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Il festival del cinema latino americano



Alessandro Rocco



Unico nel suo genere in Italia, anche quest’anno il Festival di Trieste ha offerto agli appassionati la possibilità di apprezzare un vasto campione della produzione cinematografica Latino Americana, il cui livello qualitativo non è ormai più in discussione, sebbene produttori e distributori italiani tardino ad accorgersene. Video documentari e di finzione, cortometraggi e soprattutto lungometraggi che meriterebbero, per il livello formale e per le tematiche affrontate, di essere conosciuti da un più vasto pubblico, il quale, a sua volta, meriterebbe senz’altro maggiori occasioni e possibilità di scelta nella fruizione audiovisiva. Non ci si stancherà di ripeterlo.

Oltre alla proposta di circa venti lungometraggi da quasi tutti i paesi del continente, e un’ampia rassegna di cortometraggi brasiliani, argentini e messicani, il XVI festival ha proposto una vera e propria chicca cinematografica e musicale: un film di 35 minuti che raccoglie dieci videoclip ante litteram degli anni ‘20, in cui il grande Carlos Gardel, leggenda del Tango argentino, canta i suoi più celebri successi, conservatisi e giunti fino a noi grazie all’amore e alla cura di un collezionista italo-argentino.

Il cinema argentino è stato forse quello più rappresentato in quest’edizione, e sicuramente il più premiato. Il premio al miglior film è andato infatti alla pellicola del regista Javier Torre, Un amor de Borges (Argentina, 2000), mentre Nueve Reinas di Fabián Belinsky (Argentina, 2000) ha vinto il premio alla miglior sceneggiatura.

Basato sul libro biografico di Estela Canto, Borges a contraluz, il “Miglior film” del festival racconta l’amore tra la scrittrice e Jorge Luis Borges, negli anni del primo governo del generale Perón, a cavallo tra gli anni ’40 e ’50. Con una narrazione sobria ed elegante, ci presenta la parabola del rapporto tra i due protagonisti, dal primo incontro all’abbandono finale, facendo emergere poco a poco le problematiche e contraddizioni dell’uomo Borges.

Il fascino della pellicola risiede infatti proprio nella centralità del personaggio dello scrittore, sia perché ne analizza le difficoltà interiori e relazionali, sia perché in questo modo offre un’ampia rassegna del suo pensiero, attraverso i dialoghi che riprendono ed espongono il suo modo di sentire il mondo. I discorsi di Borges sulle traduzioni, sulla famiglia, la concezione che aveva sulla sua opera, il processo creativo di un celebre racconto, El Aleph, le sue riflessioni sull’amore e sulla passione, sul dolore, il disinteresse per il denaro, sono i temi che vengono toccati nei dialoghi, e la finzione cinematografica, nella sua modalità di ricostruzione storica e biografica, offre l’esperienza di vedere e ascoltare Borges nell’intimità più profonda del suo sentire, nella vita quotidiana.

Da questo punto di vista è un appassionato omaggio allo scrittore più universalmente celebre della letteratura argentina. Ma al contempo, il film ne analizza debolezze e contraddizioni. Incapace di vivere e sentire l’amore come esperienza fisica e sensuale, succube della figura della madre come un eterno bambino, rinchiuso nel suo mondo letterario e totalmente inadatto alla vita pratica, vittima di una timidezza disarmante, l’uomo Borges pagava così il prezzo di una sensibilità intellettuale e di una genialità che in definitiva lo allontanava dal mondo.

Non a caso molte delle sue riflessioni vertevano proprio sul tema dell’incomunicabilità, e non a caso, l’Aleph, quella “sfera di due o tre centimetri di diametro in cui sono presenti tutti i luoghi del mondo”, era l’espressione letteraria, la trasfigurazione fantastica del suo amore assoluto per Estela, la donna che rinchiude in sé l’universo, e che per ciò stesso, è anche praticamente e fisicamente inesperibile, se non nella forma della pura contemplazione. Per questo Estela decide alla fine di lasciarlo, perché come dice “una donna ha anche bisogno di sentire amato il suo corpo”, ma non prima di avergli almeno dato la forza, con la sua presenza, di affrontare l’arduo compito di parlare al pubblico in una conferenza.

