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           Mulholland Drive 
           
           
           
          Umberto Curi 
           
           
           
          In un famoso saggio, originariamente pubblicato nel 1919, Sigmund
          Freud fornisce una definizione di un concetto centrale nella
          psicoanalisi, al quale si era già cursoriamente riferito alcuni anni
          prima, nel contesto di Totem e Tabù (1912-1913). Si tratta del
          concetto di “perturbante” [das Unheimliche]. “Non c’è
          dubbio - scrive Freud - che esso appartiene alla sfera dello
          spaventoso, di ciò che ingenera angoscia e orrore, ed è altrettanto
          certo che questo termine non viene sempre usato in un senso
          strettamente definibile, tanto che quasi sempre coincide con ciò che
          è genericamente angoscioso. E' lecito tuttavia aspettarsi che esista
          un nucleo particolare e tale da legittimare l'impiego di una
          particolare terminologia concettuale”. 
           
          Con l’intento di conoscere in che cosa consista questo nucleo comune
          che consente appunto di sceverare, nell’ambito di ciò che è
          genericamente angoscioso, qualcosa a cui si addica specificamente la
          nozione di “perturbante”, anziché addentrarsi in argomentazioni
          di carattere tecnico, Freud preferisce riferirsi ad un “caso”
          letterario, considerato un “esempio calzante” di ciò che debba
          intendersi per das Unheimliche. 
        
            
        
          Come è noto, il testo sul quale
          si applica l’analisi freudiana è uno dei Racconti fantastici
          di E.T.A. Hoffmann, intitolato L’uomo della sabbia, a
          proposito del quale già lo studioso E. Jentsch aveva formulato la
          categoria di perturbante. Mentre tuttavia quest’ultimo riteneva che
          l’effetto perturbante dipendesse dal dubbio che un essere
          apparentemente animato fosse vivo davvero, ovvero, al contrario, che
          un oggetto privo di vita non fosse per caso animato, il fondatore
          della psicoanalisi avanza una spiegazione diversa e più pregnante.
          Per Unheimliche dobbiamo intendere “quella sorta di
          spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che
          ci è familiare”. 
           
          In altre parole, perché si possa parlare di perturbante non basta che
          ci si trovi in presenza di qualcosa che ci appaia ignoto, e dunque non
          familiare; occorre anche che questo “non noto” venga da noi
          percepito come appartenente ad un ambito che invece conosciamo
          benissimo, e che pertanto ci è del tutto familiare. Ciò significa,
          insomma, che nel termine Unheimliche convergono due significati
          antitetici, che tuttavia convivono e si fondono in maniera non
          contraddittoria: perturbante è ciò che, appartenendo alla sfera di
          ciò che è familiare, ci si presenta come massimamente sconosciuto, e
          quindi non familiare. Si tratta dunque di un termine che “sviluppa
          il suo significato in senso ambivalente, fino a coincidere col suo
          contrario”. 
           
          In questa più recente opera di David Lynch sono al lavoro entrambe le
          accezioni di perturbante alle quali si è fin qui accennato. Da un
          lato, infatti, ritroviamo qualcosa che richiama la definizione fornita
          da Jentsch in rapporto all’Uomo della sabbia, vale a
          dire quella condizione di incertezza intellettuale, relativa al fatto
          che una determinata figura sia una persona in carne ed ossa, o sia
          invece “una figura di cera, un pupazzo o un automa”. Dall’altra
          parte, e in maniera ancora più stringente, l’inquietudine suscitata
          dal film nel suo insieme, e da alcuni passaggi in maniera particolare,
          dipende proprio da quel misto di orrore e di angoscia che scaturisce
          dalla scoperta di aspetti totalmente sconosciuti ed estranei in
          persone, ambienti o situazioni che ci apparivano, viceversa, del tutto
          familiari. 
           
          Di conseguenza, l’effetto perturbante non è perseguito, e
          raggiunto, attraverso l’esibizione di dettagli raccapriccianti, ma
          piuttosto, in maniera molto più rigorosa, oltre che incomparabilmente
          più efficace, facendo leva su ciò che è in grado di suscitare quell’ambivalenza
          di emozioni e stati d’animo connessi col concetto di Unheimliche.
          Fin dall’inizio, infatti, il film assume la forma di un processo di
          rivelazione dell’invisibile e del nascosto, non già nel senso di
          una compiuta manifestazione di quanto era celato ma, all’opposto,
          nel senso di un costante avvicendamento fra manifesto e occulto, senza
          che lo spettatore sia mai posto nella condizione di stabilire con
          sicurezza fino che punto ciò che “appare” possa essere
          considerato “reale”, né se lo “svelamento” sia stato
          definitivamente compiuto, ovvero se il contenuto di quanto è emerso
          non sia destinato a rovesciarsi ulteriormente, in una sorta di
          interminabile fuga degli specchi. 
        
