Il nuovo disordine globale
Guido Carandini*
Quella che segue è la seconda parte di una ricerca sul modo
occidentale di concepire la globalizzazione e di indirizzarne gli
sviluppi. Per leggere la prima parte cliccare qui
. La terza parte apparirà sul prossimo numero di Caffè Europa.

2. SVILUPPO DELLE DOMANDE
2.1 Di cosa discutere parlando di globalizzazione?
Che si tratti di un fenomeno economico, cioè della estensione al
mondo intero del sistema dell’economia di mercato capitalistica,
è un fatto incontestabile. Ma la questione diventa più complessa
non appena si consideri che non si tratta dell’espansione del
capitalismo come si era realizzato storicamente a partire dalla
rivoluzione industriale fino alla metà del secolo scorso all’interno
e all’esterno dei paesi occidentali. Perché la globalizzazione lo
ha proiettato oltre i confini degli stati-nazione in uno spazio
nuovo, privo di storia, liberandolo dai vincoli e dalle regole che
gli sono stati imposti nella storia dell’occidente.
Ma la globalizzazione è anche l’accelerazione e intensificazione
dei sistemi di trasporto e di comunicazione, l’avvento della
televisione, delle reti telematiche che annullano le distanze di
spazio e di tempo unificando il mondo alla velocità della luce.
Fenomeni che si riverberano su quello precedente anche per effetto
della trasformazione dei modi di vita locali che subiscono
immediatamente l’impatto di eventi che avvengono sull’altro
emisfero del pianeta.
E’ poi l’integrazione delle vite locali in una comunità
mondiale che determina una nuova, conseguente, dimensione del “locale”
come elemento del “globale”.
La globalizzazione rende evidente la progressiva scomparsa della “natura”
come insieme di ambienti indipendenti dall’azione umana dovuta all’impatto
ecologico delle produzioni industriali a livello planetario. E’
questo probabilmente l’unico aspetto che rende veramente “globali”
nel senso di “universali” i processi locali di degrado dell’ambiente
dovuti a diretti interventi umani.
E’ infine il fenomeno della “riflessività sociale” cioè la
crescente capacità dell’uomo comune di rendersi conto dei
mutamenti in atto, delle incertezze e dei rischi connessi al nuovo
ordine sociale globale che le politiche economiche statali e lo
Stato sociale non controllano più. I convegni mondiali dedicati
allo “sviluppo sostenibile” testimoniano questa crescita della
riflessività almeno nel senso di una sempre maggiore consapevolezza
di un destino unitario dell’umanità.
Tutti questi sono ingredienti della unificazione del pianeta che
vanno considerati fra i fattori del declino della politica
tradizionale organizzata su base statale. Essi pongono problemi
nuovi per i quali occorre una radicale riformulazione della politica
soprattutto da parte della sinistra organizzata che della
globalizzazione non ha mai discusso seriamente.
2.2 Qual’è l’ideologia sottostante al neo-liberismo?
Il globalismo di punta occidentale è strettamente legato a una
nuova ideologia, generalmente definita neo-liberismo, che ha
prevalso sulle tradizioni liberal-democratiche e
social-democratiche. Per la buona ragione che le regole del gioco
del “libero mercato” sarebbero incompatibili con quelle che
hanno reso possibile, soprattutto in Europa, il “compromesso
sociale” fra i fini dell’accumulazione e i conflitti causati
dalle disuguaglianze sociali. Lo stato nazionale era stato il
fattore principale di quel compromesso mediante le leggi del welfare
e una serie di vincoli imposti al mondo degli affari. Pertanto il
globalismo neo-liberista, in generale, vuole il declino dello stato
in quanto cornice tradizionale nella quale il capitale e il lavoro
si confrontavano. Questo fenomeno, unito alla crisi dei rapporti
sindacali tradizionali, ha reso sempre più difficile alla sinistra
la formulazione di messaggi politici alternativi. Infatti le idee,
il linguaggio e le proposte della sinistra non si nutrono delle
innovazioni globali che il mondo sta sperimentando.
