Il "mecha-movie"Artificial Intelligence
Umberto Curi
E così, dopo i tirannosauri e gli extraterrestri, il nazista buono (un ossimoro, quasi
come il pinguino freddoloso di disneyana memoria) e lisola che non cè, la
fervida fantasia di Steven Spielberg ha partorito unaltra stupefacente novità. Si
potrebbe chiamarlo "mecha-movie", e si propone come capostipite di un nuovo
genere cinematografico, verosimilmente destinato a trovare molti imitatori - primo fra
tutti lo stesso regista americano, insuperabile nel costruire storie che consentano una
pluralità di "sequel", come è accaduto appunto con la noiosissima serie di Jurassic
Park, o con la più divertente saga di Indiana Jones.
Ma torniamo al "mecha-movie". Per capire di che cosa si
tratti, bisogna riferirsi alla scena-chiave di Artificial Intelligence, quella in
cui il piccolo David è abbandonato nei pressi della fabbrica nella quale è stato
costruito. Nel pieno di una foresta, fra le ombre di una notte rischiarata da una luce
fioca e sinistra, una gigantesca macchina sbuffante e sferragliante rovescia in una
discarica una grande quantità di "rifiuti" meccanici.
Si tratta di gambe e braccia, occhi e teste, mascelle e nasi, in ogni caso pezzi di robot
demoliti e ammassati alla rinfusa. Subito dopo, compaiono dalle tenebre strani personaggi,
robot scampati alla distruzione totale, ciascuno dei quali si rifornisce in questa sorta
di mercato delle pulci meccanico, chi avvitandosi un braccio, chi sostituendosi un occhio,
chi applicandosi una mascella meno malandata della propria.
Forse è davvero troppo azzardato accreditare a Spielberg una "intenzione" così
sofisticata e, per certi versi, perfino fortemente innovativa. Ma se si vuole attribuire
un qualunque significato a questa sua opera recente, lunica possibilità consiste
nellinterpretare in senso riflessivo questa sequenza, ipotizzando che egli abbia
inteso "parlarci" del film, spiegando in che modo egli lo abbia concepito e
realizzato: prelevando spezzoni di qua e di là, assemblandoli insieme senza alcun
criterio particolare, senza curarsi della coerenza fra un pezzo e laltro, né della
loro compatibilità "logica" e stilistica.

E vero, infatti, che la discarica alla quale egli ha attinto è
prevalentemente (ma non esclusivamente) costituita da "arti" tratti da sue
precedenti opere. Ma il fatto che siano chiaramente riconoscibili i pezzi presi da Hook
o da Incontri ravvicinati del terzo tipo, da E.T. e da Jurassic Park,
da Indiana Jones e perfino da Salvate il soldato Ryan, non conferisce
affatto a questa sorta di "creatura" un grado maggiore di attendibilità, né
può funzionare come attenuante per questo delirio del nuovo dottor Frankenstein.
Quanto detto finora non spiega del tutto perché abbiamo proposto di utilizzare
lespressione "mecha-movie" (locuzione ,si badi bene, che non è di
Spielberg, ma di chi scrive, e che ha unevidente intonazione ironica). Per chiarire
definitivamente ciò che si vuole proporre, è necessario tenere presente lassunto
principale, attorno al quale ruota il film, vale a dire la distinzione fra gli esseri
umani - gli "orga", presumibile abbreviazione di "organic" - e i
"mecha" (da "mechanical", evidentemente), vale a dire i robot,
talmente simili agli umani da essere da essi indistinguibili, se non per la mancanza delle
funzioni organiche (bere, mangiare, dormire) e conseguentemente per lincapacità di
sviluppare una vita affettiva completa.
Ad esempio, il bambino che è protagonista della storia, reincarnazione del Pinocchio di
Collodi, è un "mecha", mentre vorrebbe diventare, con lintervento della
Fata turchina, un bambino "vero", e cioè un "orga". Ebbene, se
davvero, come si è in precedenza suggerito, il "modello" compositivo adoperato
da Spielberg ricalca la sequenza del rifornimento di arti meccanici da parte di alcuni
robot, non è abusivo definire Artificial Intelligence come un film che non ha
proprio nulla di organico, ed è invece totalmente meccanico. Che non ha,
dunque, alcuna autentica vita, ma si presenta piuttosto come un congegno
artificiale, elaborato a tavolino (in questo caso, al tavolo della computer graphic),
quale risultato di un puro e semplice assemblaggio di elementi tecnologici. Un prodotto
rilevante dal punto di vista della componentistica elettronica, ma non unopera
cinematografica. Un patchwork senza genialità né originalità. Un pasticcio
terribilmente indigesto, sgangherato e sconclusionato. Un robot senza alcuna vita
affettiva. Un "mecha-movie", insomma.

Ma vi sono altri due aspetti, connessi con quello fin qui affrontato,
suggeriti da questa recente opera di Spielberg. Il primo di essi riguarda la struttura
complessiva del film, fin troppo evidentemente scandito in due parti distinte, luna
successiva allaltra, di durata quasi equivalente, anche se realizzate con un
registro stilistico molto diverso. La prima parte - o, come si potrebbe sostenere in
maniera non abusiva, il primo film - termina con labbandono di David nella
foresta, ed è indubbiamente la parte meno infelice dellopera, se non altro perché
in essa è rintracciabile un filo logico appena coerente.