            
        
          Il risultato di questo impianto
          narrativo è che mai, in nessuna delle diverse fasi in cui si sviluppa
          la vicenda, si può essere sicuri che ciò che crediamo di conoscere
          bene e che ci è dunque familiare, a cominciare dall’identità di un
          personaggio, non si mostri invece come nuovo e sconosciuto, e dunque
          del tutto non familiare. Né che gli aspetti principali della “storia”,
          la consecuzione degli eventi, il ruolo dei diversi personaggi,
          corrispondano a ciò che riteniamo di aver capito, e non siano invece
          destinati a suscitare in noi angoscia e sgomento, manifestandosi
          diversi o opposti, rispetto a quanto avevamo creduto. 
           
          Da questo punto di vista, nella ricerca di un perturbante del tutto
          sganciato da ciò che è “visibile”, e riferito piuttosto a ciò
          che richiama strati profondi della psiche, nella comprensione della
          netta distinzione - e, al limite, dell’opposizione - sussistente tra
          “spaventoso” e “raccapricciante”, si può dire che Lynch
          rimonta anche oltre lo stesso Freud, riprendendo alcuni fulminanti
          passaggi della Poetica di Aristotele. 
           
          Assodato che il fine, e il “piacere”, specifico della tragedia è
          l’induzione di “pietà” [eleos] e terrore [phobos],
          il filosofo sottolinea che è necessario non confondere il phoberon,
          ciò che è in grado di ingenerare terrore, dal miaron, vale a
          dire da ciò che è semplicemente “ripugnante”, o più ancora dal teratodes,
          e cioè dal “mostruoso”. Mentre, infatti, nel primo caso l’“effetto”
          scaturisce dal modo in cui è costruita la “composizione dei fatti”
          che costituiscono la vicenda, nel secondo caso esso viene fatto
          dipendere da qualcosa che è estrinseco alla struttura narrativa, ed
          è invece legato esclusivamente ad artifici puramente spettacolari, a
          stratagemmi relativi alla “visione” [opsis]. Il phoberon
          attiene dunque alla specifico stato d’animo suscitato dalla
          successione degli avvenimenti costituenti il racconto, e non dall’esibizione
          di particolari che provochino disgusto o raccapriccio. 
           
          Esattamente come accade soprattutto con il cinema di Alfred Hitchcock,
          nelle cui opere è pressochè introvabile ogni indugio su dettagli
          teratologici, anche in Mulholland Drive Linch non mostra,
          ma al contrario nasconde; non dice, ma allude;
          non spiega, ma all’opposto propone enigmi; soprattutto,
          non fornisce risposte agli interrogativi dello spettatore, di
          fronte al quale, invece, riattiva incessantemente problemi. Ne
          scaturisce un film che può essere descritto davvero come quella
          continua alternanza tra familiare e non familiare, della
          quale parla Freud con riferimento al perturbante. Un film nel quale
          non ci sentiamo mai definitivamente “a casa”, ma sempre insieme
          “a casa”[heimisch] e “non a casa” [unheimische],
          nel quale riaffiora costantemente lo spaesamento di scoprire che ciò
          che credevamo essere del tutto chiaro e conosciuto, si rivela invece
          per essere oscuro e ignoto, nel quale nessuna conclusione “logica”
          appare definitiva, nessun punto di approdo risulta essere davvero
          conclusivo, in un riaprirsi interminabile della vicenda, e del pathos
          che l’accompagna. 
           
          Questo specifico risultato, qui raggiunto da Lynch con una maturità
          espressiva molto più compiuta e convincente delle prove offerte nei
          film precedenti, viene conseguito anche attraverso una innovazione
          fondamentale (o, se non altro, una specificazione più puntuale),
          rispetto al “modello” freudiano o a quello aristotelico. Difatti,
          l’effetto perturbante è perseguito soprattutto mediante una sistematica
          manomissione del tempo, la rottura di ogni “naturale”
          successione crono-logica, la deliberata inversione fra le “dimensioni”
          abituali del tempo. Valorizzando al massimo, e con una padronanza
          davvero magistrale, la caratteristica principale del cinema quale
          mezzo espressivo - vale a dire quella di essere essenzialmente un’operazione
          sul tempo (come ha dimostrato Gilles Deleuze) - Lynch abolisce ogni
          presunta linearità nello svolgimento della vicenda, conferendo
          deliberatamente alla storia descritta un andamento circolare, in forza
          del quale risulta impossibile stabilire con certezza quale sia l’“inizio”
          e quale la “fine”. 
           
