Lezione di italiano in
palcoscenico
Anna Comodi con Antonia Anania
All’Università per stranieri di Perugia, quattro volte all’anno,
si può assistere a un insolito spettacolo teatrale: venti e più
studenti di nazionalità, età e culture diverse, mettono in scena
una storia d’amore medievale tra una donzella e un cavaliere. Può
capitare che un giovane russo impersoni il cavaliere, un’iraniana
la Primavera, che un giapponese partecipi al torneo e un’americana
faccia la strega, o una brasiliana la fata, ma non c’è nessuna
Torre di Babele, perché qui si recita in italiano.
A ideare questi spettacoli è stata la
professoressa Anna Comodi, ricercatrice in Didattica delle lingue
moderne all’Università, che da queste esperienze
teatral-pedagogiche ha tratto un libro in coppia con l’attrice
Rossana Gaone, L’italiano si impara… a teatro (Società
Sifa, Perugia 2001).
All’Università per stranieri l’italiano s’impara anche a
teatro; il British Council sostiene spettacoli comici in inglese
sulla storia di Roma; l’Ambasciata francese presso la Santa Sede
promuove corsi teatrali: è una tendenza o il teatro è la via più
didattica per insegnare le lingue?
Non so se sia la via più didattica ma di sicuro è una delle
migliori. Perché innanzitutto si scelgono testi che presentino i
tratti culturali del Paese dei quali si studia la lingua. Nel nostro
caso, io e Rossana Gaone abbiamo prodotto un testo teatrale che
presentasse agli stranieri la storia, il costume, il folklore
italiani. E’ nata così la storia di un amore impossibile
ambientato nel Medio Evo, ad Assisi, durante le feste della
primavera, tra giochi e tornei.
In secondo luogo, il linguaggio del teatro è vivo e piace agli
stranieri, spesso anche più di quello letterario che potrebbe
annoiare in certi casi. Infine lo straniero che è sempre molto
insicuro nel pronunciare i nostri plurali, gli irregolari, i verbi,
e che “perde” sempre la parte finale delle parole, è in qualche
modo portato a memorizzare le parole per intero, dovendo abituarsi a
pronunciarle in maniera scandita, a recitarle; quindi fa un lavoro
di ripulitura della lingua che sta studiando. E inoltre parla questa
lingua con tutto il corpo, non più seduto su un banco.
Il teatro, dunque, è una formula eccezionalmente completa per
insegnare le lingue straniere, e la credo una delle migliori, io che
faccio anche un telegiornale con i miei studenti, un giornale radio,
persino le tagliatelle, perché, come dicono i teorici, la lingua si
impara in azione.
Quali altri pregi ha questo “teatro linguistico”?
Organizzare dei gruppi teatrali significa mettere in pratica
quanto affermano da anni i grandi maestri della glottodidattica, e
cioè che è lo studente il protagonista del lavoro didattico, e che
il compito dell’insegnante è aiutarlo ad apprendere la lingua. Il
teatro è una forma di espressione e comunicazione immediata, dove
si nota subito se l’attore è stanco, dove il testo teatrale è
letto immediatamente dallo spettatore e il suo linguaggio è simile
a quello di tutti i giorni, ricco di ripetizioni, pause, sospiri.
Il teatro è anche terapeutico: viene usato per
curare bambini o adulti con problemi comportamentali, perché la
rappresentazione serve a tirar fuori emozioni che spesso rimangono
nascoste. E tra l’altro in un ambiente universitario è più
facilmente fattibile di un laboratorio di ceramica.
Come organizza le sue lezioni?
Per otto unità didattiche guido i miei studenti a conoscere il
testo che bisogna rappresentare, insegno loro alcune strategie che
riguardano l’intonazione, il colore da dare alle parole, l’articolazione
dei suoni. Poi nomino un regista, che a sua volta assegna i ruoli, e
a quel punto mi tiro indietro perché è ora che lavorino da soli.
E che cosa succede a questo punto?