E vero che tutto ciò che accade è talmente prevedibile da essere ampiamente
scontato, e che, inoltre, il tema affrontato riprende senza innovazioni di rilievo spunti
già abbondantemente sviluppati in altri film (fra i tanti, ne Luomo bicentenario,
ad esempio). Ma almeno una "storia", esile quanto si vuole, un po melensa
e tendenzialmente piagnona, si riesce in qualche modo a decifrare. Tutto ciò manca,
invece, nel secondo film, riproposizione didascalica della favola di Pinocchio,
nella quale si intersecano e si confondono una pluralità di microstorie senza capo né
coda, narrate per giunta con stili molto diversi, senza che nessuno degli almeno tre
finali che si succedono riesca effettivamente a "chiudere" plausibilmente la
molteplicità delle vicende descritte.
Un esempio per tutti: lincontro di David col suo artefice, un Geppetto in versione high-tech,
preannuncia uno svolgimento che poi manca completamente nel resto del film, dando
limpressione che lautore si sia semplicemente "dimenticato" di
raccontarci lepilogo di questa microstoria. Così, chi era in attesa del ritorno in
scena del "padre" del "mecha-bambino" (impersonato dallo stesso attore
che è Schindler nel film dal titolo omonimo), resta alla fine con un palmo di naso - e
con la sgradevole impressione di essere stato preso in giro.
Per tornare alla struttura del film, ciò che più conta sottolineare è che, non si sa
quanto intenzionalmente, qui la ben nota inclinazione di Spielberg a realizzare film in
sequenza sembra raggiungere un vero e proprio virtuosismo, dal momento che, anziché porre
una distanza di mesi o anni fra un film e il suo "seguito", questa volta i due
film si succedono intervallati solo da pochi secondi di schermo nero. Forse si tratta
soltanto di un una tantum. Ma non è poi così fuori luogo ipotizzare che il
regista americano abbia voluto collaudare una soluzione che, per così dire, interiorizzi
il sequel come articolazione stabile nella costruzione di ununica storia. Una
specie di "paghi uno e prendi due" applicato al cinema.
Daltra parte, questa congettura sembra essere confermata da ciò che riguarda lo
"stile" narrativo, col quale sono realizzati i "due" film, assemblati
sotto il titolo A.I.. Mentre il primo, infatti, procede secondo un registro
espressivo complessivamente omogeneo, non troppo diverso da quello impiegato nella maggior
parte delle opere precedenti, il secondo è costruito attraverso la contaminazione, più o
meno deliberata, di "stili" differenti. E possibile riconoscervi, infatti,
oltre allo Spielberg di E.T. e di Incontri ravvicinati, anche
limpronta di grandi autori di film visionari, dal Ridley Scott di Blade Runner,
fino al Terry Gillian di Brazil e de Lesercito delle dodici scimmie.
Da tutto ciò scaturisce limpressione complessiva che alla tecnica del
"mecha-movie", già illustrata per quanto riguarda le modalità compositive
della "storia" narrata, corrisponda anche una scelta analoga per quanto riguarda
laspetto linguistico del film, esso pure frutto della giustapposizione fra
differenti forme espressive. La fin troppo evidente mancanza di originalità di A.I.,
tanto nellimpianto narrativo, quanto nelle scelte stilistiche, e più ancora il
succedersi e il sovrapporsi di "storie" differenti, narrate con modalità
diverse, rifletterebbe insomma non già un mero "infortunio" da parte di
Spielberg, accidentalmente incappato in una prova meno riuscita di quelle precedenti, ma
una svolta nella sua carriera di autore, in quanto inaugurerebbe un modo nuovo di
concepire il cinema - non più come attività "creativa", come "apparizione
unica di una lontananza" (per dirla con Walter Benjamin), ma esattamente al contrario
come meccanico assemblaggio di "parti" e stili già esistenti.
Se questa ipotesi, formulata fin qui in maniera semiseria e volutamente paradossale,
dovesse rivelarsi almeno minimamente fondata, contrariamente ad ogni apparenza A.I.
dovrebbe essere considerato un film audacemente innovativo, una sorta di
"laboratorio" di sperimentazione avanzata. La tradizionale tematica
"riflessiva" di molti fra i film più importanti, nei quali è il cinema in
quanto tale ad essere posto in questione, a diventare tema più o meno diretto della
ricerca tematica e linguistica, verrebbe sviluppata da Spielberg proprio attraverso la
scena-chiave che si è in precedenza descritta, la quale funzionerebbe dunque come potente
metafora di ciò che il cinema stesso può ormai essere, nel pieno dell "epoca
della riproducibilità tecnica": puro prodotto tecnologico, virtuosismo compositivo,
meccanismo autoreferenziale - robot.
Consumata ogni pretesa strettamente "artistica", dissolta ogni illusione di
originalità "creativa", il cinema può essere insomma soltanto tecnologia
dellimmagine , senza vita, senza anima, senza pathos. Soltanto
"mecha-movie". E senza alcuna speranza che un qualche miracolo possa riuscire a
trasformarlo in "orga".
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