Ma il neo-liberismo è qualcosa di più profondo. In quanto
considera un valore universale la promozione della crescita
economica continua e l’illimitato miglioramento del benessere,
può considerarsi una pseudo-religione. Il sociologo Georg Simmel,
nella sua “Filosofia del denaro” pubblicata oltre un secolo fa,
scriveva: “La caccia selvaggia al denaro, la passionalità che
trasmette alla vita economica, anzi alla vita in generale, avvicina
l'effetto del denaro allo stato d animo religioso. Tutta
l'eccitazione e la tensione accumulate nella lotta per il denaro
costituiscono la condizione di un riposo felice nel possesso di ciò
che e stato conquistato [così come] la pace dell anima, che i beni
religiosi procurano... raggiungono il più elevato valore soltanto
come premio della ricerca e della lotta per trovare Dio”.
Il “corporate management” (quando non viola apertamente le
regole del gioco come negli scandali recenti) è dunque qualcosa di
simile a una setta religiosa che annuncia la salvezza del mondo a
opera del mercato. Per il neo-liberismo l’impresa capitalistica è
l’anima di tutto ciò che funziona e che fa progredire la
società. Dunque la comunità degli uomini è soltanto una rete di
interessi; l’uguaglianza si verifica negli uguali possessi in un
mondo totalmente mercificato; il sistema di mercato non soltanto
massimizza l’efficienza economica ma è anche la garanzia
principale della libertà individuale e della solidarietà sociale.
Secondo l’ideologia neo-liberista l’efficiente funzionamento del
libero mercato e dell’impresa esigono un sistema pubblico
depoliticizzato, cioè sottratto alle decisioni delle istituzioni
democratiche e affidato soltanto alle funzioni regolatrici e
ordinatrici della scienza e della tecnica, proprio come avviene
nella gestione aziendale. Dunque la politica deve essere sostituita
dalla “buona amministrazione” e lo Stato deve essere ricondotto
alle sue funzioni minimali.
Ma l’aspetto più pesantemente ideologico della dottrina
neo-liberista consiste nel rifiuto di ammettere che l’accumulazione
capitalistica possa avere dei “limiti”. Che cioè la crescita
basata sui consumi energetici attuali (dei combustibili fossili) sia
destinata a scontrarsi con il disastro ecologico che si approssima
in modo esponenziale. Inoltre che la dinamica dell’arricchimento e
della crescita del benessere su quelle fondamenta sono fenomeni
destinati a negare la possibilità stessa della globalizzazione di
un modo di vita. In una parola: che l’accumulazione capitalistica
debba essere riconsiderata entro una dinamica storica che sta
rivelandosi potenzialmente distruttiva per le sorti globali dell’umanità
molto più velocemente di quanto si potesse lontanamente immaginare
un secolo fa.
Viene allora da chiedersi due cose: se la dirompente contraddizione
immaginata da Marx tra lo sviluppo delle forze produttive e i
rapporti sociali di produzione capitalistici non debba essere ora
riconsiderata alla nuova luce dello “sviluppo insostenibile”. E
poi se la lezione derivante dal fallimento degli esperimenti
comunisti insegni che non il “libero mercato” concorrenziale, ma
piuttosto le immense concentrazioni monopolistiche siano da
contrastare nel loro potere di governare, al di là di ogni
controllo democratico, lo sviluppo economico e sociale del globo.
2.3 Qual è la dinamica specifica e quale il ruolo politico dei
grandi monopoli nel capitalismo globale?
E’ ben noto che la transizione dal sistema economico feudale a
quello capitalistico, collocabile intorno al XVI secolo, ha
implicato fin dall’inizio la creazione di un mercato mondiale e
quindi una divisione mondiale del lavoro e della produzione di
merci. Dunque sin dalle origini del capitalismo una qualche forma di
mondializzazione del sistema economico ha avuto corso mediante per
esempio la trasformazione dei commerci a lunga distanza dei beni di
lusso in commerci di beni essenziali. Questi commerci collegavano e
concatenavano fra loro lontani processi produttivi di merci e, in
tal modo, rendevano possibile l’accumulazione di rilevanti quote
di plusvalore e la concentrazione del capitale nelle mani di pochi.
Come hanno dimostrato gli storici Fernand Braudel e Immanuel
Wallerstein, quei collegamenti hanno preceduto la formazione delle
economie nazionali europee ed extra-europee.
