Recensione/Yi Yi
Paola Casella
Yi Yi scritto e diretto da Edward Yang, con Wu Nianzhen, Elaine Jin,
Kelly Lee, Jonathan Chang
Yi Yi - che in cinese vuol dire "individualmente", ma
che è anche l'incipit di ogni esecuzione jazz che si rispetti
("e uno, e due...") - è un invito ad ascoltare con amore e
comprensione la particolare musica che ogni individuo crea, anche
quando quella musica diventa aritmica e sincopata, anche quando stona.
Yi Yi, premiato a Cannes per la miglior regia, è l’ottavo
film del regista taiwanese Edward Yang, ma il primo a uscire dal
circuito dei festival per ottenere una distribuzione mondiale e
offrirsi al consenso del pubblico, oltre a quello della critica.

La storia non è una, ma un
intreccio di molte: un arazzo immenso e complicato dove i fili sono le
esistenze piccole e grandissime dei componenti di una famiglia
allargata di Taipei, i Jian. Il padre, N.J. (un acronimo che serve a
rendere un nome cinese accessibile a interlocutori occidentali - nel
suo caso i colleghi di lavoro americani e giapponesi), interpretato da
Wu Nianzhen, è il manager di un'azienda di computer, teoricamente
proiettata nel futuro, in realtà incapace di restare al passo coi
tempi. Sua moglie, Min-Min (Elaine Jin), è il motore immobile della
famiglia, tanto immobile che a un certo punto rivendica il proprio
diritto a evolversi individualmente ("yi yi"). La figlia
adolescente Ting-Ting (Kelly Lee), timida e ingenua, si affaccia alla
vita con l'esitazione di un cerbiatto. Il fratellino Yang-Yang (Jonathan
Chang) subisce le angherie delle compagne di scuola e di un maestro
inspiegabilmente crudele con la rassegnazione di chi non conosce
alternativa.
Intorno a loro si muovono un cognato irresponsabile e infantile, la
sua novella sposa giovane e incinta, la sua ex fidanzata pragmatica e
materna. E una nonna capostipite, ultimo moicano della sua generazione
(quella della tradizione cinese, ormai completamente superata dall'americanizzazione
di Taipei), che nelle prime scene viene colpita da un ictus, e passa
il resto della trama in coma, circondata dai familiari che le parlano,
parafrasando una battuta del film, come se pregassero, cioè senza la
certezza di venire ascoltati, senza la convinzione di essere
completamente sinceri.
La condizione della nonna fa da detonatore per tutte le tensioni
interne alla famiglia, e ognuno individualmente ("yi yi")
comincia a deragliare come una scheggia impazzita, quasi totalmente
ignaro delle sofferenze degli altri. E se per i giovanissimi lo
smarrimento è connaturato all'età (soprattutto nel caso
dell'adolescente Ting-Ting), per NJ e Min-Min diventa il primo sintomo
di una crisi con la quale non erano preparti a fare i conti.
Il regista taiwanese Edward Yang utilizza personaggi di età diverse
per riassumere l'intero arco dell'esistenza umana. "Avrei potuto
farlo raccontando una vita sola dalla nascita alla morte", ha
osservato Yang, "ma ho preferito assegnare ad ogni personaggio il
compito di rappresentare la fase della vita che corrisponde alla sua
età anagrafica”.

