A proposito de La
stanza del figlio
Umberto Curi
Umberto Curi, autore del libro “Lo schermo del pensiero. Cinema
e filosofia” (Raffaello Cortina Editore), interviene “da filosofo”
sul film di Nanni Moretti. Questo articolo è apparso anche sulle
pagine del "Mattino".
Pochi altri eventi sono altrettanto intrinsecamente patetici - vale a
dire, portatori di sofferenza, di pathos - quanto la morte di un
figlio. La tragedia greca, che è all’origine di una secolare
tradizione drammaturgica, giunta nei suoi esiti più maturi fino ai
giorni nostri, ne è l’esempio più significativo. Capace di
suscitare intensamente pathos è, ad esempio, la vicenda di Creonte,
succeduto all’esule Edipo sul trono di Tebe, quando scopre che il
figlio Emone ha preferito uccidersi, piuttosto che sopravvivere alla
promessa sposa Antigone, condannata a morte proprio dalla cieca
intransigenza del suo stesso padre. Ancora più patetica la vicenda di
Agamennone, costretto a sacrificare la figlia Ifigenia (secondo la
versione di Eschilo), per placare l’ira degli dei e consentire alla
flotta achea di prendere il largo.

In altro contesto culturale, non meno carica di sofferenza la figura
del padre Abramo, descritto nel tormentoso cammino di tre lunghissime
giornate, mentre conduce il figlio Isacco su un alto monte per
sacrificarlo a Dio. Non vi è dubbio, insomma, che l’evento della
morte, già in se stesso difficile da accettare per chiunque, appaia
ancora più insopportabile, quando colpisca un giovane, lasciando a
piangerlo coloro che lo hanno generato. In casi come questi, l’irrazionalità
della morte è ulteriormente sottolineata da una sorta di inversione
nel ciclo “naturale” degli avvenimenti: anziché subentrare ai
padri, secondo un avvicendamento comunque spietato, ma almeno
corrispondente ad una “regola” comprensibile, i figli scompaiono
per primi, aggiungendo al compianto sempre connesso alla morte lo
sgomento per il rovesciamento dell’ordine naturale delle cose.
Non importa se intenzionalmente o meno, il film di Nanni Moretti si
confronta con i modelli classici appena citati. Classica -
meticolosamente ricalcata su quanto si dice nella Poetica di
Aristotele, a proposito della struttura della tragedia - è certamente
la “composizione dei casi” che è alla base della vicenda
descritta, nettamente scandita fra la “felicità” familiare della
prima parte, e il subentrare della più totale infelicità nella
seconda. Conforme alle direttive aristoteliche è, inoltre, l’irruzione
nella storia di un evento letteralmente catastrofico (la morte del
figlio, appunto), che segna il passaggio repentino da uno “stato”
all’altro, avviando lo “scioglimento” del “nodo” tragico.
Altrettanto rispettosa delle “regole” che devono presiedere alla
costruzione di una tragedia, è la stessa “forma” conferita a
questo passaggio, nel senso che la metabolè, il rovesciamento di
fortuna, giunge del tutto imprevisto, e al tempo stesso appare
pienamente verosimile. Talmente classico, infine, da sembrare perfino
troppo pedantemente aderente agli archetipi della tragedia attica, è
l’evento specifico intorno a cui è costruita la storia, dato che la
morte del figlio può essere considerato un topos inconfondibile della
drammaturgia antica e di quella moderna.