L’economia capitalistica, anche attraverso il sistema
inter-statale, si è poi diffusa nell’intero globo. Mentre però
la diffusione mondiale del sistema di mercato costituisce una
caratteristica del capitalismo, il mercato stesso non ne rappresenta
che un elemento poiché esso preesisteva nel sistema feudale e non
è stato assente neppure nei sistemi socialisti. Braudel e poi
Wallerstein hanno messo in evidenza che il sistema capitalistico, in
realtà, è costituito dai tre distinti livelli menzionati sopra
come un edificio a tre piani:1) il primo è dato da quella che si
può definire la civiltà materiale della vita quotidiana e dei suoi
piccoli scambi al livello economico di base; 2) il secondo è dato
appunto dal libero mercato che è tendenzialmente concorrenziale nel
senso che i prezzi sono determinati prevalentemente dall’offerta e
dalla domanda e si colloca in posizione intermedia nell’economia
con un basso livello dei profitti; 3) il terzo livello, quello
propriamente “capitalistico”, sta alla sommità dell’economia,
ed è dato dai gruppi monopolistici i quali, con l’essenziale
sussidio dei poteri statali, si appropriano di larghe porzioni del
mercato e realizzano grandi profitti imponendo i loro prezzi, le
abitudini di consumo e, in generale, la cultura egemonica più
consona all’accumulazione del capitale e alla distribuzione
ineguale di ricchezza che gli è propria.
E’ dunque falso, anche storicamente, che il “libero mercato”
sia la caratteristica principale del capitalismo come proclamano i
suoi ideologi. E’ piuttosto vero il contrario: il capitalismo
esiste e prospera proprio perché attua il “libero monopolio”
cercando sempre e ovunque di sottrarre allo stato il suo potere di
regolare il mercato opponendosi al dominio dei grandi produttori e
di difendere la libera concorrenza a vantaggio dei consumatori.
Occorre tuttavia tenere presente che la struttura monopolistica è
in generale la più innovativa e che il progresso tecnologico ha
avuto in essa il principale mezzo di diffusione.
Dunque quale è la differenza fra il capitalismo monopolistico
tradizionale, con la sua diffusione da oltre cinque secoli a livello
mondiale, e il capitalismo attuale della “globalizzazione”?
Direi che consiste in due aspetti: 1) il “sistema-mondo”
capitalistico globale, come è già stato detto, ha notevolmente
ridotto i poteri nazionali e dissolto la rete inter-statale che
vincolava i commerci mondiali e il potere dei gruppi monopolistici;
2) il capitalismo monopolistico globale informatico dispone di mezzi
di informazione-comunicazione che lo rendono più fluido ma anche
più trasparente di prima. La formazione dei prezzi dei prodotti e
dei servizi nel caso dei monopoli è sicuramente sottratta al “libero
mercato” essendo frutto della decisione di pochi grandi gruppi, e
tuttavia quei prezzi, soprattutto quelli dei prodotti finanziari e
degli strumenti più diversi della “corporate finance” (azioni,
obbligazioni, strumenti derivati e valute estere) commerciati
giornalmente per trilioni di dollari, sono on-line ogni istante su
Internet, a disposizione di tutti.
La borsa americana più importante, che tratta i titoli di migliaia
di aziende, è denominata NASDAQ - North American Securities Dealers
Automated Quotations - ovvero “quotazioni automatizzate degli
agenti di borsa nord-americani” - e dunque in essa il commercio
dei titoli avviene esclusivamente per via telematica. Il mercato
globale è caratterizzato proprio dal sistema informatico che ormai
prevale nel mercato finanziario e nel mondo delle “merci”, dal
grano alle materie prime, dalle risorse energetiche ai metalli
preziosi. Gli strumenti appositamente creati dall’ingegneria
finanziaria per trattare l’immenso valore degli scambi quotidiani
via Internet hanno avuto un’incredibile sviluppo negli ultimi
dieci anni. Ma sono anche stati all’origine delle frodi che
minacciano il capitalismo delle grandi corporations e delle violente
crisi mondiali dell’ultimo decennio.
2.4 Come ridare forza alla democrazia e come introdurla negli
organismi internazionali?