          L’alterazione nella percezione della direzionalità del tempo,
          riscontrata nella maggior parte delle patologie psichiche, viene qui a
          funzionare non soltanto come fattore in sé di turbamento, ma
          interferisce con le modalità specifiche di costruzione del racconto,
          potenziandone l’effetto perturbante. Non soltanto lo spettatore non
          è in grado di distinguere fra ambiti di realtà diversi e
          sovrapposti, fra dimensione onirica e vita “reale”, né fra queste
          e il piano della “rappresentazione” cinematografica. Ma egli non
          si trova neppure nella condizione di stabilire punti di riferimento
          definiti per quanto riguarda la successione cronologica dei fatti,
          visto che ciò che, nel film, si presenta come “successivo”, si
          rivela poi essere “anteriore”, e viceversa. Anche il tempo, in
          questo modo, finisce per essere coinvolto nel più generale processo
          di costruzione del perturbante, in quanto anch’esso si presenta
          insieme come emergenza del massimo della “non familiarità”, nel
          contesto di ciò che è invece abitualmente vissuto come massimamente
          familiare, vale a dire lo sviluppo degli avvenimenti dal futuro al
          passato attraverso il presente. 
        
            
        
          Pur senza impossibili pretese di
          esaustività, in presenza di un’opera di complessità e impegno
          davvero straordinari, almeno altri due aspetti, oltre a quelli sui
          quali ci si è fin qui intrattenuti, e in connessione con essi, vanno
          se non altro sommariamente accennati. Anzitutto, in Mulholland
          Drive si ripropone uno degli elementi più caratteristici e
          inconfondibili del cinema di Linch, tale da potere essere considerato
          da molti punti di vista come una sorta di principio di individuazione,
          vale a dire il ricorso agli enigmi. Con una fondamentale differenza
          rispetto ad opere precedenti, come ad esempio Wild at Heart o
          più ancora alla serie televisiva intitolata Twin Peaks. 
           
          A differenza di quanto accadeva nelle produzioni ora nominate, qui non
          si tratta di un esercizio “enigmistico” in qualche modo fine a se
          stesso, ma di qualcosa che è invece pienamente omogeneo alle
          modalità di costruzione della vicenda descritta. In questo film più
          recente, infatti, da un lato Linch recupera il “gioco” degli
          enigmi nel quadro più generale dei fattori capaci di suscitare
          effetti perturbanti, e dall’altro rilancia la valenza originaria
          dell’enigma, come topos tradizionalmente ricorrente in
          numerosi testi della cultura greca arcaica e classica. 
           
          Per quanto riguarda il primo aspetto, la disseminazione di eventi,
          situazioni e personaggi provvisti di una forte carica enigmatica
          contribuisce a rovesciare sistematicamente il rapporto familiare-non
          familiare, presentando come ignoto ciò che sembrava essere già
          conosciuto e, viceversa, mostrando che quanto si supponeva essere
          remoto o incomprensibile, era in realtà “domestico”, a portata di
          mano. Tutto ciò concorre a destabilizzare nel suo insieme l’ambito
          del reale controllabile mediante lo strumento della conoscenza,
          introducendo una fondamentale incertezza circa ciò che effettivamente
          “sappiamo” e ciò che invece sfugge al controllo della nostra
          conoscenza, e che quindi resta avvolto in un velo di indecifrabilità. 
           
          Da questo punto di vista, il ricorso agli enigmi, come “segnali”
          di altrettanti punti di svolta nella struttura narrativa del film,
          viene a svolgere una funzione analoga a quella con la quale essi
          compaiono all’interno della tragedia greca. Fra tutti, l’esempio
          più significativo è sicuramente l’ “Edipo re”, dove all’inizio
          il protagonista è esplicitamente introdotto come “semplicemente un
          uomo”, caratterizzato esclusivamente dalla capacità di ainigmata
          dieipein, di risolvere enigmi. Ebbene, come accade nel testo
          sofocleo, anche nel film di Linch la risoluzione o meno di un enigma
          si costituisce come vero e proprio turning point, dal quale
          dipende anche la sorte specifica del protagonista. Così è nella
          tragedia, dove l’incapacità di risolvere l’enigma costituito da
          se stesso, la propria vera identità e i propri natali, condanna Edipo
          al luttuoso destino che lo attende. E così è anche per Mulholland
          Drive, dove il successo davanti all’enigma è all’origine dei
          “mutamenti di fortuna” dei personaggi che agiscono nell’opera. 
           
