La parola a Marc Augé
Sara Capogrossi
Docente alla Ecole des Hautes Etudes di Parigi, a conclusione di una
prolungata “vacanza” romana in veste di visiting professor
presso la cattedra di Marcello Massenzio - storico delle religioni
all’Università di Tor Vergata - Marc Augé è stato ospite alla
Società geografica italiana, per un’intervista collettiva sui
rapporti tra antropologia e geografia e sul possibile dialogo tra le
due discipline. Un invito, quello dei geografi italiani, che sembra
una risposta al provocatorio tema dei “non-luoghi”, introdotto
dall’antropologo francese nel suo libro più famoso e dibattuto: Nonluoghi,
per l’appunto (vedi Caffè
Europa 151 ). Un testo straordinariamente intenso, che rischia
però di oscurare il lavoro del suo stesso autore e di indurre a
fraintendimenti.
Per capire a fondo il significato di quest’opera occorre situarla
nel giusto contesto, insiste Massenzio, moderatore dell’incontro,
presentando l’ospite francese. Augé nasce, infatti, come etnologo
africanista e per lunghi anni studia sul campo società diverse
dalle nostre, e perciò tanto più difficili da penetrare. Frutto di
queste ricerche sono opere quali Il genio del paganesimo (che
sta per uscire per Bollati e Boringhieri) e Il senso del male,
in cui si approfondisce la differenza tra male e malattia. Solo più
tardi lo studioso volta lo sguardo dalle società esotiche per
dirigerlo sulla nostra realtà: cambia l’oggetto di studio,
dunque, e quindi cambia l’approccio; eppure c’è continuità nel
suo lavoro.

Innanzitutto, l’antropologo è interessato alla
produzione simbolica del senso, quale che sia l’ambito nel quale
si muove. Inoltre, Augé studia la trasformazione della nostra
realtà, il farsi altro della nostra società, e soltanto chi, come
lui, è abituato a decodificare l’altrui può capire il farsi
altro dell’identico, i nostri cambiamenti. Un nuovo modo di
pensare il tempo, che ci porta a riflettere sulla fine della storia,
sull’incapacità di darsi una prospettiva. Sul farsi altro dello
spazio, che ci porta ai non-luoghi. E i geografi si sentono
giustamente chiamati in causa dall’evocazione di spazi in cui la
geografia non avrebbe senso di essere: a questo nodo si riferisce,
per l’appunto, la prima domanda rivolta ad Augé da Armando
Montanari, direttore della Home of Geography: "Qual è il
rapporto tra l’antropologo Augé e la geografia? Noi sappiamo che
qualche decennio fa ha compiuto studi in Africa con colleghi
francesi. Nelle sue opere ho trovato citate molte discipline:
urbanistica, architettura, e così via. Negli ultimi lavori, però,
ho riscontrato poca attenzione nei confronti della geografia come
scienza. Ritiene che insieme ai non-luoghi non ci sia neppure una
geografia?"
"Quando ho fatto le mie ricerche sul campo, in Africa",
risponde Augé, "certamente la collaborazione con i geografi
era non solo necessaria, ma indispensabile, perché entrambi,
geografi e antropologi, non possono non prendere coscienza dell’importanza
primaria dell’organizzazione dello spazio, di come le varie
culture africane mettano in opera il senso dello spazio.
Fondamentale per lo studio delle civiltà africane è capire le
regole di residenza, che non sono arbitrarie, ma estremamente rigide
e perciò è necessario percepire i fondamenti dell’organizzazione
sociale, nonché capire la divisione precisa dello spazio. Dunque,
gli anni Sessanta e Settanta sono stati all’insegna di una
collaborazione forte fra geografia e antropologia. Poi c’è stato
un cambiamento di prospettiva.
"Il discorso dei non-luoghi certamente ha a che fare con lo
spazio - è una banalità - però decolla da questo concetto,
perché essi hanno a che fare con la nuova sensibilità culturale
che va sotto il nome di surmodernité e quindi attengono più
al simbolico immaginario che alla geografia propriamente detta.
Immaginario, simbolico, percezione dell’altro sono domande proprie
dell’antropologia. Ma la collaborazione non è finita. Nello
studiare i “filamenti urbani” ho dovuto ripristinare rapporti
stretti con la geografia.