La globalizzazione ha creato una società mondiale che però è una
società priva di un governo. Dunque il sistema globale dei mercati
non si accompagna a un parallelo estendersi delle garanzie e delle
regole di una politica legittimata dal pubblico consenso, come è
avvenuto in passato negli Stati territoriali nazionali. La società
mondiale non-statale si compone di attori transnazionali che
scavalcano le sovranità tradizionali dotandosi di una sovranità
propria. Se c’è il rischio che la democrazia nei governi
nazionali eletti con voto popolare sia ridotta a un inganno, essa è
sicuramente assente nelle istituzioni internazionali create per
governare il mondo globale.
Poiché la globalizzazione produce una società mondiale senza uno
Stato mondiale e senza un governo mondiale, sono sorte istituzioni
“supplenti” come l’ONU, la Banca Mondiale (WB, World Bank), il
Fondo Monetario Internazionale (IMF, International Monetary Fund), l’Organizzazione
Mondiale per il Commercio (WTO, World Trade Organization). L’ONU,
come è noto, è condizionata dal Consiglio di Sicurezza e dal
potere di veto delle superpotenze. Le altre istituzioni sono
governate in modo non democratico e sono palesemente dominate dagli
USA
La struttura decisionale dell’ IMF, per esempio che ha compiti di
coordinamento e di sorveglianza delle politiche economiche dei paesi
membri ha una struttura decisionale che non differisce molto da
quella di una normale società d’affari. I 182 paesi “azionisti”
sono tutti rappresentati in un Consiglio di Governatori (l’Assemblea)
ma le decisioni che coinvolgono milioni di persone vengono prese dai
ministri economici e dai governatori delle banche centrali di soli
24 paesi che costituiscono il Consiglio d’amministrazione, con
sede a Washington. I diritti di voto sono tuttora attribuiti in base
al potere economico degli Stati membri qual’era nel lontano 1944.
Ne consegue che dei 24 Direttori esecutivi 12 sono emanazione dei
paesi industriali e 12 rappresentano tutti i paesi in via di
sviluppo i quali, oltretutto, detengono soltanto il 33% dei voti.
L’unico rappresentante ad avere potere di veto è quello degli USA
poiché, avendo una quota superiore al 15%, può bloccare ogni
decisone che richieda una maggioranza qualificata dell’85%. Dalla
fine degli anni ’80, dunque in coincidenza con la fase di maggiore
spinta alla globalizzazione, l’IMF è ormai al centro del sistema
monetario e finanziario internazionale e quindi può esercitare una
considerevole influenza nella direzione, soprattutto imposta dai
paesi occidentali e dagli USA, della “liberalizzazione” dei
sistemi economici. Dunque 1) della soppressione dei vincoli pubblici
ai sistemi produttivi, al mercato del lavoro e ai mercati finanziari
nazionali, e 2)della privatizzazione delle imprese pubbliche.
Insomma la politica che favorisce non certo il “libero mercato”
ma gli interessi delle grandi transnazionali. Dunque molto c’è da
fare per migliorare il livello democratico di questa istituzione
economica dominata dall’ideologia neo-liberista.
Ma l’istituzione che più di tutte serve a questi scopi, anche se
la meno potente economicamente trattandosi un organismo “tecnico”,
è proprio il WTO cui è affidato il compito di regolamentare il
commercio internazionale (che supera ormai i 6 mila milioni di
dollari annui) attraverso due processi. 1) Quello della “liberalizzazione”
(deregulation) che, a livello globale, non soltanto abbatte le
barriere doganali, ma anche sottrae il mercato alla protezione
pubblica dei consumatori e 2) quello della “mercificazione
oligopolistica” dei servizi pubblici (come per es. la sanità e l’istruzione),
per trasferirli al livello capitalistico gestito dai grandi
oligopolisti transnazionali.
Nato ufficialmente con un trattato del 1994, conta 144 paesi membri
e funziona con una segreteria, con sede a Ginevra, composta da 533
funzionari per la maggior parte nominati dai paesi industrializzati
dell’OCSE. La reale gestione politica del WTO è affidata al
Consiglio generale. I numerosi gruppi di lavoro e la concomitanza
delle riunioni dei vari comitati riducono drasticamente la
possibilità di partecipazione dei paesi sottosviluppati. L’Europa
è rappresentata da funzionari della Commissione Europea non eletti
democraticamente.
