Tutti pazzi per
Amélie?
Paola Casella
Il favoloso mondo di Amèlie, diretto da Jean-Pierre Jeunet, con
Audrey Tautou e Mathieu Kassowitz
Per capire l'impatto che Il favoloso mondo di Amèlie ha sul
pubblico è necessario ricordarsi che il regista del film
pluripremiato in Francia e Stati Uniti, Jean-Pierre Jeunet, ha
firmato anche (insieme a Marc Caro) quel Delicatessen che
descriveva un'umanità grottesca e depravata, dove l'uomo era
letteralmente homini lupus, poiché i protagonisti della
storia, un gruppo di condomini e il loro padrone di casa - un
macellaio alla Sweeney Todd - divoravano i frequentatori
occasionali dell'edificio.

Delicatessen era quasi inguardabile per la graficità di alcune
scene di "cucina" e il disagio psicologico generato dalla
premessa del cannibalismo come pratica quotidiana. Il favoloso
mondo di Amèlie, in cui il termine "favoloso" non
significa "bellissimo" ma solo "immaginario",
cioé creato dalla mente della protagonista (il che spiega il volume
altissimo dei suoni che Amèlie, più che sentire, percepisce in modo
esagerato perché esageratamente soggettivo) è invece compulsivamente
guardabile, non tanto per il suo indiscutibile appeal estetico
e per le sue infinite "novità"cinematografiche, quanto
perché la sua patina zuccherosa (una vera e propria glassa visiva,
che ricopre il tipo di film definito dagli americani eye candy)
cela una realtà orribile e degradata, popolata da personaggi
altrettanto grotteschi e homini lupus dei condomini del palazzo
degli orrori, oltre che da nani di gesso, maiali parlanti e quadri in
movimento: tutte immagini apparentemente gradevoli, in realtà
inquietanti, perché provenienti dall'immaginario onirico o surreale
(e i quadri che parlano ricordano più la seduta spiritica di Gian
Burrasca che Harry Potter).

Il fascino di Amèlie sta proprio in questo connubio di estremo
controllo estetico e formale e di sotterranea e scomposta angoscia. Un
mix tipico di certe favole ("il fantastico mondo"),
soprattutto quelle nordiche: in questo senso il regista di Amèlie,
Jean-Pierre Jeunet, mostra una sensibilità più fiamminga, o
scandinava, che francese - il suo film ricorda certi quadri di
Van Dyck, ma anche un'altra recente fiaba cinematografica ambientata
in Francia - Chocolat, che era diretta da uno svedese, Lasse
Hallstrom.
La Francia, sia in Amèlie che in Chocolat, è da
cartolina, anzi, da Disneyland, e la Parigi di Amèlie non è
più realistica o meno stereotipata del diaroma di cartapesta che
appare in Moulin Rouge, altro film recente girato da un
non-francese (l'australiano Baz Luhrmann) che riproduce un immaginario
di sogni (e di incubi) più che una realtà geografica. Tanto Jeunet
quanto Hallstrom, e Luhrmann, dopo gli esordi in patria, sono sbarcati
a Hollywood (Jeunet è stato il regista del quarto Alien,
quello che resuscitava Ripley), dunque sanno bene ciò che piace al
pubblico americano, e che poi vende nel resto del mondo.
Ma in Amèlie non c'è solo astuzia commerciale. Dietro alla
confezione patinata, dietro alla finzione scenica, finta fino alla
nausea, melensa fino al mal di denti, c'è un dolore vero, nitido e
ineluttabile - almeno finché Amèlie non raggiunge la sua catarsi -
come appare ai bambini poco (o male) amati. Non mi ha sorpreso, anche
se mi ha un po' spaventato, scoprire che, prima di Amèlie,
Jeunet aveva diretto un film dal titolo La città dei bambini
perduti, la cui angosciosissima trama riguardava il piano
criminale di uno scienziato del futuro che rapisce i bambini per
rubarne i sogni (di nuovo l'elemento onirico).

Qualcuno ha osservato che Amèlie ricorda il cinema di Jean
Renoir. Ma se dobbiamo cercare paragoni nel passato della
cinematografia francese, preferisco tornare con l'immaginazione a Jean
Cocteu (il cui Orphée è citato in La città dei bambini
perduti), ai suoi parent e i suoi enfant terrible, e
alla sua rappresentazione cinematografica di una delle più celebri
fiabe per bambini (?), La Bella e la Bestia, in chiave onirica
spinta.
Vale la pena ricordare che La città dei bambini perduti citava
anche Freaks di Tod Browning (vedi i nani da giardino di Amèlie)
e La morte corre sul fiume (dove Robert Mitchum, con love e
hate tatuato sulle nocche, terrorizzava una coppia di bambini)
e veniva a sua volta citato in Matrix e, dallo stesso Jeunet,
sia in Alien: Resurrection che in Amèlie.
Ciò che a gran parte del pubblico che ha applaudito Il favoloso
mondo di Amèlie è apparso come amabilità e dolcezza, e a
qualcuno come buonismo, a me pare disperazione, una disperazione così
profonda e atavica da necessitare un continuo abbellimento. La ferocia
dell'animo umano trova nella gentilezza di Amèlie il suo
contrappasso, e nella sua paura di vivere la sua conferma.
Geniale, dunque, l'aver reso solo una scena del film veramente
realistica, in quanto vengono concesse ad Amèlie reazioni
autenticamente umane: quella dopo la prima notte d'amore della ragazza
con Nino (che dorme, perché per lui, personaggio nato
dall'immaginazione di Amèlie, non c'è "risveglio"), quando
l'espressione del viso della ragazza diventa finalmente un
caleidoscopio di emozioni, invece che una maschera di fissa
"adorabilità", e lo specchio di una resa, invece che il
bagliore gelido di un'armatura, o il riflesso opaco di una glassa da
torta.
Il link:
Il link al sito ufficiale del film "Il
meraviglioso mondo di Amelie" (in francese e inglese)
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