti anni, il
problema che si pone riguarda le modalità specifiche, con le quali il
problema dell’amore è affrontato e discusso da Almodovar. La
deliberata “estremizzazione” del “caso” assunto quale
riferimento per l’indagine - la dedizione incondizionata di un uomo
a un corpo inerte, lo scarto incolmabile fra il “tutto dare” e il
“nulla ricevere” da parte di un amante, la rappresentazione di un
rapporto totalmente asimmetrico - dimostra con chiarezza che l’aspetto
dell’esperienza erotica qui evidenziato è quello per il quale l’amore
non è affatto, contrariamente alle apparenze, un rapporto,
mediante il quale si stabilisca una effettiva comunicazione fra due
soggetti, ma è invece sempre e comunque, anche in condizioni non
altrettanto estreme, femomeno essenzialmente riflessivo, affermazione
del sé, non relazione con l’altro.

Interpretata nella sua più intima
filigrana concettuale, la vicenda dell’infermiere, immerso senza
residui in questa vera e propria passione, allude ad una fra le
caratteristiche salienti dell’amore, a ciò che è spesso alla base
dell’esito tragico, o comunque infelice, a cui è esposto lo slancio
erotico, vale a dire la sua costitutiva ed ineliminabile
intransitività. Con Alicia, Benigno parla, non dia-loga.
Fra i due non intercorre alcun logos, non scorre alcun di-scorso.
Alle cure di lui, non corrisponde alcuna analoga sollecitudine
da parte di lei. Anzi, letteralmente, non cum-risponde nulla.
Ogni reciprocità è interdetta. Ogni relazione bilaterale è
preclusa. Lo stesso amplesso, teneramente “illustrato” mediante l’apologo
dello spezzone cinematografico surrealista, ha la forma di una
penetrazione nella quale la donna è completamente passiva, puro e
semplice ricettacolo del seme, ma non autentica partner
di un’attività sessuale che non implica affatto il verificarsi di
un rapporto. A Benigno non interessa minimamente che Alicia “si
svegli”, e dunque possa in qualche modo contraccambiare il suo
sentimento. Al contrario, la perfezione dell’amore di Benigno
è assicurata proprio dalla completa inerzia della donna, dalla
sua attitudine ad essere modellata da lui, esattamente come
Galatea è modellata dalle mani d’artista di Pigmalione.
Da questo punto di vista, anche Parla con lei si inserisce in
un filone, particolarmente ricco di “testi” di genere diverso, e
di exempla di grande suggestione, nei quali è descritto l’impossibilità
dell’amore come relazione paritetica, come rapporto che
pretenda di basarsi su uno “scambio” effettivo fra soggetti
equi-valenti. Per converso, il film mostra fino a che punto la realtà
dell’ “altro” possa estenuarsi, fino quasi a sparire, surrogata
da un processo di autoproiezione dell’ “io”, che tende ad
occupare completamente il terreno del rapporto, assorbendo in sé ogni
forma di alterità. Amando Alicia, Benigno riproduce infatti il
medesimo atteggiamento che è alla base dello slancio che spinge
Pigmalione verso Galatea: non già sforzarsi di entrare in contatto
con l’altro, ma all’opposto sottrarsi ad ogni autentica
comunicazione con l’altro da sé, rimpiazzando questo incontro,
comunque “rischioso” per l’autoconsistenza dell’io, con l’immedesimazione
nel semplice risultato della propria arte - quella scultorea
nel caso del personaggio greco, quella assistenziale nel caso dell’infermiere
spagnolo. Solo in apparenza l’investimento amoroso si trasferisce
da uno all’altro soggetto della relazione, stabilendo un
collegamento fra essi, mentre in realtà ciò che si verifica è un
processo di riflessione, in forza del quale l’energia erotica
soltanto si rifrange nell’altro, per ricadere poi sul sé.