In generale gli obiettivi del WTO, mediante Accordi raggiunti con
forme di “consenso” delle parti e quasi mai con votazioni,
riguardano 1) le tariffe doganali (il GATT, General Agreement on
Tariffs and Trade) 2) il commercio dei servizi o (GATS , General
Agreement on Trade and Services), 3) l’agricoltura, 4) i diritti
di proprietà intellettuali (brevetti), ecc. Il GATS in particolare
riguarda scambi di servizi per 1300 milioni di dollari, dunque per
quasi un quarto del totale dei 6000 milioni che rappresentano oggi
il valore annuo del commercio mondiale. Con i suoi regolamenti
coattivi diretti alla liberalizzazione generalizzata, dietro la
spinta delle potenti lobby delle società transnazionali, minaccia i
servizi ancora detenuti o difesi dal settore pubblico come la
sanità, i servizi sociali, l’ambiente, la cultura. Molti governi,
in linea di principio democratici, che hanno già di fatto accettato
di trasferire immensi poteri ai mercati finanziari globali,
potrebbero finire per cedere i servizi pubblici essenziali per la
difesa dei diritti umani al “libero mercato”delle società
trans-nazionali.
Come fare a raggiungere un più accettabile livello di regole
globali in aree come l’ambiente, i diritti umani, le transazioni
commerciali e finanziarie e le condizioni del lavoro, senza un “governo
globale”? Ma se le istituzioni delegate per ora a tali scopi hanno
un così basso o nullo coefficiente di trasparenza e di
democraticità, il “libero mercato” sarà sempre più quello del
capitalismo trans-nazionale dei grandi affari, nemico delle regole
economiche, politiche, ecologiche, ecc., che ostacolano i fini dell’immediato
profitto. Per milioni di lavoratori nel mondo questo può
significare il peggioramento delle condizioni di lavoro e
oppressione politica e sociale. Per miliardi di uomini questo può
significare l’oppressione autoritaria sotto le bandiere della “libertà”
di impresa. Forse un ritorno proprio al libero mercato, che sia
cioè “libero” dalle strategie delle trans-nazionali dell’energia,
degli alimenti, dei farmaci, dei brevetti transgenici, della cultura
mediale, ecc., potrebbe essere l’obiettivo della nuova sinistra
anche nelle istituzioni globali.
2.5 Vi è una globalizzazione che, producendo crescita economica,
non determini anche la crescita delle disuguaglianze?
Recenti studi rivelano che la globalizzazione, a dispetto delle
affermazioni degli ideologi del globalismo americano, riduce la
povertà come proporzione della popolazione ma accresce il numero
dei poveri e accresce l’ineguaglianza fra paesi ricchi e paesi
poveri. Nei 172 anni considerati (1820-1992) il reddito medio degli
abitanti del mondo è aumentato 7,6 volte, quello del 20% dei più
poveri è aumentato solo 3 volte e quello del 10% dei più ricchi
quasi 10 volte. Dal confronto della distribuzione del reddito
mondiale e delle aspettative di vita risulta che tra il 1820 e il
1950 si è avuta la punta massima della crescita di ineguaglianza:
il 20% più povero della popolazione è passato dal 4,7% al 2,4% di
spettanza del prodotto mondiale lordo, dimezzando la sua
partecipazione al reddito, mentre il 10% più ricco è passato da
avere il 42,8% ad avere il 51,3%.
Nella fase successiva 1950-1980 l’ineguaglianza è cresciuta più
lentamente: il 20% più povero della popolazione è passato al 2,0 %
mentre il 10% più ricco è passato al 51,6%. Infine, proprio negli
anni della globalizzazione 1980-1992, mentre il 20% più povero
della popolazione migliorava leggermente la sua posizione passando
ad avere il 2,2% del prodotto mondiale lordo, il 10% più ricco è
passato al 53,4% con un incremento percentuale annuo che in dodici
anni è stato almeno tre volte maggiore di quello realizzato nei
precedenti 160 anni.
Nei medesimi 12 anni la povertà è passata dal 55 al 51,3% della
popolazione ma i poveri sono passati da 2,498 miliardi a 2,545
miliardi. Sono stime che si basano sul confronto dei redditi
nazionali di singoli paesi o di gruppi di paesi e quindi va detto
che quando per esempio un singolo grandissimo paese come la Cina
attraversa una trasformazione che accentua le ineguaglianze interne
come è avvenuto nei dodici anni della globalizzazione esso
contribuisce in modo rilevante ad aumentare le disuguaglianze
mondiali.
