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L'uomo Atlantico
Josè Luis Sànchez-Martìn
La scorsa settimana al teatro Vascello di Roma è andato in scena lo spettacolo
interpretato e diretto dall'attrice napoletana Licia Maglietta, L'uomo atlantico,
che avevamo preannunciato in occasione dell'intervista di Caffè
Europa a Licia Maglietta , la sua principale interprete. L'uomo atlantico
è basato su testi dell'omonimo racconto assieme a La Malattia della Morte,
entrambi scritti da Marguerite Duras: in una stanza d'albergo con balcone in riva
all'oceano, un uomo e una donna trascorrono assieme un tempo indefinito, rarefatto ,
sfilacciato, condividendo un'amore fisico, appassionato, morboso, con la condizione posta
da lui -e da lei accettata- di pagarla in denaro per tutto ciò.
Il racconto della Duras, scritto con quella forza peculiare di insistenza intorno a un
tema, quasi sempre l'amore e la sua impossibilità di compimento, anche in questo caso si
impernia sull'incapacità di essere "presenti nel tempo che si vive", di
realizzare ciò che si ha difronte, quindi l'estraneità irriducibile della vita, lo iato
incolmabile tra il senso dell'Io e la realtà. Sotto questo profilo, l"uomo
Atlantico" è un concentrato di poetica, mirabilmente messo in campo con un fraseggio
asciutto, limpido, all'osso, dove memoria soggettiva, introspezione, proiezione,
narcisismo e autolesionismo psicologico si intrecciano assieme a un desiderio autentico e
frustrato di adesione ai sentimenti, ad una ricerca di completamento con l'altro che
tramite la dimensione corporea, carnale, marcatamente erotica sebbene mai sboccata, mai
banale, trova la via primaria per esprimersi e attuarsi.
L'uomo confessa glacialmente alla donna di non avere mai amato. A raccontarlo è la
voce femminile di Licia Maglietta, che si sdoppia nel ruolo di lui e di lei, bilanciando
le intonazioni, le pause e i moti interiori che filtrano dalle parole con una sorta di
imparzialità, di distacco partecipe che rende possibile a chi ascolta di immergersi nei
due rispettivi mondi e punti di visti lasciandosi trascinare più dal flusso complessivo
che non dall'identificazione con uno o l'altro dei personaggi.
L'attrice agisce all'interno di una piccola stanza, con luce filtrata: come di giorno con
le persiane chiuse; le sue pareti sono di un blu intenso e riverberano i colori del mare
di fronte a loro. Lo spazio è anche un recinto, un luogo scavato e ricavato nel mondo ma
fuori di esso, dove le coordinate sono solo quelle che si dipanano dal cuore e dalla mente
inquieta e perturbata dei due protagonisti. Le vibrazioni della voce che Maglietta imprime
ai toni del suo racconto sono di per sé cariche di suggestione, restituiscono
un'atmosfera non ordinaria, intensa e patetica, struggente e attorcigliata su se stessa.
I cambi di energia che il suo corpo intaglia nello spazio e quindi i gesti minimi ma
precisi, scelti con cura, che sottolineano ogni azione, sono sempre efficaci, in quanto
non superflui, non gratuiti. Anche lo sdoppiamento dei caratteri, rimarcato da intonazioni
più gravi per l'uomo, è misurata e non grava sull'intellegibiltà del testo, né sul
senso delle parole, riuscendo a legare in una sorta di flusso di coscienza voci separate,
un ritmo a singhiozzo, difficile e continuamente spezzato. Lavoro improbo per un attore
quando non ha altri mezzi che il corpo e la voce, senza il sostegno di oggetti di scena
(fatta eccezione per un lenzuolo bianco steso a terra che rappresenta il letto) di
scenografia composita, di musica che pompa l'emotività (uno soltanto è il tema musicale,
che subentra in funzione drammaturgica in pochi momenti dello spettacolo).
Le doti di questa attrice, nata artisticamente assieme a Mario Martone, con spettacoli
quali Tango Glaciale, Otello, Febbre Gialla, La seconda
generazione, lavorando poi con Toni Servillo in L'uomo dal fiore in bocca (anni
'80), Andrea Renzi in Rasoi, Carlo Cecchi in La locandiera, Elio De Capitani
in Caligola (anni '90) e di nuovo con Martone Direttore del Teatro di Roma nell'Edipo
Re (2000), sono indiscutibili. Sebbene il suo successo cinematografico per il grande
pubblico sia arrivato tardivamente in rapporto alla sua lunga attività di attrice, vale a
dire con il film pluripremiato ai David di Donatello (tra cui lei come migliore attrice
protagonista) Pane e Ttulipani di Silvio Soldini, il suo naturale ma anche
coltivato talento si era già espresso in Morte di un matematico napoletano
sempre di Martone o Le acrobate di Soldini, per citare i più famosi.
Un' attrice di questo calibro avrebbe meritato assai prima di essere riconosciuta, e
questo spettacolo dimostra ulteriormente che ella dispone di un'ampia tavolozza di colori
in senso attoriale, domina un registro cosiddetto 'naturalistico' e minimalista nel
cinema, così come in teatro domina il registro seducente di tutti gli attori di scuola
napoletana accanto a quello più strutturato, altero, impostato e neutro del modello di
attore classico: cosa assolutamente non comune in Italia. Nel cimentarsi con una regia su
e per se stessa riesce nondimeno a reggere l'ardua prova, evitando autocompiacimenti,
manierismi, ridondanze o smagliature nella struttura complessiva dello spettacolo, che
risulta fluido e coinvolgente nel suo insieme.
Unico appunto che viene da fare riguarda alcune impennate enfatizzanti che in sparuti
momenti dello spettacolo affiorano con cliché un po' troppo vicini a un certo teatro di
prosa classico dove l'attrice deve dimostrare di essere "brava", trappola in cui
altre celebri attrici "alternative" sono cadute quando si sono cimentate in un
teatro drammatico o dai toni delicati. Secondo noi questi picchi, leggermente didascalici,
risultavano fuori contesto e andavano a detrimento di quella linea di tensione che si era
andata creando. Il giudizio, in conclusione, resta assai più che buono, così come quello
espresso dal pubblico nel suo sentito applauso finale.
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