Todd Solondz
contro il politically correct.
Leonardo Gandini
L'inatteso successo commerciale, in questa stagione, di alcuni film
italiani (da I cento passi di Giordana a L'ultimo bacio
di Muccino), ha prodotto uno strano contraccolpo: i distributori di
cinema d'autore si ritrovano ancora i magazzini pieni di film comprati
l'anno scorso, che non hanno trovato spazio in sala, e per tale
ragione si muovono, a Cannes, con maggiore circospezione rispetto alle
edizioni passate. Questo significa che, diversamente da quanto
avvenuto negli ultimi anni, i cinefili italiani non possono ora dirsi
certi che i film d'autore più interessanti saranno effettivamente
acquistati e distribuiti sui nostri schermi.

Per fortuna quest'anno, date le dimensioni smisurate della selezione
ufficiale, non sono molti i film "collaterali" che possono
dirsi davvero interessanti. Tra i pochi, la menzione d'onore va
sicuramente al caustico Storytelling di Todd Solondz, la cui
vena corrosiva era peraltro già emersa nel precedente Happiness.
Diviso in due episodi - "Fiction", più breve, ambientato in
una classe universitaria di scrittura creativa, e "Not-Fiction",
più lungo, incentrato su un documentarista che gira un film sui
teenagersamericani - Storytelling è un film programmaticamente
scomodo, politicamente scorretto dal principio alla fine, che denuncia
l'impossibilità, in una società dove la rappresentazione di
argomenti come il sesso, la razza, la famiglia, l'handicap è
condizionata e falsata dall'onnipresenza di stereotipi e complessi di
colpa mal digeriti, di guardare al reale con un minimo di onestà e
profondità.
Solondz costruisce un apologo di sconcertante lucidità sulle nuove
ipocrisie degli americani, quelle che nascono dalla solidarietà di
facciata, dalla tolleranza tradotta in frasi vuote e prive di
spessore; e, già che c'è, si prende anche il lusso di mettere alla
berlina American Beauty, come prototipo di un cinema che non ha
il coraggio, come invece fa il suo film, di coniugare onestà e
cattiveria, analisi sociale e disincanto.

Una mezza delusione si è invece rivelato No Such Thing, il
nuovo film dell'altro enfant prodige del cinema indipendente
americano, Hal Hartley. Rinunciando per una volta a mettere in scena
personaggi impegnati in dialoghi brillanti e ponderosi, Hartley
costruisce una curiosa parabola sulla diversità, eleggendo a
protagonista della storia un essere mostruoso che vive in un'isola del
Nord Europa, dove viene raggiunto da una giovane giornalista (Sarah
Polley, recente protagonista de Il mistero dell'acqua di
Kathryn Bigelow), ansiosa di conoscere a fondo questo strano fenomeno
della natura.
E' così che reporter e mostro fanno ritorno nella civiltà, dove
naturalmente le fameliche esigenze di spettacolarizzazione dei
mass-media avranno ben presto la meglio sulle buone intenzioni della
ragazza. Proprio la scelta di puntare l'obiettivo da una parte
sull'immoralità del mondo dell'informazione, e dall'altra sulla
demonizzazione del diverso rende il film di Hartley antiquato e poco
interessante, come contributo a un tema ormai sfruttato sino
all'usura.
Ben più innovativa risulta allora l'operazione di Solondz, che parte
dal presupposto contrario: di troppa, e falsa, tolleranza si può
anche morire, specialmente quando ci si cimenta con l'ingrato compito
di raccontare, per parole (nel primo episodio) o per immagini (nel
secondo) la verità degli individui, al di là delle connotazioni
razziali e sociali che li identificano.

Sull'agenda dei distributori dovrebbe anche finire Taurus di
Alexandre Sokurov, seconda parte di una tetralogia dedicata al potere
che due anni fa ha avuto in Moloch, incentrato sul rapporto tra
Adolf Hitler e Eva Braun, il suo primo capitolo. Qui invece il
protagonista è un Lenin invecchiato e indebolito dalle malattie -
siamo nel 1922 - che vive isolato in campagna, circondato da medici,
mogli, servitori e guardie del corpo.
Senza telefono, dunque tagliato fuori da Mosca e da quella vita
politica della quale è stato in passato protagonista assoluto, Lenin
viene impietosamente ritratto come un vecchietto qualsiasi, lucido
solo a tratti, rancoroso e aggressivo con chi gli sta vicino. Le
cadenze rallentate con cui Sokurov narra la storia accentuano
l'impressione di una decadenza graduale e pervasiva, che condanna il
personaggio a vivere in un limbo dorato, nel quale i frammentati e
confusi ricordi della rivoluzione finiscono per apparire molto più
patetici che eroici.
Emblematica al riguardo la splendida sequenza dell'incontro con
Stalin, melliflua figura di dittatore in erba, venuto a recare visita
al vecchio leader. Dal dialogo tra i due, sospeso anch'esso in
un'atmosfera rarefatta e vagamente irreale, emerge nitida la
diversità tra il dittatore di un tempo, le cui riflessioni sul potere
suonano come sproloqui privi di senso, e il nuovo leader, la cui
cautela nel dosare le parole e gli atteggiamenti risulta ben più
inquietante, nonché rivelatrice della sua ormai irresistibile ascesa
politica.
Come al solito nei festival del cinema, il genere piu latitante rimane
la commedia, che paga il fatto di essere spesso considerata dai
selezionatori come incompatibile con le vette del cinema d'autore.
Tutt'al più, è possibile imbattersi in film attraversati da un
umorismo venato di malinconia, che spesso finisce per lasciare spazio,
nel giro di qualche sequenza, ad atmosfere pienamente drammatiche.
Tipico, in tal senso, è The Anniversary Party, film che segna
l'esordio alla regia di Jennifer Jason Leigh, che l'ha girato insieme
ad un altro attore, lo scozzese Alan Cumming. Del film i due sono
anche interpreti, nel ruolo di una coppia (lei attrice, lui scrittore
e regista) che, dopo qualche dissapore, festeggia il sesto anno di
matrimonio. Amici, colleghi di lavoro e vicini di casa (impersonati da
attori di primo piano e vecchie conoscenze del cinema indipendente, da
Gwyneth Paltrow a Parker Posey, da Kevin Kline a John C. Reilly) si
riuniscono a casa della coppia, dando vita ad un party che, dopo
l'allegria iniziale, si trasforma, complice qualche pasticca di
ecstasy, in un'acida resa dei conti, nella quale l'affetto di facciata
lascia il posto a verità sgradite e mal tollerate.
Lo schema del film è tutt'altro che nuovo: l'idea della festa come
luogo che alla lunga lascia affiorare i problemi interpersonali fra
gli invitati ha sempre avuto, a Hollywood, una certa popolarità. Da
apprezzare rimane allora soprattutto il gioco di squadra degli attori,
l'ensemble interpretativo nel quale, come in una jam-session, ciascun
assolo confluisce nella struttura complessiva senza farla deragliare.
Insomma, tutti i pregi e i difetti che ti aspetti da un film diretto
da due attori.
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