Nonostante tutto ciò, a dispetto di una sorprendente ricerca di
fedeltà ai canoni tradizionali della tragedia, oltre che dell’uso
fin troppo insistito di espedienti virtualmente capaci di suscitare il
“piacere” che è proprio della tragedia (ripetuti scoppi di pianto
da parte di entrambi i genitori, scene di disperazione familiare,
dissoluzione della preesistente armonia domestica, ecc.), il film
fallisce sostanzialmente nello sforzo di conseguire l’effetto
tragico. Al contrario, si può motivatamente sostenere che Moretti
riesce a trasformare un argomento che sarebbe tragico per antonomasia,
quale è appunto la morte di un figlio, e che dunque potrebbe segnare
una fondamentale innovazione nelle scelte tematiche e di “stile”
dell’autore romano, in uno spunto che riconferma, sia pure
indirettamente, la granitica immodificabilità del cinema morettiano,
costantemente oscillante fra un esasperato narcisismo e un non meno
estremistico nichilismo.
D’altra parte, a questa stessa conclusione - vale a dire al
riconoscimento della mancanza di ogni intonazione autenticamente
tragica del film, e conseguentemente dell’incapacità di indurre “pietà
e terrore” , che costituiscono il “piacere” specifico della
tragedia - si può giungere anche per un’altra via, non si sa se
più aderente alle “intenzioni” del regista, ma comunque più
interna alla struttura di questa opera cinematografica. Difatti, se ci
si libera da alcune attese e da alcuni pregiudizi, dovuti soprattutto
alle modalità con le quali è avvenuta la promozione pubblicitaria
del film, è possibile verificare che, fin dalle sequenze iniziali
(nelle quali, ancora una volta, domina l’immagine di Moretti,
ripreso durante una lunga corsa, apparentemente senza meta),
“La stanza del figlio” non è affatto finalizzato alla
rappresentazione del dolore conseguente alla morte prematura del
giovane Andrea, quanto piuttosto alla descrizione della radicale
impossibilità di misurarsi con esso da parte del protagonista. Al
centro della vicenda, infatti, non campeggia la sofferenza di chi
sopravviva al proprio figlio, ma la mancanza di mezzi espressivi
capaci di “rappresentare” adeguatamente una forma così intensa di
dolore, e di conferire conseguentemente alla vicenda che da tale
dolore è attraversata le caratteristiche di una vera e propria
tragedia. Il dramma a cui Moretti si riferisce, insomma, non è
affatto quello del padre che perda prematuramente un figlio, ma quello
di un autore che verifica la propria inadeguatezza a cimentarsi con la
dimensione del tragico.
Tutto ciò è confermato dalla figura del protagonista, uno
psicoanalista davvero sui generis, per nulla interessato alle vicende
dei suoi pazienti, talmente disincantato da suggerire l’impressione
di essere il primo a non credere nell’utilità e nell’efficacia
del proprio lavoro. E così come Giovanni Sermonti appare totalmente
disarmato di fronte al dolore in vario modo raccontato da coloro che
si avvicendano sul lettino del suo studio, allo stesso modo il suo
alter ego Nanni Moretti confessa la propria incapacità di affrontare
il dolore di una storia che, viceversa, compendia l’esperienza forse
più dolorosa che possa capitare ad un uomo.

Questo duplice fallimento - quello del personaggio rappresentato nel
film, e quello del regista, entrambi sconfitti in quella autentica
prova del fuoco che è costituita dal rapporto col dolore - conferisce
al film un carattere compiutamente nichilistico. Al contrario di
quanto si è troppo frettolosamente affermato, “La stanza del figlio”
denuncia infatti un lutto che non è affatto elaborato, una sofferenza
che rimane sterile, incapace di funzionare come strumento catartico,
come tramite per una purificazione che in qualche modo possa redimere.
L’abbandono della professione da parte di Sermonti coincide, in
realtà, col mesto riconoscimento di un autore che ha tentato di
ripercorrere la strada del tragico, vedendosi alla fine costretto a
riconoscere la propria inadeguatezza.
Come risulta anche dal finale, nessun riscatto attende i protagonisti
della vicenda, poco alla volta risucchiati nella quotidianità di
parole e comportamenti usuali, in nessun modo segnati dall’esperienza
di un dolore che non assurge ad alcuna grandiosità, che non éleva e
non condanna, che in ogni caso non riesce a indurre alcuna
trasformazione. Assistiti dal sole di una giornata radiosa,
conseguente al buio e alla pioggia delle ore precedenti, essi
rientreranno gradualmente nelle proprie abituali occupazioni di vita e
di lavoro, dimenticando poco alla volta Andrea. Allo stesso modo è
presumibile (ed è forse anche consigliabile) che Moretti ritorni al
registro espressivo, caustico e dissacrante, provocatorio e
demolitore, che è tipico del suo indiscutibile talento. Lasciando ad
altri la difficile impresa di rinverdire l’universo della tragedia.
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