Chi fa il regista imparerà a usare l’imperativo, gli attori
arricchiranno il loro vocabolario italiano con parole come “meschino”
o “avaro”. Può succedere anche che il gruppo non si metta d’accordo.
Ricordo un caso in cui i ragazzi venivano in classe in ritardo, fra
loro litigavano, c'era chi si ritirava da un ruolo e poi ritornava,
chi era invidioso della parte ottenuta dell’altro. Dal punto di
vista didattico comunque anche questa situazione era una vittoria,
perché li sentivo litigare in italiano.
Alla fine la rappresentazione di questo gruppo è stata una delle
migliori, perché il ragazzo tedesco che faceva il regista e col
quale spesso mi sono lamentata perché veniva a scuola scalzo e non
era puntuale, alla fine è stato bravissimo, ha dimostrato di essere
un artista: ha cambiato il testo, ha introdotto delle canzoni in
italiano e in tedesco e ha dato vita a una rappresentazione
effervescente.
Ritornato in Germania, mi ha scritto che fa ingegneria e ha scelto
di frequentare una famosa scuola pubblica di teatro perché ha
scoperto qui, con questo gioco linguistico, una vena recitativa. E
farà l’attore. Altri ragazzi invece mi hanno raccontato che
continuano a fare parte di gruppi teatrali nella loro Università di
provenienza, perché hanno scoperto che è utile e piacevole.
Come si formano i gruppi?
La ‘regola’ è mettere insieme classi eterogenee, persone con un
livello linguistico diverso. All’inizio tutti sono sottoposti a un’overexposition
del testo, perché lo leggono con me, lo analizzano dal punto di
vista storico-linguistico, lo discutono, lo provano. Con questa
tecnica anche lo studente di basso livello acquisisce il testo, dopo
averlo provato e riprovato dieci volte, e a sua volta lo studente di
livello più alto riuscirà a recitarlo con maggiore padronanza.
Entrambi dunque raggiungono un livello linguistico superiore.
Che cosa le rimane alla fine di ogni spettacolo?
Dal punto di vista pratico, mi rimane una videocassetta che mi
servirà per valutare le dinamiche del gruppo di lavoro. Dal punto
di vista emotivo e affettivo, mi rimangono impresse nella memoria
personalità che non avrei mai compreso fino in fondo se non le
avessi viste recitare e lavorare.
Capita che s’incontrino arabi e israeliani, americani, afghani
e pakistani nei suoi gruppi?
Nel gruppo di teatro estivo dell’anno scorso c’era un ragazzo
uzbeko - e l’Uzbekistan è stata piattaforma anche di passaggio
per le truppe americane -, uno marocchino, un’ucraina, un’americana,
inglesi e francesi. Dopo l’attentato dell’undici settembre ho
visto che questi ragazzi non sapevano più come trattarsi. Alle
prove, qualche giorno dopo, ho visto invece un gruppo di amici. L’hanno
detto anche alla fine dello spettacolo, davanti all’aula magna
gremita di studenti: fare teatro era stato il modo più concreto per
conoscersi e stimarsi, perché lavorando insieme intorno a un fatto
culturale le barriere cadono, e allo stesso tempo si fa un lavoro
eccellente di intercultura.
Da anni immemorabili si dibatte sulla necessità
di imparare l’inglese, il francese, cosa che sembra ancora più
necessaria adesso, in questi tempi di unificazione europea. E poi,
con sorpresa e orgoglio “patriottico” scopriamo che sempre più
persone vengono in Italia a conoscere la nostra lingua. E allora
concludiamo con due numeri di cui molti italiani non sono a
conoscenza. L’italiano pur essendo la diciannovesima lingua
parlata al mondo, dopo l’inglese, lo spagnolo, il cinese, il
portoghese e altre, è la quarta lingua studiata nel mondo. Perché
serve per l’import-export italiano, soprattutto dopo che anche l’Oriente
ha scoperto il nostro way of life e la dieta mediterranea;
serve per la musica operistica, per tutti i percorsi di studi
artistici, per apprezzare ancora di più Goldoni e Pirandello.
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