Un corpo da reato
Paola Casella
Un corpo da reato, di Harald Zwart, con Liv Tyler, Matt Dillon,
Michael Douglas, John Goodman, Paul Reiser
Qualche volta capita che un piccolo film attraversi i grandi
schermi inosservato, quando invece meriterebbe la nostra attenzione.
E' il caso di Un corpo da reato, commedia indipendente
americana della quale quasi nessuno ha parlato - e chi l'ha fatto ne
ha frainteso il senso - e che invece colpisce nel segno su molti
fronti.
Innanzitutto, è veramente divertente, nel senso che si ride, e lo si
fa nel modo giusto, trattandosi di una farsa: cioé poco all'inizio e
molto alla fine - da antologia la scena del massacro sulle note di YMCA
- secondo un meccanismo di accumulo e di accelerazione progressiva
da manuale del genere. Tutto il film è caratterizzato dall'unità
tipica della struttura narrativa cinematografica: il binomio setup-payoff.
Lo sceneggiatore, prima ancora che il regista, semina ovunque premesse
che in seguito troveranno la loro conferma, costruisce lo scenario la
cui battuta conclusiva ne suggella il contenuto comico solo dopo, e
con un bang. In questo senso, una buona commedia è come un buon film
giallo: agli indizi corrispondono simmetricamente le rivelazioni
successive. E siccome Un corpo da reato è una commedia-noir,
il meccanismo funziona a 360 gradi.

La trama di Un corpo da reato è sufficientemente strutturata,
anche se paradossale, e parte da questa premessa: una bella ragazza,
Jewel (Liv Tyler), praticamente piovuta dal cielo all'interno di una
piccola comunità della provincia americana, crea lo scompiglio
facendo innamorare di sé tutti gli uomini che incontra - un barista
solitario (Matt Dillon), un poliziotto vedovo e supercattolico (John
Goodman), un avvocato untuoso (Paul Reiser) e un killer con
capigliatura cotonata (Michael Douglas).
Apparentemente Jewel è un'ingenua che si lascia vivere. In realtà è
guidata da un'agenda ben precisa. E il suo modus operandi è
quello di ogni femme fatale che si rispetti: incarnare le
fantasie dell'uomo che ha davanti per ottenere da lui tutto quello che
vuole. Così è di volta in volta solerte infermiera e una prostituta
da peep show, Jessica Rabbit e una vittima di maltrattamenti
domestici, una dominatrix con frusta e stivaloni e una cameriera in
crestina.
Parallelamente, nessuno dei suoi partner maschili è un personaggio
nuovo per il grande schermo. Anzi: ognuno di loro è studiatamente
costruito su un cliché cinematografico, è una macchietta che solo a
tratti (e saggiamente) rivela un lato genuinamente umano (merito anche
di un bel cast di caratteristi). Col risultato che la commedia può
fare leva sull'immaginario collettivo degli spettatori per confermare
le loro aspettative a proposito dei personaggi oppure per ribaltarle
repentinamente.
Il regista è abbastanza intelligente da farci capire (o meglio,
vedere: grazie a Dio Zwart è più visivo che concettuale) che Jewel
si limita a dare un minimo di sponda a quelle fantasie, perché sono
gli uomini a vederla come pare a loro, e ad attribuirle
caratteristiche che lei semplicemente non contraddice. Per questo
Zwart ci fa rivedere la stessa scena attraverso gli occhi e le parole
di ognuno dei protagonisti maschili, che racconta la vicenda in
retrospettiva, naturalmente a modo suo. E nella stessa scena, girata
secondo un'ottica diversa, il prototipo ideale incarnato da Jewel
cambia, e quindi cambiano il suo abbigliamento, il suo modo di fare,
la sua espressione.