La coincidenza fra il suicidio di Benigno e il risveglio di Alicia
(anch’essa un “calco” di un grande mythos moderno, quale
è quello di Romeo e Giulietta), mostra in maniera trasparente la
sostanziale irrilevanza della “partecipazione” della giovane all’intensa
storia d’amore vissuta dal protagonista. A tal punto ella è
pleonastica per la sussistenza del rapporto erotico, che questo si
annulla, anziché finalmente realizzarsi, proprio quando la giovane
riconquista pienamente la possibilità di una vita “normale”. L’autonomia
di Alicia, la sua possibilità di agire e parlare, e dunque anche di
non subire soltanto passivamente, ma anche di ricambiare attivamente,
l'amore di Benigno, anziché decretare il tanto atteso compimento
del rapporto, ne determinano l’irreversibile catastrofe. Non
traducono il sogno in realtà, ma lo dissolvono definitivamente.
Si comprende allora per quali motivi, interni alla struttura del
racconto posto alla base del film, la figura del protagonista possa
essere accostata a quella di un altro personaggio della mitologia
greco-latina, eponimo di una lunga tradizione di storie d’amore
infelici, quale è Narciso. In entrambi i casi, ciò a cui si assiste
è la rappresentazione di un processo di introversione dell’eros,
conseguenza dell’impossibilità di concepire l’altro, se non come
proiezione di se stessi. Come l’immagine della quale si innamora il
giovane figlio di Liriope, anche Alicia esiste non come soggetto
autonomo, ma solo in quanto obiettivazione dei bisogni, delle
attenzioni, della cura di Narciso-Benigno. Di conseguenza, l’amore
che costui vive si presenta come conferma - intrinsecamente
predestinata ad un esito tragico - della natura fondamentalmente
intransitiva dell’eros, e dunque della costitutiva illusorietà di
ogni relazione in cui esso si esprima.
Questa concezione sostanzialmente “disperata” dell’amore, come
inane tensione ad un completamento che resta in ogni caso precluso,
nel film viene “cantata”, prima ancora che descritta, attraverso
la voce struggente di Caetano Veloso, vale a dire ricorrendo ad un “linguaggio”
diverso da quello del racconto cinematografico, con una funzione
analoga a quella svolta da altri due “inserti”, quali sono la
sequenza surrealista in bianco e nero e, soprattutto, le due
straordinarie sequenze di teatro-danza che aprono e chiudono la
rappresentazione. La mobilitazione di linguaggi, altri e diversi,
rispetto a quello strettamente cinematografico, interviene non in
chiave meramente decorativa, ma al contrario proprio nei passaggi
risolutivi dell’opera, finalizzata alla costruzione di un palinsesto
complesso, nel quale sono al lavoro una pluralità di mezzi
espressivi, in modi differenti concorrenti ad “argomentare” l’assunto
che è alla base del film. Spogliato di ogni corredo esteriore,
alleggerito da ogni edulcorazione “romantica”, ricondotto al suo
statuto originario, l’amore è affermazione del sé, non
valorizzazione dell’altro. Soprattutto, l’amore non è un modo per
stabilire un rapporto, per entrare in comunicazione con l’alterità,
ma semplicemente un tramite per ribadire la propria identità.
Insomma, contrariamente alle apparenze, l’amore non è una cosa “semplice”.
Non si può soltanto ridurlo all’alternativa fra l’ eros,
come tensione volta alla ricomposizione dell’ “uno che eravamo”,
come scrive Platone, e l’ agape, e cioè l’attivazione di
un circolo mistico, che permette di risalire dalla creatura alla
Creatore. Viceversa, è fenomeno estremamente polivalente, nel quale
convergono aspetti molteplici. E’ luogo di contraddizione e di
conflitti, nel quale non sempre ciò che appare coincide con
ciò che è, dove possono coesistere aspetti fra loro
divergenti, e la donazione può rivelarsi come appropriazione, l’alterità
manifestarsi come identità riflessa. Ad esso si può applicare la
stessa frase, riferita al balletto, con la quale significativamente si
chiude il film di Alomodovar: “il ballèt non è una cosa
semplice. E’ una cosa estremamente complessa”.
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