Particolarmente commovente è il
personaggio di N.J., eroe del quotidiano reticente a qualunque atto di
autodeterminazione, eppure incapace di sottrarsi alle prove che la
vita gli mette davanti: la prima è l'incontro con il suo amore
giovanile, Sherry, da lui lasciata senza una spiegazione ai tempi del
liceo, e ricomparsa proprio quando la moglie Min-Min ha deciso di
trascorrere un periodo presso un convento religioso.
Ma Edward Yang guarda e racconta con amore ogni suo personaggio: anzi,
li racconta lasciandoci semplicemente guardare il modo in cui
reagiscono agli eventi, secondo una sceneggiatura che sembra essersi
scritta da sola, e una regia che si limita a riprendere senza
interferire. Gli attori, tutti non professionisti, non recitano, sono
i loro ruoli, compreso il piccolo Jonathan Chang, che interpreta il
ruolo di Yang-Yang con una densità poetica interiore che appartiene a
lui prima ancora che al suo personaggio.
L'incomunicabilità fra persone che si vogliono bene è uno dei temi
principali di Yi Yi. Ma al contrario di tanti cineasti
contemporanei, soprattutto americani, Edward Yang non considera questa
incomunicabilità come una componente inevitabile nelle dinamiche
familiari, né dà per acquisito che il nucleo familiare debba essere
necessariamente un'unità disfunzionale. Semplicemente ammette che ci
sono momenti, fasi, circostanze durante le quali ogni certezza viene
sospesa, e ognuno deve faticosamente trovare il suo percorso, perdendo
temporaneamente di vista i propri compagni di strada.
Questo non impedisce alla tenerezza di esprimersi attraverso piccoli
gesti quotidiani che contemporaneamente allargano il cuore e lo
trapassano, con la loro cristallina dolcezza: la mano di N.J. che
stringe quella della figlia Ting Ting - quando fino a quel momento le
loro strade hanno seguito un andamento parallelo; l'abbraccio di N.J.
e Sherry, che non sapendo meglio, si aggrappano l'uno all'altra
perché la distanza fra loro non resti del tutto incolmabile.
Qualche parola va invece spesa per inquadrare Yang all'interno della
cinematografia asiatica: Yang fa parte, insieme a Hou Xiao-Xien e al
primo Ang Lee (quello di Mangiare, bere, uomo, donna), del
cosiddetto nuovo cinema di Taiwan. Tutti e tre raccontano i drammatici
cambiamenti sociali e l'evoluzione storica del loro paese non
attraverso eventi di portata nazionale ma attraverso le vicende
quotidiane di nuclei familiari posti sotto pressione da circostanze
interne ed esterne. Anche il modo di raccontare dei tre registi è
minimalista e molto legato alla realtà del quotidiano.
E tuttavia Yi Yi non è uno di quei film nei quali non succede
niente: al contrario, le bombe narrative sono dappertutto. Il fatto
che al primo momento queste bombe ci sembrino appartenere al genere
soap opera da la misura di quanto ci siamo assuefatti alla fiction
televisiva. In realtà, ben prima di Incantesimo, era il grande
romanzo a creare intrecci ricchi di colpi di scena.
Quello di Yang è un cinema che prende il suo tempo per raccontare le
sue storie (e si "arrabbia" con quei personaggi che mettono
una scadenza al proprio percorso, come Min Min, prima di trasferirsi
in convento), e Yang lascia che la narrazione si dipani e ci coinvolga
senza però mai avvilupparci nel sentimentalismo, anzi, mantenendo un
distacco formale dalle persone e dalle cose che è espresso, a livello
registico, da lunghi piani sequenza, inquadrature fisse e talvolta
stranianti, sporadici movimenti di macchina.
Molti hanno paragonato i tre registi di Taiwan, e in particolare Hou
Xiao-Xien (l'autore di Città dolente, che ha vinto il Leone d’oro
a Venezia nel ‘98), al maestro giapponese Ozu, anche per
l'insistenza nel fare di ogni storia un confronto fra generazioni, fra
passato e presente, dove la separazione dalla tradizione è
considerata un evento traumatico che incide profondamente (anche se in
modo quasi subliminale) sulle esistenze minime dei personaggi.
In Yi Yi la modernità, espressa da mille dettagli - i
grattacieli che trasformano i nuclei abitativi in anonime celle di
alveare, dove i vicini non si conoscono e non appartengono allo stesso
sistema di valori, i cinema multisala, i fast food, i coffee bar (che
reclamizzano i bagel H&H, una rarità newyorkese) è un moloch
tentacolare che tutto appiattisce e tutto annulla, che entra
nell'intimità dei personaggi (come le autostrade luminose che, nel
buio della notte, attraversano l’immagine di Sherry in un albergo di
Tokio, violando la privacy della sua solitudine). E poi le magliette
Diesel, Topolino e i Pokemon, che infieriscono soprattutto sui più
giovani e i più poveri di storia.

Non è un caso che la perdita
della tradizione sia anche raffigurata attravero la metafora musicale:
non c'è un solo motivo, all'interno di un film in cui la musica fa da
accompagnamento a molti dei personaggi principali, che non venga
dall'occidente, dai Beatles alle Shirelles a Renata Tebaldi. Eppure il
suono è così importante in Yi Yi che spesso precede
l'immagine, entrando in campo prima del cambio di scena.
Ma Yi Yi è innanzitutto una festa per gli occhi. C'è
un'enorme quantità di attenzione e di amore per il cinema in ogni
inquadratura, dai tableau vivent domestici alle scene di strada, e una
totale assenza di pigrizia creativa: le scelte di ambiente non sono
mai casuali, mai scontate (pensiamo ad esempio all'utilizzo dei
monitor interni agli edifici attraversati dai personaggi della
storia). Nelle sue quasi tre ore di narrazione, Yin Yin si
rifiuta di diventare verboso, lasciando sempre il ruolo principale
alle immagini. "Ho fatto il regista perché mi permette di non
parlare", ha dichiarato una volta il regista.
Yang è maestro nel demolire tutte le nostre difese e lasciarci
aperti, ad accogliere la più sommessa delle rivelazioni, il che è
più che una scelta autoriale: è una filosofia di vita. Per questo si
esce dal cinema contemporaneamente scossi e confortati, con la
profonda convinzione che, come dice uno dei personaggi del film,
"le cose non sono così complicate come sembrano" - anche se
non esistono formule magiche per affrontarle - e che qualche volta,
per uscire da noi stessi, non è necessario spalancare una porta:
basta aprire una finestra.
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