          Ma le osservazioni fin qui formulate non solo resterebbero incomplete,
          ma rischierebbero di risultare perfino fuorvianti, ove non fossero
          ricondotte ad un aspetto di carattere generale, riguardante l’impostazione
          di fondo ravvisabile nel film. Come è possibile verificare sulla base
          di numerosi elementi diversi (il frequente succedersi di inquadrature
          nelle quali si staglia la scritta “Hollywood”; la professione -
          attrice - di una delle due giovani protagoniste, e della zia di lei,
          oltre che del regista vittima dell’adulterio della moglie; la grande
          abbondanza di citazioni esplicite o indirette, per immagini o mediante
          riferimenti nei dialoghi , a opere che appartengono alla storia del
          cinema), la vicenda descritta nel film è ambientata nel principale e
          più noto luogo di produzione cinematografica del mondo. Detto in
          altri termini, la “storia” a cui assistiamo, gli avvenimenti e i
          personaggi che in essa compaiono, la sua intensa carica perturbante,
          la sua intrinseca enigmaticità, si risolvono integralmente nella
          dimensione del cinema, sono modalità che esaltano una sorta di
          autopoiesi del cinema in quanto tale. 
           
          Tutto ciò non implica affatto - si badi bene - un “depotenziamento”
          nello statuto di realtà attribuito alla vicenda descritta, né ancor
          meno l’insinuazione della possibile illusorietà degli avvenimenti a
          cui assistiamo. Sottolineando che quella “storia” è cinema,
          Linch non intende affatto istituire una contrapposizione fra due “ordini”
          di realtà gerarchicamente distinti, intesi l’uno come mera “copia”
          o “riflesso” dell’altro. Al contrario, in coerenza con l’ispirazione
          che attraversa l’opera nel suo complesso, si tratta piuttosto di
          revocare ogni apodittica distinzione fra “realtà” e “rappresentazione”,
          lasciando sussistere deliberatamente una forte ambiguità, e dunque
          rendendo impossibile l’individuazione di un livello di riferimento
          privilegiato, che possa funzionare come “salda roccia” realistica,
          in contrasto con la quale venga definito ciò che è “cinema”.
          Così come è indeterminata la successione cronologica degli eventi,
          incerta l’identità delle due giovani donne, enigmatico il “senso”
          generale della storia, allo stesso modo non è definibile una volta
          per tutte il confine fra rappresentazione e realtà. Anzi, e più
          rigorosamente, sempre la realtà è anche rappresentazione. 
           
          Nella dissoluzione di ogni dualismo precostituito, nel dileguare di
          ogni presunta certezza, di fronte ad un universo in perpetua
          espansione di significati, in presenza di una ambiguità strutturale,
          irriducibile a qualsivoglia tentativo di reductio ad unum, l’unico
          atteggiamento possibile, l’unica risposta consentita, si ritrovano
          nell’inquietante sequenza conclusiva. All’interno di un teatro, di
          un luogo classico della rappresentazione, mentre contemporaneamente si
          muovono e parlano personaggi diversi, ciascuno autonomamente rispetto
          all’altro, senza che in questo brulicare indistinto di parole e
          comportamenti sia possibile cogliere una chiara trama razionale, dall’oscurità
          emerge una figura, situata in alto, a picco sul palcoscenico, nella
          posizione dalla quale, secondo le consuetudini della drammaturgia,
          proveniva il deus ex machina. Ciò che egli dice, suggella la
          vicenda. Non si tratta di un discorso, né tanto meno di una
          spiegazione, che possa aiutarci a rispondere agli interrogativi
          suscitati dal film. E tuttavia quell’unica parola che egli pronuncia
          - “Silenzio!” - ci offre una indicazione che ancora una volta
          trova un suo possibile aggancio nella ricerca filosofica. 
           
          E’ l’ultima proposizione del “Tractatus logico-philosophicus”
          di Ludwig Wittgenstein, una fra le opere più importanti e in ogni
          senso decisive della filosofia del Novecento, ma insieme anche uno dei
          testi più ardui e perfino enigmatici. Quel libro si chiude in maniera
          pressochè identica al modo col quale Lynch termina il film. “Intorno
          a ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. 
           
           
           
          I link: 
           
          Sito ufficiale del film 
           
          Sito
          ufficiale del film in italiano 
          Trama, cast, foto e musica del film 
           
          Tutto
          quello che avete avuto paura di chiedere sul film di Lynch, da
          "Salon" (ingl) 
          Ideale per chi e' uscito dal cinema con l'impressione di non
          averci capito nulla (ma anche per chi e' sicuro della propria
          interpretazione e vuol confrontarla con quella del critico di "Salon").
          Ma sara' poi cosi' importante interpretare tutto? 
           
          Le opinioni del
          pubblico (italiano), da "Filmup.com" 
           
          La
          scheda e la recensione di "Supereva" (italiano) 
          Efficace la sintesi: "una jam session notturna
          sull'illusione-dissoluzione del successo tra spettri vestiti di pelle
          nera, autoscontri frontali ed effetti terrorizzanti" 
           
           
            
         Vi
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