Da zero a dieci
Paola Casella
Da zero a dieci, scritto e diretto da Luciano Ligabue, con Massimo
Bellinzoni , Pierfrancesco Favino, Elisabetta Cavallotti, Barbara
Lerici, Stefania Rivi, Stefano Pesce, Fabrizia Sacchi, Stefano Venturi
E' impossibile resistere alla tentazione di scrivere una recensione di
Da zero a dieci senza dare al film una serie di voti, secondo
l'abitudine (o meglio, la filosofia) dell'io narrante del film,
Giovanni detto Giove (Stefano Pesce), il fratello minore di quel
Freccia (Stefano Accorsi) che era stato protagonista del film
d'esordio di Luciano Ligabue, Radio freccia. E infatti, a fondo
recensione, troverete una serie di voti, snocciolati come una lista di
top five alla Nick Hornby (al cui Alta fedeltà Ligabue deve più di
un'idea).

Ma innanzitutto una premessa: a me Luciano Ligabue piace, come
cantantautore e come scrittore, e mi era piaciuto anche come regista
in Radio freccia (leggi la recensione di Caffè Europa, scritta
all'epoca dell'uscita del film d'esordio del rocker di Correggio). E
proprio perché mi piace, anzi, perché gli voglio bene, come molti
suoi fan, devo tirargli le orecchie: Da zero a dieci, checché ne
dicano le recensioni di gran parte dei media italiani, è, per molti
versi, semplicemente imbarazzante.
Lo è per chi fa cinema per mestiere: se in Radio freccia l'artigianalità
del Liga si traducevano in originalità e freschezza, qui mostrano
tutta l'inesperienza di un regista che, alla sua seconda prova,
dovrebbe aver imparato qualcosa in più. E magari aver studiato
qualche buona sceneggiatura (o anche qualche grande romanzo), per
capire che le svolte narrative non sono semplicemente pretesti per
cambiare scena (vedi l'excursus veneziano dei protagonisti), che i
dialoghi non possono sostituirsi all'azione (e viceversa).
Lo so, sono severissima. Ma certe battute retoriche e banali non fanno
onore a un autore che, nelle sue "canzonette", è stato
capace di inserire frasi fulminanti (pur nella loro semplice
colloquialità) come "chi si accontenta gode... così
così". E un ritratto della sua generazione (che è anche la mia)
così falso e così già visto non fa onore alla sua raggiunta
maturità, anche artistica, in altri settori.

I quattro vitelloni protagonisti di Da zero a dieci - il già citato
Giove, il medico gay Biccio (Pier Francesco Favino), il morituro
Libero (Massimo Bellinzoni) e il libertino Baygon (Stefano Venturi) -
sarebbero forse credibili come universitari fuoricorso, ma non come
tardo trentenni. Nessuno dei loro problemi mi appare realistico, men
che meno generazionale. Come già succedeva in L'ultimo bacio (dove
comunque i protagonisti erano più giovani), nessuno ha bisgno di un
lavoro, della casa, della precarietà e assenza di prospettive del
mondo contemporaneo, al di là della sindrome di Peter Pan dei maschi
italiani (ma sarà poi vera, e non già un trito stereotipo?).
Da donna, i ritratti femminili mi sembrano anche più improbabili, al
limite dell'offensivo, soprattutto quello della ragazza
"normale" del gruppo: la donna sposata (ma perché, visto
che non vede l'ora di tradire il marito, con una leggerezza che
rasenta l'assenza di senno) interpretata da Fabrizia Sacchi, priva di
qualsiasi personalità e fisicamente adolescenziale. Incredibile anche
il personaggio della pur brava Elisabetta Cavallotti, anche lei
atteggiata a eterna teenager nonostante un divorzio, un tumore maligno
e una figlia (lei davvero) adolescente.
Addirittura involontariamente comico il personaggio della moglie di
Giove, vista in flashback come una sorta di stellina del porno con
labbra siliconate e sguardo vacuo (ma infinitamente disponibile), in
attesa di essere in attesa (ma non ha voce in capitolo al riguardo?) e
priva di alcuna apparente aspirazione, se non quella di adorare il
puerile e narcisistico Giove.
Imbarazzanti certi dialoghi da diario delle medie, certe scene
melodrammatiche (il morituro che appiccica alla televisione le
fototessera), la ripetitività di alcune inquadrature (i due amici di
Libero aggrappati alla grata, poco prima della fine), l'esilità della
storia, spacciata come "informalità della comunicazione".

Certo, qualche pregio c'è: il coraggio di provare varie tecniche e
generi (anche se talvolta a sproposito); l'immediatezza della musica;
la bravura di alcuni attori, soprattutto Pier Francesco Favino, che in
tutti i suoi film riesce a trasmettere un'umanità ricca e
sfaccettata, e Barbara Lerici, che riesce a infondere sincerità a un
ruolo sotto-scritto e sotto-disegnato, sostanzialmente ridotto a una
scena "madre", contrariamente al suo corrispettivo maschile.
Con il secondo film, Ligabue ha commesso lo stesso errore di certi
comici televisivi, che ritengono la loro comunicativa traducibile in
cinema senza il sostegno di una sceneggiatura e di una grammatica
filmica forte, col risultato di allineare sul grande schermo una serie
di sketch più o meno legati fra di loro, e incorniciati da
inquadrature scolastiche.
E adesso i voti:
7 per la buona volontà
4 per la pigrizia mentale
8 per il coraggio di osare
4 per la mancanza di coraggio nel non farsi aiutare da qualche
professionista
5 per la banalità dei dialoghi
7 per la scelta degli attori
3 per la puerilità di certi cambi di scena
7 per le musiche
2 per le motivazioni dei personaggi
8 per la coreografia della scena di musical e della gay parade
4 per la trama tirata per i capelli
10 per la simpatia, perché nonostante la severità di questa pagella,
credo ancora nelle possibilità di Ligabue, e gli auguro un grande
rientro col prossimo film
Il link:
Immagini, trailer e il diario di
Ligabue, regista per la seconda volta
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