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           Recensione/Domenica 
           
           
           
          Paola Casella 
           
           
           
          Domenica, diretto da Wilma Labate, scritto da Wilma Labate e Sandro
          Petraglia, con Claudio Amendola, Domenica Giuliano, Annabella Sciorra,
          Rosalinda Celentano, Peppe Servillo, Valerio Binasco 
           
          E' uno strano film, Domenica. Assomiglia a quegli adolescenti che, in
          fase di crescita, si ritrovano con un naso sproporzionato rispetto al
          resto della faccia, o le gambe troppo lunghe, o le mani fuori misura.
          Perché Domenica, terzo film della regista e co-sceneggiatrice
          (insieme a Sandro Petraglia) Wilma Labate, lascia coesistere
          melodramma e commedia, dialoghi minimalisti e monologhi sopra le
          righe, recitazione sommessa (quella di Claudio Amendola) e caricata
          (quella dell'undicenne Domenica Giuliano), creando risultati
          discontinui e spiazzanti - a tratti profondamente commoventi, a tratti
          involontariamente comici - ma non privi del fascino sguezzo
          dell'incongruenza, proprio come certi adolescenti. 
            
           
          La storia si svolge nell'arco di una sola giornata (come quella di La
          mia generazione, il precedente film della Labate), durante la quale il
          poliziotto Sciarra (Amendola), prima di ritirarsi in pensione, deve
          condurre una bambina, la Domenica del titolo (Giuliano), a riconoscere
          il cadavere dell'uomo che l'ha violentata qualche tempo prima. Sciarra
          e Domenica sono due isole, o meglio due orfani, come li descrive la
          regista: un padre senza figli e senza legami familiari apparenti, a
          parte una sorella sposata che lo aspetta in Sicilia - e si direbbe che
          lo attenda più per pietà che per affetto - e una figlia senza
          genitori, che assilla un'amica adulta, ex fidanzata di Sciarra
          (Annabella Sciorra, che recita in italiano con lieve accento
          broccolino), con mille domande sull'identità di sua madre. 
           
          Ciò che accomuna Sciarra e Domenica, oltre alla solitudine e alla
          mancanza di radici, è la dignità, l'orgoglio nel coprire le proprie
          ferite, "il pudore del dolore", come ha detto Claudio
          Amendola in conferenza stampa. Sono caratteristiche che legano anche i
          personaggi di Domenica a quelli di Ambrogio, il primo film della
          Labate - che pure era molto più leggero - e di La mia generazione.
          Impossibile non tracciare una linea continua fra Braccio, l'ex
          terrorista de La mia generazione, e il poliziotto Sciarra, entrambi
          interpretati da Amendola con malinconico stoicismo e un'inflessibile
          dirittura morale di fondo. 
           
          Ma se Braccio era ancora un uomo giovane, con ideali incrollabili e
          ferrei principi, Sciarra è un quarantenne precocemente invecchiato,
          che raggiunge la maturità quando, voltandosi indietro, riconosce i
          suoi errori - soprattutto quelli commessi per adeguarsi alla
          brutalità e alla corruzione della polizia - e si assume, forse per la
          prima volta nella vita, la responsabilità di un altro essere umano:
          Domenica, appunto. 
            
           
          "Sciarra è il mio primo ruolo adulto", ha detto Claudio
          Amendola, ben contento di lasciarsi alle spalle la galleria di
          adolescenti più o meno eterni che costituisce il grosso del suo
          curriculum di interprete. E Domenica, come si diceva all'inizio, è il
          primo film adulto di Wilma Labate, o almeno il primo che prova a
          raccontare una storia di raggiunta maturità, al punto che persino la
          piccola protagonista, nonostante l'età anagrafica, dimostra una
          saggezza atavica. 
           
          In questo senso Domenica prova ad essere quello che Fuori dal mondo è
          stato per Piero Piccioni e Pane e tulipani per Silvio Soldini: il
          salto di qualità oltre che di crescita. Peccato che, nel caso di
          Domenica, la crescita non sia del tutto completa, e che insieme ai
          prodromi del futuro convivano le tracce del passato cinematografico
          dell'autrice. Ad esempio i personaggi principali, che hanno statura
          tragica e potrebbero entrare nell'antologia del grande cinema se
          fossero sviluppati fino in fondo, restano invece ancorati alla vecchia
          abitudine italiana (cioé del cinema italiano "da tinello")
          di mantenere il dialogo povero, nel senso di abbozzato e
          "naturalista" (cioé "vicino al parlato comune" -
          ma comune a chi?). Due personaggi così forti avrebbero diritto a
          dialoghi shakespeariani, non a monosillabi (lui) e a sermoni resi
          "veri" (?) dall'assenza dei congiuntivi (lei). 
           
          Bello e inedito invece il personaggio di Suor Luciana, la monaca
          operaia interpretata da Rosalinda Celentano con un'essenzialità nei
          modi e un'intensità nell'espressione che potrebbero da soli
          costituire il registro narrativo del film. 
           
          Ci sono poi alcune grandi falle nella sceneggiatura: perché, ad
          esempio, il commissario di polizia interpretato da Peppe Servillo (il
          cantante degli Avion Travel) insiste affinché Domenica vada
          personalmente a riconoscere il cadavere, e non utilizza invece l'età
          della bambina come scusa per fare a meno di quella formalità?
          (Possibile risposta: Perché altrimenti mancherebbe il pretesto per
          riunire Sciarra e Domenica, cioé non ci sarebbe storia). Perché il
          laconico Sciarra si arrabbia tanto quando scopre Domenica intenta a
          intrattenere il fidanzatino arabo? (Possibile risposta: Perché non
          c'era altro modo di far vedere che Sciarra è stato un tempo violento
          e impulsivo, e che probabilmente come poliziotto non disdegnava l'uso
          della brutalità). 
            
           
          Resta comunque ammirevole il coraggio della Labate, non solo nell'aver
          adattato un racconto molto latino (leggi: melodrammatico), La ronda
          del Guinardo di Juan Marsé, che era ambientato nella Spagna
          franchista, trasferendolo nella Napoli dei giorni nostri (non a caso
          la patria della sceneggiata alla Merola), ma anche nell'averlo fatto
          senza ironia o condiscendenza, con grande rispetto per l'integrità
          drammatica dei suoi personaggi. E' sempre stimabile il coraggio di
          rischiare il ridicolo - ad esempio scegliendo come canzone finale un
          brano di Elvis Costello strappalacrime fino alla parodia - pur di
          suscitare una commozione vera, profonda, per due cani senza collare,
          che portano con sé il peso del mondo, senza per questo perdere la
          grazia e l'ironia. Meglio un tentativo riuscito a metà, come
          Domenica, dei tanti film pavidi che circolano nelle nostre sale: a voi
          l'imbarazzo della scelta dei titoli che corrispondono a questa
          descrizione. 
           
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