"Per quanto riguarda il turismo, esso è un argomento centrale
della geografia e interessa lo studio della surmodernité, ma
il turismo che osservo io è altra cosa, perché è un turismo che
si rifà all’idea di consumo. Il turismo visto come consumo del
paesaggio, consumo dell’altro e quindi come simbolizzazione dell’altro
per arrivare al consumo. E in questo senso mi sono un po’
distaccato da quell’accoppiata formidabile che c’era prima tra
antropologia e geografia."
Claudio Minca dell’Università di Venezia, domanda invece ad Augé:
"Per noi geografi il luogo è un concetto sul quale abbiamo
riflettuto da sempre e da sempre abbiamo pensato di avere una sorta
di privilegio su questo soggetto. Quelli che lei cita come
non-luoghi (parchi tematici, aeroporti, ecc.) sono spazi in cui
molte persone lavorano, si incontrano, socializzano. Nel momento
stesso in cui assegniamo identità a questi spazi, come possiamo
considerarli non-luoghi?"
Risponde Augé: "Io non ho mai voluto fare una lista dogmatica
o manichea di luoghi, da una parte, e non-luoghi dall’altra. Ho
trattato questi termini come coppie di opposti (luoghi/non-luoghi),
una concettualizzazione che permette di aggredire la realtà.
Certamente è bene avere le idee chiare: la divisione è ideale. Nei
luoghi i segni dell’identità collettiva, della socializzazione,
del patrimonio culturale comune sono chiaramente visibili, perché
fissati nello spazio. I non-luoghi, per assurdo, possono aiutare a
capire i segni che contraddistinguono i luoghi, proprio perché se
ne evidenzia l’assenza."
Chiede ancora Minca: "Secondo lei il nuovo rapporto tra spazio
privato e pubblico ha cambiato i concetti di normalità all’interno
dello spazio pubblico e di devianza dalla stessa?"
Risponde Augé: "La tendenza dominante è tesa a privatizzare i
luoghi sociali. Nelle città sudamericane (come Caracas, per
esempio), i centri urbani sono diventati spazi interdetti a chi non
fa parte della borghesia danarosa. Sono cittadelle fortificate,
intorno alle quali c’è una serie di costruzioni miserabili, tipo
favelas. Uno spazio segnato da un’antinomia radicale
pubblico/privato, che rimanda a un’altra caratteristica della surmodernité:
la discriminante povertà/ricchezza è sempre più estrema, i ricchi
sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. È finita l’utopia
marxiana dell’egualitarismo. Lo spazio pubblico non è solo spazio
condiviso (per esempio una piazza come piazza Navona, a Roma), lo
spazio pubblico è quello in cui si forma l’opinione pubblica, che
nella surmodernité è su scala planetaria. Tutto ci
interessa, ma non c’è un luogo ove si formi l’opinione pubblica
su scala mondiale. Da qui il tentativo dei movimenti di protesta
(più o meno ingenuo, più o meno riuscito) per creare spazi dove
formare un’opinione pubblica all’altezza dei tempi."
L'ultima domanda è di Armando Montanari: "Come ha risolto il
dilemma del 'paradosso etnografico': la contraddizione che vede l’etnografo
lavorare sul campo e partecipare alla cultura, al linguaggio oggetto
di esame, provare empatia, e poi, necessariamente, assumere un
distacco critico, per elaborare il frutto dei propri studi?"
"Io sono piuttosto critico nei confronti dell’antropologia
postmoderna americana", dice Augé, "impegnata a criticare
i testi di antropologia. Stimo, invece, quella di stampo britannico,
Edward Evans Prichard, in particolare, è stato un autorevole
modello. Come ci insegna questo autore, onestamente si deve
distinguere ciò che appartiene all’indagine dall’interpretazione.
In questo modo si può anche prendere le distanze da un’interpretazione
che non si ritiene più valida, ma si può sempre riprendere e
riutilizzare il materiale raccolto, che è privo di considerazioni
personali. I problemi, le domande che l’etnologo rivolge all’altro
sul campo (all’estraneo) non sono diverse da quelle che ci si pone
quando si riflette su se stessi ed è questo che non ha capito l’antropologia
postmoderna".
I link:
Bibliografia
delle opere di Marc Augé pubblicate in italia
La
città dall‚immaginario alla finzione, da Undo.net (in italiano)
Un
estratto dal saggio "La guerra dei sogni. Esercizi di
etno-fiction" (in italiano)
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