Il premio alla sceneggiatura per Nueve Reinas, ricorda il percorso di produzione del film di Belinsky, nato proprio da un premio alla miglior sceneggiatura in un concorso bandito dalla casa di produzione Patagonik Film Group in Argentina, nel 1998.
La storia costruisce uno strabiliante intrigo giocato sul tema del trucco e dell’inganno. Due incalliti truffatori si incontrano a Buenos Aires, si fanno soci per un giorno, e avviano una girandola di raggiri ed imbrogli sempre più sofisticati. Ad un certo punto si presenta l’occasione della vita, la possibilità di vendere ad un miliardario spagnolo una contraffazione di una serie di francobolli rarissimi, le Nueve Reinas (Nove Regine) della Repubblica di Weimer. Attraverso una serie di peripezie ai limiti dell’incredibile e ostacoli superati con superba genialità l’affare va in porto, ma al più giovane della coppia sorge il dubbio sull’irrealtà di tutto quanto è accaduto…

Sembra d’obbligo il riferimento a La casa dei giochi di David Mamet, e i richiami possono essere molti per un film che si basa anche su regole di genere e su una tematica già quasi classica: Il bidone, di Fellini, La stangata di George Roy Hill, oppure il più recente Pacco doppiopacco e contropaccotto di Nanni Loy. A proposito di quest’ultimo c’è una coincidenza suggestiva in Nueve Reinas, nascosta nel reiterato riferimento alla canzone di Rita Pavone Il ballo del mattone, che funge anche da sigla di chiusura. “Il mattone” è infatti la popolare truffa napoletana, descritta nel film di Loy, che consiste nel sostituire all’ultimo momento la merce venduta al malcapitato cliente con un mattone, appunto. Un ponte tra Napoli e Buenos Aires, una parentela tra micro-mondi della truffa che il titolo della canzone evoca segretamente.

Infine, a concludere con i riferimenti, per la perizia narrativa mostrata dall’esordiente Belinsky, che si è fatto le ossa in più di un decennio di lavoro nella pubblicità, la critica argentina lo ha paragonato all’Aristarain degli anni ’70, maestro nell’arte del racconto filmico. Nueve Reinas riprende il gioco di specchi del teatro nel teatro, della messa in scena interna alla diegesi, con il suo caratteristico e affascinante effetto di confusione tra realtà e finzione, e lo fa in un modo talmente efficace (corroborato anche dall’ambientazione in un albergo extra-lusso della seconda parte del film), che il dubbio di irrealtà suggerito da uno dei personaggi trasporta lo spettatore in una dimensione quasi metafisica, che ci ricorda la profondità del gioco nel gioco (di virtuale nel virtuale) di un film per altro così diverso come eXistenz di David Cronemberg.

Parallelamente, lo sguardo sulla Buenos Aires contemporanea mantiene un tono realistico che fa emergere, pur nell’artificiosità ed eccezionalità della storia, la vita quotidiana del sotto mondo di truffatori e picari moderni che la popolano. Sono figure di un certo fascino per lo spettatore, perché la loro attività si basa sull’ingegno e non sulla violenza, il repertorio dei trucchi costituisce una vera e propria tradizione, e inoltre perché hanno anche un codice etico (infatti il truffatore truffato è anche quello che trasgredisce ogni regola morale). Tuttavia, la loro massiccia presenza nella realtà urbana può anche fungere da indicatore del livello di crisi economica in cui versa attualmente il paese.

Per il premio speciale della giuria ci spostiamo in Uruguay, con En la puta vida, della giovane regista Beatriz Flores Silva. Il film, basato su fatti realmente accaduti, tratta il problema della prostituzione in Uruguay e soprattutto la condizione delle prostitute portate in Europa e tenute in ostaggio dalle organizzazioni criminali. Il tono iniziale del film è piuttosto quello di una commedia, e il personaggio principale, Elisa, esercita la prostituzione senza alcun tipo di costrizione o problematica morale, come dice “yo no soy puta, trabajo de puta” (“non sono una puttana, lavoro come puttana”). Il suo sogno è quello di mettere insieme il capitale sufficiente ad aprire un negozio di parrucchiera insieme all’amica Lulú, e la prostituzione sembra il modo più rapido ed efficace. Ma nell’esercizio del suo lavoro Elisa conosce “El cara”, un uomo ricco e affascinante che le parla dell’Europa, dove le ragazze possono guadagnare fino a tremila dollari al giorno.

Elisa non sa resistere, ed innamorata dell’uomo, gli chiede di portarla a Barcellona. Ma qui, dall’altro lato dell’oceano, scopre che la realtà è diversa dalle sue fantasie. Le cose si complicano anche per “El cara” che, in seguito ad una rissa in cui uccide un travestito brasiliano, è arrestato dalla polizia. Alla sua uscita di galera, grazie ad un accordo di Elisa con la polizia cui offre informazioni sul giro dei brasiliani (rivali di “El cara”), l’uomo decide di far capire alla ragazza come stanno veramente le cose. Per toglierle dalla testa l’assurda idea di sposarsi con lui, “El cara” picchia brutalmente la donna, in una scena che segna un radicale capovolgimento del tono narrativo, facendole anche capire che non le spetta un soldo di quelli da lei guadagnati e rifiutandosi di restituirle il passaporto. Elisa comprende di colpo la sua reale condizione di schiava.