Questi dati, che pure mostrano un trend meno disastroso,
contribuiscono sicuramente a spiegare i conflitti in atto emersi in
modo clamoroso l’11 settembre 2001. Ma per gli ideologi americani
le cose stanno altrimenti. Secondo il noto studioso Samuel P.
Huntington, superato lo scontro fra le opposte ideologie del
liberalismo e del comunismo, il futuro delle tensioni internazionali
sarebbe da considerarsi da ora in poi nel quadro di uno “scontro
tra civiltà” piuttosto che in quello delle lotte di classe oppure
dello scontro fra paesi ricchi e poveri, avanzati e sottosviluppati,
occidentali e orientali. Nel mondo post-guerra fredda sarebbero le
identità culturali delle diverse civiltà più che le
disuguaglianze economiche a modellare i processi di coesione, di
disintegrazione e conflitto.
Oggi di civiltà se ne contano almeno sette e cioè l’occidentale,
la cinese, la giapponese, l’indù, l’islamica, l’ortodossa, l’africana
e i potenziali conflitti sarebbero tutti imputabili alle frizioni
fra di esse. Questa è una tesi che non coglie l’essenza delle
trasformazioni cui assistiamo, anche se gli atti di terrorismo dell’11
settembre sembrano confermarla. Essi sarebbero infatti il frutto
dello scontro fra le civiltà islamica e quella occidentale. Ma vi
è da domandarsi piuttosto se non siano il frutto dello scontro fra
due estreme posizioni culturali, quella fanatica dell’Islam da un
lato e quella altrettanto fanatica del capitalismo iper-liberista
all’interno delle due civiltà.
Lo sconvolgimento operato dalla globalizzazione ha fatto nascere il
fondamentalismo religioso che è la difesa violenta di una
tradizione che pretende di possedere la verità e che perciò non
ammette dialogo, mentre è messa in discussione dai processi di
integrazione culturale. Ma probabilmente, come si è visto sopra, si
può definire fondamentalismo anche una forma estrema di cultura
laica perché caratterizzata da indiscutibili certezze.
Tale è il neo-liberismo in quanto espressione del culto del libero
mercato, del movente del profitto e dell’individualismo egoista
intesi come valori. Dunque lo scontro inedito che ha dato origine al
terrorismo islamico e al conflitto bellico, altrettanto inedito, che
ha costituito la risposta americana, possono essere interpretati
come la conseguenza dello scontro non fra due “civiltà” ma
piuttosto fra due fondamentalismi che sono, a loro volta,
espressione di una fra le tante possibili varianti culturali interne
di ciascuna delle due civiltà. E questi fondamentalismi accentuano
lo scontro economico sommandosi alle ineguaglianze fra paesi ricchi
e paesi poveri.
Non vi è dubbio che il problema dei “due opposti fondamentalismi”
debba essere affrontato, oltre che sul piano di una cultura della
tolleranza, anche riducendo l’impatto creato da disuguaglianze
economiche che il globalismo ideologico americano-occidentale non
può che accrescere rendendole in qualche caso assolutamente
esplosive. Ovviamente qui entrano in gioco fattori multipli, cioè
non soltanto l’ideologia occidentale ma anche l’egemonia
americana che offre, talvolta, il suo appoggio militare non al
libero mercato ma ai sistemi autoritari che favoriscono i grandi
profitti del capitalismo dei monopoli. Sotto questi aspetti una
globalizzazione che sostanzialmente riduca i dislivelli economici
mondiali non è ancora nell’agenda dei prossimi decenni. Ma
occorre discuterne sempre di più e con sempre maggiore insistenza.
*Guido Carandini (Roma 1929) è stato imprenditore e studioso di
problemi economici e sociali. Fra le sue pubblicazioni sono da
ricordare gli studi sulla teoria marxiana degli anni '70 e alcuni
saggi politici sulla sinistra in Italia degli anni '90. Ha insegnato
Storia delle dottrine economiche all'Università di Macerata. Nel
1976 e nel 1979 è stato eletto Deputato nelle liste del PCI.
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