Ecco la prima considerazione sull'amore di un film che, dietro la
facciata comica, apre spiragli interessanti sulla natura del
sentimento più elusivo del mondo: ci innamoriamo di chi si presta a
incarnare le nostre fantasie, di chi si fa schermo sul quale
proiettare liberamente le nostre aspettative. Non è una rivelazione,
e non è nemmeno un concetto nuovo per il cinema. Ma è raccontato in
modo fresco e spiritoso, e "arriva" perché è il concetto
su cui si basa il meccanismo della trama, invece di rimanere una pura
considerazione teorica.
In questo senso il film di Zwart è speculare al recente Chimera
di Pappi Corsicato, solo che mentre Chimera si prendeva
maledettamente sul serio, e non si preoccupava di costruire una
storia, Un corpo da reato crea una vicenda su questa premessa e
la farsa funziona proprio grazie all'escalation degli eventi
che sono diretta conseguenza delle percezioni alterate dei suoi
personaggi.
Forse il principale trompe l'oiel di Un corpo da reato è
quello di utilizzare il format della screwball comedy,
tradizionalmente guardato dall'alto in basso da critici e
intellettuali (vedi l'asseganzione dei premi Oscar, che non vanno
quasi mai alle commedie), per raccontare verità universali. Si ride,
dunque, ma poi si riflette.
Dopo la descrizione dell'amore come suprema fantasia, il film offre
quella, più sottile, dell'amore come speranza nella realizzazione di
un sogno. O meglio: dell'amore come ricerca della persona che promette
di realizzare i nostri sogni. Scopriremo infatti che anche Jewel cerca
il suo uomo ideale, al di là del suo apparente cinismo, e che il suo
uomo ideale è semplicemente il primo che, invece di imporle i propri
desideri, si fermerà ad ascoltare i suoi, e si impegnerà
realizzarli. Anche se i desideri di Jewel sono altrettanto prosaici,
altrettanto dettati dalla società dei consumi di quelli dei suoi
partner.

Jewel, tra l'altro, è un personaggio meno insipido (e meno offensivo
per il pubblico femminile e femminista) di quello che sembrerebbe
all'apparenza: nonostante gli uomini la vedano come il prototipo della
bambolona sexy, Jewel è (anche) una lavoratrice accanita - è lei che
mantiene il fidanzato barista - e una donna volitiva che persegue il
suo obiettivo con testarda e disperata determinazione. Perché ritenga
di avere bisogno di un uomo per raggiungerlo, essendo lei stessa
abbastanza intelligente e motivata da procurarselo da sola, sarebbe un
mistero, se non ci trovassimo nell'ambito di una commedia che racconta
come le nostre aspettative a proposito del sesso opposto siano per lo
più ridicole e prive di qualunque aggancio con la realtà.
Un corpo da reato fa del citazionismo cinematografico (anzi,
massmediatico) la sua risorsa principale, a cominciare da Pulp
Fiction a Da morire. E procede a premere in sequenza tutti
i tasti del nostro immaginario collettivo, per costruire una storia
nella quale le aspettative di ognuno dei protagonisti - ma anche degli
spettatori- sono tristemente preconfezionate dalla stampa erotica,
dalle pubblicità indirizzate al pubblico maschile - automobili,
birra, telefonia cellulare - MTV e le telenovela sudamericane.
In una certa misura, Un corpo da reato ci fa prendere
istantanea coscienza di quali cani di Pavlov siamo diventati, grazie a
una "cultura" pop che fa di noi ricettacoli passivi: da
spettatori, nel buio della sala, riconosciamo ciascuno degli stimoli
ai quali siamo quotidianamente sottoposti dai media, e in qualche modo
rispondiamo, anche solo con una risata.
Si capisce che il regista non è americano (è un olandese cresciuto
in Norvegia) e che però che si è fatto le ossa lavorando per il
mercato statunitense (nel suo caso, girando spot pubblicitari e video
musicali): la sua perfetta aderenza ai canoni etici ed estetici
dell'americano medio, la sua comprensione profonda del sogno yankee
sono tipiche dell'immigrato, che guarda con distacco, e nello stesso
tempo si adegua, al paese che lo ospita - non dimentichiamo che il
miglior interprete del mito della palizzata bianca è stato Frank
Capra, un siciliano trapiantato a Hollywood.
I link:
Il sito ufficiale di
"Un corpo da reato" (in inglese, e' necessario il
Plug-in Flash)
La scheda del film da
Internet Movie Database (in inglese, il titolo originale del film
e' "One Night at McCool's")
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