Più avanti scoprirà anche che i figli, lasciati a pensione da una signora in Uruguay, sono finiti all’orfanotrofio, dato che l’uomo non ha mai spedito i soldi della retta. Per questo, e per la precedente morte dell’amica Lulú, Elisa decide di collaborare con la polizia e di incastrare “El cara” e tutti i soci dell’organizzazione, in un processo che li condanna a diversi anni di galera.

I fatti raccontati, seppure con numerose licenze, sono realmente accaduti tra Montevideo e Milano nel 1992, e sono esposti nel libro del giornalista Mario Urruzola El huevo y la serpiente. Se nel film sono stati trasferiti a Barcellona è perché nessun produttore italiano si è voluto interessare al progetto della pellicola, che in pochi mesi di proiezioni in Uruguay ha polverizzato i record di incasso nazionali, e superato anche film americani di successo.

Oltre all’importanza tematica, che denuncia una condizione troppo spesso ipocritamente ignorata e dimenticata, è da mettere in evidenza la modalità del racconto, che assume uno sguardo fortemente focalizzato sulla protagonista femminile (uno sguardo di genere, un film sulle donne girato da una donna), basandosi soprattutto sui suoi sogni, sulla sua genuinità e freschezza di carattere, capace non solo di resistere e rovesciare la drammatica situazione in cui si trova, ma anche di illuminare con la sua presenza lo squallore della realtà; di rendere piacevole, con la sua innata vitalità, una storia così sordida.

Purtroppo il lieto fine del film non corrisponde del tutto alla realtà, in quanto la vera Elisa riuscì sì a tornare a casa, grazie anche all’interessamento al suo caso da parte del giornalista e delle autorità, ma oggi la donna è desaparecida, e si ignora se si sia nascosta o se abbia subìto la rappresaglia delle organizzazioni criminali, secondo quanto ha dichiarato la regista alla proiezione del film al Festival.

Interamente in Europa si svolge la storia raccontata dal cileno Luis Vera, Bastardos en el paraíso, premio alla miglior regia. Il regista ha vissuto e lavorato a lungo in Svezia, nel suo esilio dal Cile di Pinochet, dopo avere trascorso alcuni anni in Perù e Romania. La tecnica di ripresa, messa in scena e recitazione, è molto simile al Dogma di Lars Von Trier, anche per l’uso del digitale: camera a spalla, mossa, effetto verità documentaria, dialoghi spesso concitati, situazioni collettive riprese “dal vero”. Un cinema, come afferma l’autore, che “si libera dalla spettacolarità degli effetti speciali” per proporre riflessioni ed emozioni profonde, che rielabora e aggiorna, secondo chi scrive, la poetica del realismo. Produzione (Latinordisk Films), attori, dialoghi sono per la gran parte svedesi e l’ambientazione è Stoccolma, principalmente i quartieri periferici dove risiedono gli immigrati, tra cui le “teste nere”, i sudamericani, spesso rifugiati politici. Un mondo che il regista conosce sicuramente bene.

La storia narra la parabola di Manuel, figlio di rifugiati cileni, che vive la schizofrenia di una doppia identità, costruita sull’eterna promessa del “ritorno” verso una patria che non ha mai realmente conosciuto. Al contempo, mostra l’esistenza di sottili meccanismi di esclusione nei confronti degli immigrati, che se migliorano la loro situazione materiale rispetto al paese di provenienza, vivono un’emarginazione da cittadini di seconda categoria. In questa situazione, l’unica via che Manuel riesce ad individuare per farsi rispettare nella società che lo discrimina è quella criminale, l’illusione e il miraggio di denaro e potere facile. I valori del padre, l’onestà, la dignità, la lotta, non hanno alcun senso per il giovane, in una società in cui anche i giovani svedesi vivono ormai solo per i soldi e il successo.

La narrazione si struttura in due tempi intorno ad un fatto violento tratto dalla cronaca nera del 1994: una rissa con arma da fuoco all’esterno di un locale notturno nel quale non era stato consentito l’ingresso a dei giovani immigrati. La stampa locale diede risalto alla notizia, come sintomo del “problema immigrazione”, delle difficoltà del modello scandinavo di accoglienza e benessere generalizzato, e motivo di una crescente xenofobia. Per Vera l’episodio costituisce il momento culminante del percorso di Manuel e dei suoi amici, che dalle bravate tipiche dell’adolescenza slittano progressivamente verso la delinquenza vera e propria. Al delitto segue il procedimento giudiziario con cui i giovani sono condannati a diversi anni di galera, ma che rappresenta anche l’occasione per un esplicito contro-processo alla società scandinava, rea di non avere mai offerto reali occasioni di integrazione, colpevole di un’ipocrita accoglienza parziale degli immigrati, accuse realizzate in aula dall’ormai anziano ex professore di liceo dei ragazzi.

