| 
        
           A proposito di Traffic 
           
           
           
          Angelica Alemanno 
           
           
           
          Già nel titolo, Traffic, esprime e condensa in una parola il
          senso di quel movimento di cose e persone, continuo, ininterrotto, che
          sottende allo sguardo impassibile della cinepresa. Lo sguardo posato
          sul fenomeno dello smercio di stupefacenti - uno dei più grossi e
          potenti del mondo, ma anche un traffico illecito come tanti - al
          confine tra Messico e Stati Uniti è vigile ma non partecipe. 
            
           
          Qualcuno mi ha suggerito che in l’ultimo film di Soderbergh pecchi
          di presunzione. Ma ciò che rende il film così d’impatto è il
          tentativo di gettare uno sguardo esaustivo, e non contaminato o
          parziale, su un fenomeno di attualità che abbiamo ormai quasi tutti
          totalmente “metabolizzato”. E la sfida potrebbe allora essere
          stata vinta se si considera il modo in cui il narrare diviene qui un affabulare,
          il guardare diviene uno spiare, l’aspettativa dello
          spettatore medio viene spostata dal movimento dell’azione ai colori
          della situazione, quasi alla temperatura ambientale in cui sono
          immersi i personaggi, efficacemente espressa attraverso il cambio di
          viraggio della pellicola. 
           
          L’immodesta sfida del film, che lo rende, proprio per questo,
          assolutamente unico nel suo genere, sconta la propria superbia grazie
          ad un risultato sorprendente: tenere sotto controllo nell’apparente
          noncuranza di un approccio documentaristico, temi, struttura,
          risonanze, plot e subplot. 
           
          Quello che ci preme dire è dunque come Traffic, l’ultimo
          film di Steven Soderbergh, può essere considerato, per il tono
          narrativo e per il punto di vista adottato, un esempio di
          sperimentazione narrativa che procede - nonostante e giustappunto in
          funzione del tema trattato - con un ritmo per così dire malinconico.
          L’effetto più immediato di questa scelta narrativa è quello di
          produrre un film dall’inatteso ritmo “straniato”, in cui è
          evidente come la sceneggiatura lavori di pari passo con le esigenze
          registiche. 
            
           
          Se per assurdo avessimo avuto un punto esclamativo, nel titolo, ci
          saremmo aspettati un film totalmente diverso rispetto a quello che è,
          che ci lascia sospesi, appunto, per 147 minuti, in un vero e proprio Traffic.
          La struttura e le scelte drammaturgiche mirano a selezionare brandelli
          di ciascuna storia, appena sufficienti a farne intravedere la
          fisionomia, la ragione, (ma delineandone chiaramente, invece, la
          struttura), in modo da non volgere mai al coinvolgimento emotivo
          dello spettatore, che è tenuto lontano, distante. 
           
          Rispetto a molti altri film sulla droga, che costruiscono mitologia
          attorno a situazioni o personaggi, questo film si affida all’anti-spettacolare,
          costruendo la narrazione per sottrazione. Non c’è dunque da
          stupirsi se tre dei quattro Oscar che si è meritato vadano proprio
          alla regia, alla sceneggiatura e al montaggio: questo film è un
          omaggio all'arte di raccontare. 
           
          Il link: 
           
          La scheda del film "Traffic" (ingl), da Internet Movie
          Database 
          http://us.imdb.com/Title?0181865  
           
           
         Vi
        e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di
        vista cliccando qui 
          Archivio Cinema 
         
        
  |