In questo senso il film è in grado di mettere a fuoco problematiche inerenti ai due mondi messi in contatto. Se infatti in Cile è stato visto principalmente come denuncia della xenofobia europea e riflessione sulla problematica identità degli esiliati, per gli europei può essere uno specchio nel quale approfondire il tema del vuoto di valori, del preoccupante affermarsi di una cultura individualista e violentemente consumista, frutto della fine delle utopie di cambiamento. Emblematica è infatti la scelta finale di una delle protagoniste, Lena, che decide di riprendere l’eredità del vecchio professore dedicandosi ai bambini, per proporre almeno la speranza in un futuro diverso.

Concludiamo con Bicho de sete cabeças, di Laíz Bodansky, film brasiliano sull’inferno delle istituzioni psichiatriche, cui è stato elargito il premio alla miglior opera prima e il premio della giuria degli studenti della città. La storia si basa sulla tragica esperienza di Austregésilo Carrano, da lui narrata nel libro Rincón de los malditos (nella traduzione spagnola). Attualmente Carrano è attivista del movimento anti-manicomiale in Brasile, dove, secondo le sue denunce, ancora settantamila uomini e donne subiscono la violenza delle istituzioni psichiatriche autoritarie. Una nuova legge, votata il passato Aprile, si propone di chiudere questi centri, che spesso ritengono i “pazienti” molto più del dovuto per poter usufruire dei fondi pubblici, come mostrato dal film e come confermato dal ministro della sanità brasiliano José Serra in un articolo del quotidiano del Costa Rica La Nación, ma il processo può richiedere ancora degli anni.

La storia di Neto, protagonista del film, mostra come dai suoi atteggiamenti appena un po’ ribelli (vuole viaggiare da solo e senza molti soldi, si dedica a “graffitare” i muri della città e infine fuma occasionalmente degli spinelli), il padre concluda la necessità di internarlo e sottoporlo ad una cura psichiatrica. Medici ed infermieri della clinica agiscono in base a una routine repressiva che mira soltanto al mantenimento dei pazienti nella struttura, e che è responsabile del loro peggioramento. La chiusura forzata, l’eccesso di farmaci, e infine l’elettroshock punitivo per un tentativo di fuga, provocano in Neto un effettivo squilibrio mentale dal quale non riuscirà a riprendersi. Quando finalmente esce dalla clinica, è in uno stato fortemente depresso, e cade poi in un’ulteriore crisi che lo porta ad un secondo internamento, ancora peggiore del primo. Qui ha l’ostilità diretta di un infermiere piuttosto brutale, che alla fine cerca anche di lasciarlo morire nel suo tentativo di suicidio, senza soccorrerlo.

Alla violenza delle “cure” psichiatriche si aggiunge la problematica dell’incomprensione generazionale tra genitori e figli. È infatti il padre che costringe Neto nella clinica, convinto che sia l’unico modo per curarlo da quella che crede sia tossicodipendenza. Soltanto alla fine, in seguito ad una lettera che Neto gli scrive prima di tentare il suicidio, sembra rendersi conto del suo errore, e decide di liberare il figlio dai tentacoli del “mostro psichiatrico”. Il film ha suscitato molto interesse in Brasile, soprattutto negli ambienti legati alla medicina e alla psichiatria. Infatti non solo ha il merito di denunciare apertamente una situazione per molti sconosciuta, ma la modalità di rappresentazione evita attentamente di proporre un’immagine stereotipata o caricaturale della follia.

La parte iniziale del film mostra il personaggio di Neto nella sua vita quotidiana: è un ragazzo normale che aspira alla libertà, e non c’è nulla nel suo carattere che faccia presagire il tragico destino che lo attende. In questo modo il tema viene avvicinato nella percezione: non si tratta di fatti lontani che riguardano “i pazzi”, come se si trattasse di una categoria separata, ma di una realtà che ci tocca direttamente, e così lo hanno sentito gli studenti che hanno premiato il film. Hanno partecipato alla co-produzione del progetto Fabrica Cinema (dell’azienda Benetton) e la RAI.

I film premiati:
Miglior film: Un amor de Borges, di Javier Torre, Argentina, 2000.
Miglior sceneggiatura: Nueve Reinas, di Fabián Belinsky, Argentina, 2000.
Premio speciale della giuria: En la puta vida, di Beatriz Flores Silva, Uruguay, 2001.
Miglior regia: Bastardos en el paraíso, di Luis Vera, Cile, 2000.
Miglior opera prima e premio della giuria studentesca: Bicho de sete cabeças, di Laíz Bodansky, Brasile, 2001.
Miglior fotografia: La fiebre del loco, di Andrés Wood, fotografia di Joan Littín, Cile, 2001.
Premio del pubblico: História do Olhar, di Isa Albuquerque, Brasile, 2001.

 

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